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Megatrend Forum: la sfida resta la formazione e il long term


Il mondo del private banking è a un bivio. O evolve, diventando protagonista della crescita imprenditoriale del Paese, o resta un mero gestore di patrimoni a corto raggio. Andrea Ragaini, presidente di AIPB (Associazione Italiana Private Banking) non ha dubbi che sia la prima la strada da imboccare. E lo ha detto con chiarezza durante il Megatrend Forum 2025 organizzato da Advisor.
“Conosciamo perfettamente il patrimonio personale dei nostri clienti, parliamo ogni giorno con imprenditori che si fidano di noi. Ora dobbiamo alzare l’asticella: diventare facilitatori della crescita delle loro aziende. Abbiamo gli strumenti per farlo” ha esordito Ragaini.
Un cambio di prospettiva profondo, quasi rivoluzionario, in un Paese dove l’85% delle imprese sono familiari e dove la gestione patrimoniale personale resta spesso disconnessa da quella aziendale. Eppure, proprio questa frammentazione, secondo Ragaini, rappresenta oggi la più grande opportunità per il settore.

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A sostenere la sua tesi arrivano i dati dell’ultimo osservatorio AIPB: solo un imprenditore su tre pianifica oltre i 12 mesi. Il resto naviga a vista, concentrato su operations, prodotto, costi. Nulla o quasi viene investito in visione strategica, finanza straordinaria, crescita per linee esterne. “Il problema non è la mancanza di ambizione. È la mancanza di consapevolezza” ha spiegato Ragaini. “E qui entra in gioco il nostro mestiere”.
I dati sono eloquenti: il 95% degli imprenditori italiani non conosce i club deal, l’83% ignora il private equity, l’82% il venture capital, il 75% i minibond. Per oltre il 90%, le uniche fonti di finanziamento restano autofinanziamento e credito bancario. La quotazione in Borsa? Una chimera: appena il 3% la prende in considerazione.

“Dobbiamo usare quello che sappiamo fare meglio, la gestione del patrimonio, come leva culturale” ha detto Ragaini. “Quando un imprenditore capisce cosa significa avere un’allocazione diversificata, strumenti illiquidi, un’ottica di lungo termine, allora può iniziare a guardare la sua azienda con occhi diversi”. Una sorta di contaminazione virtuosa, dove il private banker diventa non solo consulente finanziario, ma coach strategico, ponte tra mondo personale e mondo aziendale.

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“Il mondo dei Private Markets sta diventando un mondo di capabilities che vanno acquistate” conferma Luca Giorgi, head of wealth BlackRock Southern Europe. Del resto, spiega Giorgi, “su 100 aziende nel mondo solamente 12 sono quotate. Di conseguenza, se compro ETF o fondo comuni, in realtà compro solo il 12% dell’economia mondiale. E tre anni fa era il 15%”. E il restante 88% come lo acquisto? Con investimenti sui private market. Certo, il rendimento di un portafoglio di lungo termine potrebbe migliorare, passando dal 4% di un portafoglio bilanciato al 7% in prospettiva aggiungendo private market al portafoglio.

“Il game changer è rappresentato dagli Eltif 2.0 che sono attivi da novembre” rivela Giorgi. E il settore del  private market potrebbe così evolvere da alternativi a protagonisti del mercato degli investimenti.

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Ma prima di arrivare ad essere protagonisti del mercato – secondo Emanuele Bellingeri country head Italy di UBS Asset Management la strada è lunga. In primis in Italia la grande sfida risiede già nell’affrontare il tema dell’asset rischioso, quindi sul tema equity si dovrebbe fare education perché come confermano tutti gli studi tra cui l’UBS Global Wealth della banca svizzera appena rilasciato mentre in Italia la ricchezza finanziaria ha perso terreno (-4%) negli USA essa è cresciuta del 122% nello stesso periodo di riferimento. Ciò conferma che è giusto parlare di private asset ma prima serve lavorare sull’educazione del cliente e sul suo approccio al mercato. I private asset inoltre, così come hanno evidenziano i consulenti presenti in platea che hanno risposto al sondaggio indetto dalla redazione per coinvolgerli, la difficoltà principale ascrivibile al private market risiede nella complessità dello strumento che va spiegato in modo semplice e dalle competenze tecniche che richiede. 

Per Bellingeri la parola chiave per superare questa impasse è partnership tra asset manager e distributore per trasferire ai private banker le competenze necessarie, che di conseguenze sono poi trasmesse anche al cliente. Il private asset è comunque una sfida, e se nel breve termine secondo l’esperto non è presumibile che possa avere una crescita assimilabile a quella che ebbe lo strumento ETF in passato, è ipotizzabile che possa crescere senza raggiungere livelli esponenziali.

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Per Carlo Giausa vice direttore generale wealth management, advisory and solutions di Mediobanca Premier, per migliorare la conoscenza dei clienti la strada da fare è lunga, appassionante e sfidante. Il problema di fondo è che l’imprenditore non conosce il club deal e il private equity. Per educarlo bisogna avere una squadra di banker preparata. Per questo la formazione è essenziale. Nel portafoglio del cliente è importante ci sia l’investimento non quotato. 

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Per Alessandro Marchesin head of wealth e asset management del Gruppo Sella: l’investimento nei private market avrà un ruolo fondamentale nello sviluppo delle economie moderne. In Italia però le PMI non pensano più a quotarsi per i costi e la burocrazia. In generale, c’è una compressione dei prezzi del risparmio gestito. Se l’industria vuole dare valore aggiunto al cliente i mercati privati sono un’opportunità. 

Ma di fronte a quale cliente va portato il private market? Marchesin evidenzia che dal punto di vista reputazionale il lavoro giusto è stato fatto. I clienti sono stati profilati correttamente e i private market sono quelli giusti.  Bisogna però ancora fare  una formazione robusta dei banker e segmentarli per capire chi è in grado di fornire un certo tipo di prodotti.

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Per Giausa: i mercati private son l’unico modo affinché il cliente private entri nelle aziende non quotate. Dal punto di vista dell’offerta, l’eltif 1.0 ha prodotto poco. Aver allargato le asset class che comprendono eltif 2.0 va bene. La cosa importante è che l’industria, tra 4 o 5 anni, abbia dimostrato che quel premio al rischio di liquidità sia stato pagato. Questa sarà la garanzia della sopravvivenza dei mercati privati sullo small private banking.

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Adriano Nelli, head of Italy di PIMCO si è concentrato sul private credit, un settore che ha registrato una forte crescita negli ultimi anni, trainata dal comparto del Direct Lending. Una crescita che ha portato a una concorrenza intensa (nel 2023 si è assistito all’ingresso di un nuovo gestore ogni 5,1 giorni), una sovrabbondanza di capitali e inevitabilmente a una compressione degli spread medi. Ma l’universo del private credit è ampio, e secondo Nelli un segmento a cui guardare con interesse è quello dell’Asset Based Finance, un mercato che vale 20.000 miliardi di dollari. Si tratta di prestiti che avvengono al di fuori dei mercati tradizionali di credito societario e immobiliari, come ad esempio i mutui residenziali o il credito ai consumatori. “L’ABF può essere un complemento efficiente al direct lending tradizionale, offrendo un potenziale di rendimento aggiustato per il rischio più elevato e una maggiore diversificazione”.

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Infine Fabio Cubelli, condirettore generale di Fideuram ISPB, e Fabrizio Greco, amministratore delegato e direttore generale di BPER Banca Private Cesare Ponti, si sono confrontati su una serie di dicotomie, sei nello specifico, utili non solo per mappare lo stato dell’arte, ma anche per cogliere le traiettorie di sviluppo future, i megatrend.

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Il primo nodo toccato riguarda la contrapposizione tra sistema bancario tradizionale e nuove iniziative nel private banking. Greco sottolinea un fenomeno in apparenza contraddittorio: mentre si assiste a una progressiva riduzione del numero dei gruppi bancari, aumentano le iniziative nel wealth management. Un paradosso solo apparente, spiega, perché “il private banking richiede un assorbimento di capitale molto ridotto rispetto alle masse gestite, e questo lo rende strategicamente attrattivo.” 

Microcredito

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Cubelli, dal canto suo, fotografa: “Oggi il mercato si divide grosso modo in tre blocchi – banche (50%), banche private (20%) e reti di consulenti finanziari (20%). Il vero elemento di rottura sarà la capacità di sfruttare in modo strategico le reti distributive per conquistare quote di mercato”.
La riflessione prosegue spostando il focus sull’evoluzione del cliente, lungo l’asse investitore passivo vs co-decisore. Cubelli propone una lettura più articolata, introducendo una doppia dicotomia: non solo il cliente può essere passivo o attivo, ma anche il banker può agire in modo più o meno autonomo, creando così quattro possibili combinazioni. La direzione però è chiara: ci si aspetta un crescente protagonismo da parte dell’investitore. Greco lega invece la tipologia di cliente a due fattori: l’età e la natura del patrimonio. I clienti più anziani tendono a delegare, mentre i cinquantenni, i clienti “giovani” del private banking, cercano un dialogo più attivo. 

Un altro tema centrale è la preferenza tra amministrato sotto consulenza e gestione patrimoniale. Cubelli evidenzia come il primo modello sia in forte crescita, in particolare nei mercati più maturi come quello statunitense, dove la consulenza viene remunerata in maniera anche più corposa. Greco concorda, sottolineando però che in Italia questo passaggio implica un profondo ripensamento del modello di business: “Non è più sostenibile pagare i banker solo a commissioni. L’amministrato in consulenza deve essere una proposta strutturata, non un pretesto per generare ricavi”. E, passando alle gestioni patrimoniali tradizionali, Greco ne riconosce il valore, ma ne denuncia la percezione negativa: “Va svecchiata. Manca un benchmark chiaro e le esperienze passate dei clienti spesso non sono state soddisfacenti. Serve un’azione a livello di industria”.

Il nodo del pricing, espresso nella dicotomia fee-only vs commission based, rappresenta uno dei punti più delicati del rapporto banca-cliente. Greco osserva come il modello a parcella stia lentamente prendendo piede anche in Italia, spinto in particolare dalla presenza di family office, che tendono a preferire relazioni basate su fee esplicite. “Il punto – afferma – è far capire che la parcella è il prezzo di un servizio, non un costo accessorio”. Cubelli, però, evidenzia una resistenza culturale ancora radicata: “Molti clienti preferiscono non sapere cosa spendono. Anche se inviamo prospetti costi dettagliati, raramente vengono letti”.

Nel dialogo entra anche il tema dei mercati, e in particolare la contrapposizione tra mercati pubblici e mercati privati. Su questo punto, Cubelli si scaglia contro il termine “democratizzazione”, spesso usato a sproposito: “I private market non sono per tutti. In Italia i volumi significativi li fanno solo gli enti istituzionali. Per i banker, è un’attività che richiede molto tempo senza ritorni economici proporzionati”. Greco conferma: “Oggi, con la risalita dei rendimenti dei titoli di Stato, molti clienti hanno abbandonato l’interesse per i mercati privati. Tuttavia, con i family office e gli imprenditori, l’attenzione resta alta. Soprattutto questi ultimi, che si annoiano a parlare di finanza, mostrano entusiasmo quando si parla di economia reale”.

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In chiusura dell’evento, il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè ha evidenziato che finalmente si stanno creando le condizioni perché l’Europa torni ad essere protagonista come destinazione per gli investimenti in private capital. Gli Stati Uniti stanno mostrando fragilità preoccupanti che il Vecchio Continente può sfruttare. Ma perché questa rinascita si concretizzi, secondo Carnevale Maffè è necessario che l’Europa intervenga su tre fronti. In primis, servono delle grandi piattaforme industriali europee. Strumenti di cooperazione su larga scala, finalizzati a colmare i ritardi industriali e tecnologici che si sono accumulati negli ultimi decenni. Il secondo fronte è la creazione di un mercato unico dei capitali, focalizzato su early stage, Venture Capital e Private Equity. Come sappiamo una grande debolezza dell’Europa è la frammentazione nei mercati finanziari, che ostacola la crescita di startup innovative e impedisce la crescita di nuove multinazionali. “Alla crescita delle startup dedichiamo briciole” commenta il professore “e poi ci perdiamo nel bosco, come Pollicino”. Da ultimo, ma non per importanza, è indispensabile promuovere l’efficienza, la trasparenza e la buona gestione delle aziende. Una sfida che si può vincere solo con una rivoluzione nella governance delle aziende europee.

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