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Stati Uniti: agenda Trump 2.0, non solo dazi


Mentre, a giusto titolo, le politiche commerciali dell’amministrazione Trump hanno monopolizzato l’attenzione internazionale nella prima metà di quest’anno, esse sono solo uno dei pilastri del programma economico del 47° presidente degli Stati Uniti. Il prolungamento dell’insieme delle riduzioni d’imposta introdotte col Tax Cuts and Jobs Act del 2017 che arrivano a scadenza nel 2025, nonché ulteriori tagli alla tassazione, e le politiche di deregolamentazione erano anch’esse tra le priorità economiche del candidato Trump e non sono state dimenticate al momento del suo insediamento alla Casa Bianca. Solo che alcune di queste iniziative (in primis, quelle concernenti la tassazione) hanno tempi di attivazione più lunghi delle politiche commerciali in quanto richiedono l’approvazione del Congresso, mentre altre (per esempio, la deregolamentazione energetica) sono state meno notate perché per il momento il loro impatto economico è risultato limitato.

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Vediamo allora in cosa consiste “l’altra agenda economica di Trump” e come si collega alla sua politica commerciale, cominciando dal pilastro della politica fiscale.

One Big Beautiful Bill

Durante Trump I, il primo grande successo di politica economica era arrivato con l’approvazione del Tax Cuts and Jobs Act (TCJA) del 2017. Tuttavia, poiché i repubblicani in Congresso non erano riusciti ad assicurarsi l’appoggio di 60 senatori su 100, la legislazione era stata approvata attraverso il cosiddetto processo di “riconciliazione” tra Camera dei rappresentanti e Senato. Tale procedura necessita solo di una maggioranza semplice del Senato per l’approvazione e prevede, tra le altre cose, che il pacchetto di misure contenute nella legislazione non accresca il deficit federale oltre un certo periodo (“budget window”), tipicamente della durata di 10 anni. Parte dei tagli della tassazione contenuti nel TCJA aveva la copertura finanziaria (assicurata da riduzioni di spesa, entrate addizionali o eliminazioni di sussidi ed esenzioni fiscali) e fu dunque resa permanente (questo è stato il caso per l’abbassamento dal 35% al 21% dell’imposta sulle società). Tuttavia, un’altra parte dei tagli del TCJA (in primis, la riduzione dell’imposta sul reddito) era finanziata attraverso l’emissione di debito e di conseguenza nella legge vennero introdotte delle clausole che facevano decadere questa parte dei tagli tra il 2023 e il 2025 proprio per rispettare l’impatto zero sul deficit oltre i 10 anni. 

Il cosiddetto One Big Beautiful Bill (OBBB) approvato dalla Camera dei rappresentanti il 22 maggio scorso e al momento in discussione al Senato ha anzitutto l’obiettivo di prolungare e, laddove possibile, rendere permanenti le riduzioni d’imposta temporanee del TCJA. Inoltre, altri tagli di tasse sono stati aggiunti (per esempio, è prevista la detassazione delle mance e degli straordinari) e questo amplia i bisogni di finanziamento del progetto di legge. Secondo il Congressional Budget Office (CBO), l’agenzia federale preposta a valutare i costi delle leggi in discussione al Congresso, le riduzioni d’imposta vecchie e nuove e l’aumento delle spese militari nel biennio fiscale 2025-2026 (144 miliardi di dollari) – anch’esso incluso nell’OBBB – costeranno in totale tra i 3700 e i 3900 miliardi di dollari su 10 anni. Per rispondere a essi, i repubblicani alla Camera hanno previsto importanti riduzioni di spese, stimate dal CBO in 1300~1500 miliardi di dollari. I tagli di spesa si concentrano soprattutto su Medicaid (il programma federale sanitario che provvede aiuti sanitari a individui e famiglie con un basso reddito), sull’assistenza alimentare (aiuti sociali ai più demuniti attraverso buoni per spese alimentari) e sugli incentivi per affrontare il cambiamento climatico contenuti nell’Inflation Reduction ActNell’insieme l’OBBB aggiungerà 2400 miliardi di debito su 10 anni (3000 miliardi di dollari se si considerano anche gli interessi sul debito) e il conto potrebbe salire a 5000 miliardi se le riduzioni d’imposta temporanee e messe a scadenza nel 2028 (per esempio, quelle sulle mance e sugli straordinari) verranno prolungate o rese permanenti. 

Tuttavia, è improbabile che questo sia il conto finale dell’OBBB (la cui approvazione finale è attesa per fine luglio-inizio agosto). I senatori repubblicani hanno già segnalato che, anche al fine di accontentare constituencies che possono influenzare il risultato delle elezioni di metà mandato, intendono introdurre dei cambiamenti al testo di legge che molto probabilmente produrranno un peggioramento dei conti pubblici.

Mentre l’OBBB farà aumentare il deficit federale e il debito pubblico americano, una parte importante di questi aumenti sarà controbilanciata dalle entrate addizionali dei nuovi dazi introdotti da Trump, che, secondo le stime del CBO, ridurranno il disavanzo pubblico di 2800 miliardi di dollari nell’arco di un decennio. Di conseguenza, se il deficit statunitense negli anni a venire resterà in prossimità dei livelli attuali (~6% del PIL), salirà oltre essi o si ridurrà, dipenderà soprattutto dalle dinamiche di crescita dell’economia americana. Nel breve termine, è però probabile che il deficit aumenterà nonostante le maggiori entrate generate dai dazi sia perché l’economia sta rallentando sia perché una parte delle riduzioni d’imposta e delle spese iniziali si concentreranno nella fase iniziale, mentre diversi tagli di spesa avverranno solo verso metà/fine decennio. 

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Deregolamentazione

Un altro pilone portante della politica economica trumpiana è la deregolamentazione. Essa si concentra principalmente in due settori: l’energia e la finanza

Deregolamentazione energetica

Durante la campagna elettorale Trump aveva annunciato che avrebbe perseguito una politica di “supremazia energetica”. Appena eletto, ha emesso un ordine esecutivo che dichiarava “emergenza energetica nazionale”, ha sospeso nuove regolamentazioni nel settore e ha istruito le agenzie federali di eliminare 10 vecchi provvedimenti per ogni nuovo provvedimento introdotto. Inoltre, Trump ha ordinato all’Environment Protection Agency di eliminare i limiti alle emissioni di carbonio sulle centrali a gas e carbone introdotte durante la presidenza Obama, rilanciato la costruzione di gasdotti e oleodotti bloccati da Biden per ragioni ambientali, promosso l’espansione delle trivellazioni sul territorio americano e offshore, tagliato drasticamente i fondi alla ricerca sul cambiamento climatico e, last but not leastabbandonato (di nuovo) gli Accordi di Parigi sul clima.

Guardando avanti, l’OBBB prevede un sostanziale taglio di finanziamenti e incentivi previsti nell’Inflation Reduction Act (IRA) approvato nel 2022. Tuttavia, alcuni incentivi e crediti d’imposta, che vanno sovente a beneficio di Stati repubblicani, verranno probabilmente mantenuti o eliminati solo gradualmente. Nell’insieme si assiste a un forte ribilanciamento dell’economia americana in favore delle energie fossili e a scapito delle fonti pulite. È questa un’evoluzione che avrà importanti ripercussioni negative sulla lotta al cambiamento climatico, anche alla luce del fatto che la posizione degli Stati Uniti spingerà molti Paesi emergenti ad abbandonare gli impegni presi sul clima e ad adottare politiche molto più lassiste nei confronti dell’utilizzo di energie fossili.

La massiccia deregolamentazione in corso in questo campo non ha però fin qui prodotto un forte aumento degli investimenti americani nel settore delle energie fossili. Il ritorno di Trump alla Casa Bianca ha infatti eliminato le remore dei Paesi produttori di gas e petrolio ad aumentare le loro produzioni. Questo ha innescato una riduzione dei loro prezzi. Di conseguenza, nel primo trimestre del 2025 gli investimenti in estrazione di gas e petrolio di scisto si sono ridotti poiché, per essere profittevoli, tali investimenti hanno bisogno di un prezzo relativamente elevato. Paradossalmente, sono invece aumentati gli investimenti nelle energie alternativein quanto c’è stata una corsa all’accaparramento dei fondi pubblici prima della parziale eliminazione dell’IRA che produrrà un loro forte ridimensionamento. Le cose potrebbero però cambiare alla luce (1) del conflitto in corso tra Israele e Iran e (2) degli accordi energetici che Trump sta tentando di imporre ai partner commerciali degli USA nell’ambito dei negoziati sui dazi. Entrambi questi sviluppi potrebbero condurre a prezzi più elevati delle energie fossili statunitensi, incentivandone così l’aumento degli investimenti e della produzione. 

Deregolamentazione finanziaria

La deregolamentazione trumpiana nel settore della finanza si sviluppa su due piani: (1) l’assunzione del controllo diretto e allo stesso tempo l’indebolimento delle agenzie federali di regolamentazione finanziaria (per esempio, la Securities and Exchange Commission – SEC, il Consumer Finance Protection Board – CFPB e per alcuni aspetti anche la Federal Reserve); (2) la promozione delle criptovalute per favorire l’innovazione e rafforzare il predominio finanziario mondiale degli Stati Uniti.

Nelle prime settimane della seconda presidenza Trump le agenzie di regolamentazione finanziaria hanno subito drastici tagli al personale e sono passate sotto il diretto controllo della Casa Bianca. Lo scopo di tali decisioni è quello di lasciare la mano libera alle imprese finanziarie: non a caso sono le divisioni che si occupano dell’applicazione delle regole e della protezione dei consumatori quelle a essere più colpite dal ridimensionamento in termini di risorse e personale.

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Dal canto suo, la promozione delle criptovalute si è sviluppata attraverso diversi canali. Dopo essersi inizialmente opposto a esse, Trump non solo ne è diventato un grande sostenitore, ma anche, insieme alla sua famiglia, un significativo creatore. Il fatto che il presidente degli Stati Uniti e la sua famiglia siano emittenti di criptovalute fornisce al valore di queste ultime un’implicita rete di protezione e favorisce scommesse speculative al rialzo. In secondo luogo, per favorire i creatori privati di criptovalute, Trump ha proibito alla Federal Reserve di sviluppare una Central Bank Digital Currency, in questo caso un dollaro digitale. In terzo luogo, la nuova amministrazione ha introdotto misure di deregolamentazione che favoriscono l’uso delle criptovalute (per esempio, indebolendo la supervisione delle attività dei loro emittenti). Infine, ha costretto le agenzie federali ad abbandonare i procedimenti giudiziari contro diverse imprese di criptovalute che hanno operato in violazione delle regolamentazioni in vigore. 

La consacrazione definitiva delle cripto in generale e delle stablecoin (valute digitali il cui valore è ancorato a un altro asset) in particolare avverrà con l’approvazione a breve del GENIUS Act da parte del Congresso: la maggioranza repubblicana al Senato ha approvato il testo di legge il 17 giugno con il sostegno di circa un terzo dei senatori democratici ed è molto probabile che la Camera dei rappresentanti introdurrà modifiche minori e lo passerà rapidamente. Lo scopo del GENIUS Act è quello di regolamentare le stablecoin al fine di promuoverne il loro utilizzo come mezzo di pagamento a livello domestico e internazionale, riducendo in parallelo i rischi di crisi finanziarie legati a un loro uso. Se coronata da successo, una tale operazione potrebbe rendere le imprese americane di criptovalute le leader mondiali nel campo dei pagamenti digitali. Tuttavia, diversi accademici hanno denunciato importanti limiti e difetti del GENIUS Act. Si tratterebbe, infatti, di un testo di legge inadeguato ad affrontare i rischi sistemici che le stablecoin presenterebbero. A questo si deve aggiungere il rischio che l’emissione di moneta privata potrebbe indebolire l’efficacia della politica monetaria delle banche centrali, creando instabilità macroeconomica. Come ha notato Paul Krugman, gli emettitori di stablecoin sono una sorta di banche ombra (shadow banks)le cui operazioni speculative possono condurre a profezie autorealizzanti che destabilizzano il sistema finanziario. Se così fosse, si starebbero creando le condizioni per la prossima crisi finanziaria. 

Smoke and mirrors

La politica commerciale trumpiana e il venturo One Big Beautiful Bill, oltre a creare turbolenza finanziaria, stanno cominciando ad avere un impatto sull’economia reale sia perché hanno generato una forte incertezza (i dazi trumpiani) sia perché, aumentando il debito pubblico (l’OBBB) o creando pressioni inflazioniste (di nuovo i dazi), spingono verso l’alto i tassi d’interesse e producono un inasprimento delle condizioni finanziarie.

Fin dal primo mandato, Trump si è espresso in favore di politiche monetarie espansive ed è entrato in contrasto con la Federal Reserve e il suo presidente Jerome Powell, accusati di avere un bias restrittivo e di ostacolare la sua strategia economica per motivi politici (anche se Powell fu nominato proprio da Trump). La tensione ha raggiunto il culmine subito dopo le tensioni sui mercati dei titoli di Stato il 9 aprile, al punto che fonti dell’amministrazione Trump ventilarono l’idea di un licenziamento di Powell da parte del presidente. Le reazioni negative sui mercati finanziari spinsero però Trump a fare marcia indietro e a negare che stesse considerando di far dimettere Powell. 

Non potendo inviare immediatamente qualcuno che gode della sua fiducia alla testa della Federal Reserve e/o limitare la sua indipendenza, Trump ha scelto di attendere (il mandato di Powell scade nel maggio 2026) e utilizzare la banca centrale americana come capro espiatorio per tutti i problemi che l’economia statunitense sta affrontando o si appresta ad affrontare. Per esempio, recentemente ha chiesto un taglio immediato dei tassi d’interesse di 100 punti base. Poiché questo non avverrà, Powell e la Fed verranno accusati di essere i veri responsabili dell’atteso rallentamento dell’economia americana e non invece le politiche commerciali e di bilancio perseguite dalla sua amministrazione. 

Conclusione

Con Trump grande è la confusione sotto il cielo (e non solo a causa dei dazi), ma, al contrario di quel che avrebbe pensato Mao Zedong, la situazione (economica) non è eccellente. Questo non significa però che vi sarà necessariamente una recessione o che una crisi del debito (l’attacco cardiaco economico preconizzato dall’imprenditore Ray Dalio) sia imminente o anche solo all’orizzonte. 

Nel primo semestre di quest’anno i dati saranno troppo distorti dall’incertezza generata dalle politiche commerciali trumpiane per poter valutare il sentiero di crescita su cui l’economia americana si sta incamminando. Se da un lato essa sta indubbiamente rallentando (anche se il -0,5% di crescita del primo trimestre non deve essere esagerato, essendo un dato distorto dal forte aumento delle importazioni, che sarà compensato dal loro forte declino atteso nel secondo trimestre), dall’altro lato, il mercato del lavoro resta resiliente, i profitti delle imprese, anche se in calo, rimangono elevati e per il momento gli effetti inflazionisti dei dazi sono risultati limitati (anche se potrebbero manifestarsi più fortemente nei prossimi trimestri). La borsa statunitense, dopo il forte calo generato dalle erratiche politiche commerciali di Trump, è tornata ai livelli record dell’inizio dell’anno, ma i rendimenti sui titoli di Stato restano elevati e le riduzioni d’imposta di Trump non aiutano a migliorare la situazione. Il dollaro, invece di apprezzarsi grazie agli elevati tassi d’interesse, si è deprezzato, segno che gli investitori stanno cercando di diversificare il loro portafoglio, riducendo la parte di attivi detenuti in dollari. C’è molta incertezza, instabilità e volatilità al di sotto della superficie, ma non è chiaro se e come si concretizzeranno

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In una prospettiva di medio termine, i dazi di Trump finiranno per produrre danni all’economia reale. Tuttavia, i rischi maggiori per l’economia statunitense non saranno generati necessariamente dai dazi in sé, ma deriveranno invece dall’instabilità finanziaria prodotta dall’interazione tra l’“altra agenda economica” di Trump e le sue politiche commerciali.   



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