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Arriva la terza ondata hi-tech e al centro ci sono i dati. Ma quante aziende li ha raccolti?


di
Daniele Manca e Gianmario Verona

Microcredito

per le aziende

 

Al centro di questa nuova rivoluzione tecnologica c’è l’intelligenza artificiale e quindi le informazioni. Molte imprese pensano di acquistare come sempre tecnologia, questa volta non è così

Da qui al 2040 andranno in pensione 9,9 milioni di persone nel nostro Paese. Ma ne entreranno solo 6,2 milioni. All’appello mancheranno 3,8 milioni di lavoratori. Ai valori di produttività pro capite attuale significa sottrarre circa 268 miliardi di valore aggiunto. Pochi numeri che nel corso delle audizioni in Parlamento per l’indagine conoscitiva sull’intelligenza artificiale conclusa in primavera hanno colpito molto. Mentre le Big Tech americane e cinesi stanno investendo decine di miliardi di dollari per addestrare i vari Large Language Model in modo da renderli ancora più dotti e più user-friendly nell’impiego quotidiano e professionale, siamo ancora tutti alla ricerca di un senso a tutta questa intelligenza artificiale che sta invadendo la nostra esistenza. Ma probabilmente la risposta è in quei numeri.
Nei device che impieghiamo si palesano improvvisamente motori di AI, chatbot e co-piloti, senza che nessuno ne abbia chiesto l’inclusione.

Dubbi e domande

A volte ne apprezziamo l’utilità; spesso percepiamo fastidio, anche perché non capiamo l’opportunità di impiegarli ma neanche quella di negarne l’accesso (e se poi mi servisse?).
Nelle aziende più grandi e strutturate, soprattutto nelle multinazionali, pullulano progetti sperimentali per capire come inserire l’AI a vari livelli funzionali e divisionali. Il tutto accade spesso per richiesta dei board aziendali che prestano particolare attenzione alle mode del momento, con malcelata convinzione di chi deve invece sborsare tanti quattrini per sostenerli, e di chi poi la AI deve usarla (occorre poi assumere qualcuno che la capisca veramente e chiedere a qualcun altro di imparare a gestirla!).
Nel frattempo, molti fanno da Cassandra o, più precisamente, da neo-luddisti, istigando il dubbio latente che prima o poi scoppierà una bolla che metterà in discussione l’effettiva utilità dell’AI. Come era sembrato accadere qualche mese fa con la notizia della cinese DeepSeek, che però nulla ha prodotto se non un improvviso alert alle borse mondiali e poi un’ulteriore accelerazione della corsa tra sviluppatori di modelli.
Ma così come abbiamo scoperto grazie allo smartphone che alcuni oggetti pian piano scomparivano dalla nostra vita — si pensi alle sveglie, o alle agende che le aziende regalavano ogni anno a clienti e dipendenti — sembra anche arrivato il momento di chiederci seriamente: tutta questa AI ci serve davvero? E i primi a doverselo domandare non sono consumatori o clienti, ma le imprese. Soprattutto, in questa parte del mondo il cui tessuto industriale è composto da Pmi attanagliate dalla compilazione dei moduli della Transizione 5.0 e che si lamentano per trovare le risorse per coprire i crescenti costi energetici. La risposta è semplice: «Ebbene sì, serve. Ma…». Dove il «ma» è dirimente sull’effettiva utilità. Che in questa circostanza riguarda tre condizioni fondamentali.




















































Le condizioni

La prima di avere una base tecnologica e di dati su cui farla operare. AI è semplicemente la terza ondata di tecnologie «intelligenti» che in diversa misura possono aiutare a migliorare l’efficacia (fare le cose giuste) e l’efficienza (farle bene) di molteplici attività svolte in azienda. AI viene cioè dopo la prima digitalizzazione, che ha investito le scrivanie di desktop, le tasche di smartphone e orologi, anelli e vestiti di sensori. Viene anche dopo la seconda digitalizzazione che, mettendo in rete il patrimonio di conoscenza di persone e aziende, ha permesso di costruire grandi e piccoli dati preziosi per la creazione di valore. Se prima l’elaborazione di queste informazioni era effettuata in modo «artigianale», oggi la possiamo fare in modo «intelligente» grazie a machine e deep learning.
Attenzione quindi: se la mia azienda si trova indietro nelle prime due ondate — dotazione tecnologica a livello hardware e software e produzione di dati aziendali in “lake” dedicati — poco può fare con l’AI. Al contrario, se ho impostato progetti di raccolta dati puntuali su una base tecnologica decorosa, l’AI diventa uno strumento che, come diceva uno che di AI se ne intendeva, permette di fare letteralmente «cose che voi esseri umani non potreste immaginarvi» (cit. Rutger Hauer, in Blade Runner del 1982).
La seconda condizione riguarda la progettualità del suo impiego in azienda. L’AI serve a efficientare il lavoro routinario con i chatbot e i copiloti e serve a migliorare le cose complesse che ci accingiamo a fare. Per realizzare questi obiettivi occorre avere un progetto innovativo (cioè di change management) e la dedizione a esso. Come ai tempi della creazione dei primi siti Internet, ce ne è voluto per capire a cosa servissero le pagine delle nostre aziende che mettevamo on line perché andava di moda farlo. Prima erano strumenti di presenza in questo nuovo, misterioso mondo virtuale. Poi sono diventati potenziali strumenti di comunicazione. Fino alla transazione con i canali di e-commerce. Oggi integrano e a volte sostituiscono le attività che svolgiamo nel mondo analogico. La stessa cosa avverrà con l’AI se chi la prende in mano la gestisce in ottica innovativa. In questo percorso di adozione i primi che innovano sono quelli che più beneficiano. Ma i primi che mollano sono quelli che avranno un eterno rimorso.
La terza riguarda gli incentivi dati per la sua integrazione in azienda. Oramai diversi studi dimostrano che per averne un uso proficuo è fondamentale che ne sia incentivato l’impiego e che human sia in the loop. L’AI è una tecnologia intelligente ma non si alimenta da sola!

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Inversione di rotta

Stiamo vivendo la terza ondata di digitalizzazione che potenzialmente produrrà tanto valore. Soprattutto se la sapremo verticalizzare nei settori propri delle Pmi che, a differenza dei modelli generalisti di Gpt, Gemini, Claude e DeepSeek, ha bisogno di conoscenza idiosincratica settoriale. Pensiamo al farmaceutico, al lusso, alla micromeccanica e a tutti quei settori dove siamo leader per export. Se riusciamo a essere della corsa per renderla nostra nelle applicazioni verticali degli LLM potremo immaginare di fare in Europa le big tech della generazione dell’AI. E invertire l’idea che l’America innova, la Cina replica e l’Europa regola.

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