Muovendo dalle norme di disciplina generale sulla liquidazione del danno per fattispecie di responsabilità contrattuale oppure extracontrattuale (l’art. 2056, comma 1, c.c., richiama pure gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.), esse impongono il nesso di consequenzialità immediata e diretta: hanno perciò rilievo i soli danni che dell’inadempimento o del ritardo “siano conseguenza immediata o diretta” (art. 1223 c.c.).
Il criterio imposto dalla legge è di tutt’altro che agevole applicazione, discendendone oneri a carico dell’attore che non è facile esaurire. Dall’insieme della elaborazione giurisprudenziale sul tema generale della responsabilità civile, sembra prevalere il c.d. criterio della “causalità specifica”: il danno sarebbe limitato non solo dalla regolarità causale generale in base all’esperienza, per cui da un fatto secondo l’id quod plerumque accidit discende un evento dannoso particolare, ma anche da una causalità da misurare particolarmente con la fattispecie specifica e con l’ambito di tutela impresso dalla norma nella disciplina del comportamento (le conseguenze non specifiche dell’inadempimento o dell’illecito, perché non contemplate dalla norma, non sarebbero tutelate nella dimensione del danno)[138].
Tale criterio è poi attenuato da alcune disposizioni limitrofe: il danno diretto e immediato non è risarcibile se si fosse potuto evitare con l’ordinaria diligenza da parte del creditore (art. 1227, comma 2, c.c.) oppure se si sarebbe ugualmente verificato a prescindere dall’inadempimento o dal suo ritardo (art. 1221 c.c.) oppure, ancora, nel caso di inadempimento colposo, se non fosse stato prevedibile al momento in cui è sorta l’obbligazione (art. 1225 c.c. applicabile solo alla responsabilità contrattuale, infatti la norma non è richiamata nell’art. 2056 c.c. per la responsabilità civile ex art. 2043 c.c.[139]).
Queste disposizioni meritano particolare attenzione nella fattispecie originata dalla responsabilità sociale degli amministratori e sindaci: la loro applicazione può rendere meno gravosa l’entità del danno.
Le difficoltà che le norme poc’anzi esaminate pongono in genere nella liquidazione del danno, si manifestano in maniera ancora più evidente, e qualche volta di difficile soluzione, nell’ambito della responsabilità sociale degli amministratori e dei sindaci. Le condotte di costoro, rilevanti agli effetti della responsabilità (e richiamate supra parr. 1.3, 1.4, 1.5), non sono mai condotte isolabili in atti o fatti specifici, ma costituiscono comportamenti di carattere generale, che non è facile identificare e allegare nella loro specificità e per i quali è quindi difficile cogliere i nessi di casualità imposti dall’applicazione dell’art. 1223 c.c.
Si tratta per lo più di condotte od omissioni che producono il pregiudizio fondante il danno nel loro complesso, ma proprio perché dettati da una pluralità di fatti omissivi o commissivi, ne risulta con maggior difficoltà intellegibile il nesso di causalità richiesto per l’individuazione e quantificazione del danno, come ritenuto nelle premesse dell’importante sentenza delle S.U. n. 9100/ 2015[140].
Peraltro, vi è da aggiungere che gli obblighi facenti carico agli amministratori (“i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”) nonché quelli facenti carico ai sindaci ex art. 2407 c.c. (“la professionalità e la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico”, “verità delle loro attestazioni” “segreto sui fatti e sui documenti di cui hanno conoscenza”) e art. 2403 c.c. (“rispetto dei principi di corretta amministrazione e in particolare sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”) hanno contenuti dettati da norme generali dalle quali è difficile trarre i comportamenti tipici che contraddistinguono la loro violazione, salvo i casi in cui il legislatore tipizza in maniera più precisa l’obbligo (ad esempio, per i sindaci i c.d. obblighi diretti, cfr. supra par. 1.3).
In tale quadro normativo, anche solo l’allegazione precisa degli inadempimenti o dei ritardi si rappresenta difficile per l’attore, discendendone una ancora maggiore problematicità nella allegazione e prova dei nessi di causalità con il danno[141].
Secondo un’evoluzione evidente, anche nell’ambito di altre responsabilità professionali, come quella del medico o dell’avvocato, l’esonero da oneri particolari in ordine alla diligenza prestata dal professionista, la cui prova incombe al professionista stesso, ha come contrappeso una maggiore severità della giurisprudenza nell’attività di allegazione delle condotte od omissioni all’origine dell’inadempimento, pur essendo esonerato l’attore dalla prova. Pertanto, una generica allegazione, con semplice richiamo agli obblighi imposti dalla legge con formule generali, potrebbe subire le conseguenze di un rigetto nel merito per mancata allegazione del fatto costitutivo del diritto. La generica allegazione, oltre a incidere sulla fattispecie di responsabilità, incide anche su quella del danno, rendendosi al giudice impossibile una cognizione dei nessi di causalità rispetto al danno preteso.
Tuttavia, una rigorosa applicazione dei principi poc’anzi evidenziati, alla luce di una corretta interpretazione dell’art. 1223 c.c., anche come ritenuta dalla citata sentenza delle Sezioni Unite del 2015, non sempre si rinviene nella giurisprudenza, ben consapevole delle difficoltà nell’allegazione del fatto e dei nessi di causalità, particolarmente in materia societaria, dove è violata una clausola normativa generica (si pensi solo all’omessa vigilanza sulla tenuta delle scritture contabili dei sindaci) che confluisce in una pluralità di condotte che non è sempre facile individuare. Il riferimento è alla diffusa tendenza della giurisprudenza ad introdurre criteri di liquidazione del danno presuntivi, attenuando l’applicazione delle regole generali in tema di responsabilità da illecito e, particolarmente, nella determinazione del danno provocato.
In questa prospettiva, per molto tempo si è abbracciato il criterio del c.d. “deficit fallimentare”[142] quando l’inadempimento emerge da una condotta generale degli amministratori e conseguentemente dei sindaci per la totale mancanza di tenuta della contabilità oppure per aver offerto una contabilità non in grado di consentire una ricostruzione dei fatti salienti dell’attività imprenditoriale, oppure, ancora, per il mancato rilievo della causa di scioglimento della società, quanto per perdita del capitale sociale la società si trova in una condizione di liquidazione, in vista della quale è consentito agli amministratori e sindaci un’attività meramente conservativa del patrimonio agli effetti del soddisfacimento dei creditori.
In ogni caso, il deficit deve essere inteso come differenza tra l’attivo risultante dall’inventario e il passivo risultante dal relativo accertamento, nell’ambito del procedimento fallimentare (oggi liquidazione giudiziale).
Il criterio presuntivo adottato fuoriesce in maniera difficilmente giustificabile dai principi di causalità imposti dall’art. 1223 c.c. e conduce a un inquadramento della responsabilità non più in termini risarcitori o di reintegrazione del patrimonio leso, ma in termini di vera e propria sanzione applicabile agli amministratori e, di conseguenza, ai sindaci[143] (su questo tema, v. infra par. 2.3).
Il deficit può essere originato, in difetto, dalla mancata insinuazione di alcuni creditori, non più insinuabili per decorso dei termini di legge per la proposizione della domanda relativa, ancorché tardiva; molto più spesso per eccesso, non tenendosi conto che le componenti attive del patrimonio dopo la messa in liquidazione, particolarmente se liquidazione concorsuale, subisce una drastica diminuzione di valore e che il deficit può essere originato anche delle spese necessarie per la liquidazione, che evidentemente alterano anch’esse il valore, senza che vi siano nessi di causalità con il comportamento generale degli amministratori.
Questa la ragione per cui, le Sezioni Unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 9100/2015 hanno introdotto argomenti che giustificano una soluzione di continuità rispetto all’orientamento “meccanicistico” che individua il danno, nel caso di condotte inadempienti generali e continuative degli amministratori e sindaci, nella differenza tra passivo e attivo concorsuale. Detta sentenza, pur nell’ampiezza degli argomenti giuridici, non ha offerto una soluzione al diritto vivente, in linea con una rigorosa uniforme interpretazione della legge, lasciando spazio a una diversificazione degli orientamenti, laddove le soluzioni sono apparse ancora generiche, vaghe e poco puntuali[144].
In linea di principio, le Sezioni Unite contraddicono l’applicazione dei criteri del deficit fallimentare nella ricostruzione del danno causato dalla violazione degli obblighi di diligenza generale o specifica degli amministratori e dei sindaci, negando, in linea generale, la sua applicazione pur in ipotesi di mancato rinvenimento o irregolare tenuta delle scritture contabili, tale da non consentire al curatore la ricostruzione delle dinamiche patrimoniali e reddituali attraverso la quale ricostruire il danno effettivamente provocato.
Nel contempo, le stesse Sezioni Unite sembrano far rientrare dalla “finestra” quanto uscito dalla “porta”, attraverso l’inevitabile ricorso, a fronte delle insormontabili difficoltà dell’attore a provare rigorosamente il nesso di causalità e l’ammontare del danno, al criterio equitativo dettato nell’art. 1126 c.c., dove il giudice potrebbe astrattamente tener conto dello sbilancio patrimoniale della società verificato in sede concorsuale, seppure con un’adeguata motivazione che giustifichi l’impossibilità di ricostruire effetti diretti sulla particolarità del caso concreto. L’obbligo motivazionale facente carico al giudice nel ricorso del criterio del deficit concorsuale impone al curatore uno sforzo di ricostruzione delle dinamiche patrimoniali e reddituali dell’impresa (anche con il ricorso ad altre fonti), al fine di misurarsi correttamente con le conseguenze dirette dell’azione degli amministratori e dell’omissione di vigilanza del sindaco. Tuttavia, se tale sforzo è reso impossibile, o anche solo difficoltoso, potendo provare il curatore le difficoltà insormontabili subite, attraverso l’uso della determinazione equitativa del danno ex art. 1126 c.c., il giudice potrebbe riesumare il criterio dello sbilancio patrimoniale, purché argomenti in motivazione le obiettive carenze delle scritture contabili quale causa della mancata prova (e non i difetti di allegazione e produzione da parte dell’attore) e ne argomenti la plausibilità dell’uso sul piano logico.
Quindi il criterio del deficit concorsuale non subisce un taglio definitivo, in quanto, seppure con il passaggio necessario della motivazione, nei termini che ci siamo detti, può essere applicato ancora dal giudice. Per tale ragione, anche la giurisprudenza successiva ha dimostrato significative oscillazioni, applicando il criterio attraverso motivazioni spesso stereotipate e non in perfetta linea con un’interpretazione rigorosa degli orientamenti delle Sezioni Unite.
Il criterio del deficit è stato quindi generalmente applicato alle fattispecie in cui la responsabilità degli amministratori e sindaci derivi dalla totale mancanza di scritture contabili o da una loro tenuta irregolare, tale da rendere impossibile la ricostruzione della dinamica della gestione economica dell’impresa collettiva[145], secondo un filone che già contraddistingueva il passato[146].
Lo stesso criterio è stato adottato nei casi di dissesti dovuti da inadempimenti di amministratori e sindaci di estrema gravità, integranti anche fattispecie criminose, come ad esempio aver finalizzato la propria azione per perfezionare atti in frode al fisco[147], oppure, a fronte di una continuativa mancata convocazione dell’assemblea e deposito dei bilanci, la cessione dell’intero patrimonio aziendale a prezzo vile con totale depauperamento della società[148], oppure, ancora, la modifica dell’oggetto sociale allo scopo di acquistare un’azienda senza alcuna previa valutazione delle componenti attive e passive e senza l’introduzione di clausole di salvaguardia, acquisto che, per il carico debitorio conseguente per l’impresa cessionaria, ne ha provocato di lì a poco il dissesto all’origine della procedura concorsuale liquidatoria[149]. Nella stessa direzione ipotesi estreme come la realizzazione di condotte distrattive, in conflitto di interessi, delle componenti principali del patrimonio sociale[150], o il doloso occultamento, per condotte ascrivibili dall’amministratore, di tutta la contabilità[151].
Ne è risultato un diritto “vivente” non del tutto difforme al recente passato, provocante in concreto l’inversione dell’onere probatorio, ponendo a carico degli amministratori e dei sindaci la prova “diabolica” dell’insussistenza dei nessi di causalità e consequenzialità.
Una delle vicende più ricorrenti nelle controversie sulla responsabilità di amministratori e sindaci è quella rappresentata dalla prosecuzione illecita dell’attività di impresa, nonostante la perdita del capitale sociale e il verificarsi di una causa di scioglimento. In tale contesto particolare, il criterio del deficit concorsuale era stato fortemente attenuato attraverso l’utilizzo di un criterio differente, quello dei c.d. “netti patrimoniali”. La giurisprudenza confrontava il patrimonio netto manifestato dalla società al momento della sua formale messa in liquidazione, o dell’apertura della procedura concorsuale, con il patrimonio netto presente al momento del verificarsi della causa di liquidazione, non verificata dagli amministratori e dai sindaci. L’aggravarsi della perdita evidenziabile dal confronto di questi due dati, come erosione del patrimonio netto dovuto alla prosecuzione dell’attività degli amministratori con modalità non conservative e liquidatorie nell’interesse dei creditori, coincideva con il danno liquidato[152].
Si superava in questo modo un orientamento più tassativo in linea con l’art. 1223 c.c., che rifuggiva anche a tale criterio, imponendo alla curatela l’individuazione degli specifici atti compiuti dall’amministratore fuori dalla logica meramente conservativa e il danno che ne fosse conseguito (una sorta di sommatoria di effetti dannosi di ogni singolo atto non conservativo)[153]. Criterio senza alcun dubbio più coerente con i principi imposti dall’art. 1223 c.c., che – non si dimentichi – era l’unico riferimento normativo applicabile sul piano sistematico, ma criticato da quella parte della giurisprudenza che riteneva impossibile una ricostruzione dei singoli atti non conservativi e dei loro effetti[154].
La stessa giurisprudenza sui “netti patrimoniali” non ha dimostrato neppure univocità di applicazione. Ad esempio, il criterio è stato utilizzato in via sussidiaria ai sensi dell’art. 1226 c.c., dovendo, in presenza di una regolare contabilità, applicarsi con rigore l’art. 1223 c.c. e, dunque, l’individuazione dei singoli atti non conservativi e dei loro effetti compiuti dall’amministratore e avallati dal sindaco, i cui oneri ricadono tutti sul curatore[155]. In altre pronunce, esso è stato adottato pur in presenza di una contabilità attendibile[156], con conseguente applicabilità diretta e immediata e non sussidiaria ai sensi dell’art. 1226 c.c.[157]. Vi sono, poi, delle pronunce che applicano il criterio quando la condizione di scioglimento della società si fosse verificata in tempo notevolmente anteriore, rendendosi impossibile una ricostruzione analitica dei singoli atti non conservativi e dei loro effetti[158], oppure quando la complessità dell’attività aziendale, per la dimensione dell’impresa e il numero delle operazioni, non consentiva l’applicazione del criterio analitico[159].
Di particolare interesse, per lo sforzo interpretativo volto a non introdurre elementi “meccanici” e illogici che perdono ogni collegamento con la realtà concreta, anche nell’applicazione dei “netti patrimoniali”, la valorizzazione in alcune pronunce di fattori che possono alterare il dato risultante dall’esclusivo confronto dei “netti patrimoniali”. Si dovrà allora valorizzare una serie di fattori che incidono sulla differenza dei diversi stati patrimoniali ma che non sono imputabili agli amministratori e, di conseguenza, ai sindaci: molte componenti dell’attivo perdono valore per il semplice stato liquidatorio in cui si viene a trovare la società, sia che esso sia determinato dall’azione tardiva degli amministratori, sia che sia determinato dall’azione tempestiva di rilevazione della causa di scioglimento (le immobilizzazioni immateriali e materiali, l’avviamento, ecc.). Tra detti fattori anche gli inevitabili costi discendenti da una liquidazione comunque tempestiva e che non possono non incidere anche in una tardiva (canoni di locazione, costi per consulenza professionali, costi per dipendenti). Questo orientamento correttivo è espressione soprattutto della giurisprudenza milanese[160].
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