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Perché si installano poche pompe di calore?


Perché si installano poche pompe di calore si può spiegare con l’analisi comportamentale delle politiche pubbliche. Il nodo non è solo comunicare meglio. È progettare meglio. Perché non si tratta solo di cosa si decide, ma di come lo si fa. E, soprattutto, di chi lo fa.

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Il tema delle pompe di calore viene affrontato anche sull’ultimo numero del trimestrale ENERGIA (2.25) con una analisi quantitativa su due aspetti chiave dei consumi del settore: riscaldamento degli ambienti e cottura dei cibi, che insieme rappresentano il 70% dell’energia consumata nelle abitazioni. Con un modello di simulazione dinamica, Riccardo Bartiromo, Enrico Lanzilotti, Leonardo Massarutto, Stefania Migliavacca, Giorgio Torraca ipotizzano l’evoluzione dell’efficienza e della decarbonizzazione, attraverso la diffusione di pompe di calore e piastre a induzione negli edifici residenziali esistenti, stimando gli impatti su consumi, emissioni di CO2 e costi, per supportare le decisioni di policy.


Una tecnologia disponibile. Un obiettivo climatico condiviso. Una spinta normativa crescente. Eppure, qualcosa non torna.

L’Europa ci chiede di cambiare rotta. Le nuove Direttive sulla prestazione energetica degli edifici (la cosiddetta “Case Green”) vietano l’installazione di caldaie alimentate esclusivamente a combustibili fossili a partire dal 2025 e impongono standard sempre più stringenti per l’efficienza energetica. In Italia, il contesto è simile: bonus, agevolazioni, linee guida. L’orizzonte è chiaro. Ma il percorso non lo è affatto.

Le pompe di calore, simbolo della svolta green, restano per molti una scelta distante. I numeri sulle installazioni crescono, ma non quanto servirebbe. Le resistenze sono diffuse, trasversali e spesso irrazionali.

Non stiamo parlando di opposizione ideologica o di negazionismo climatico. Parliamo di cittadini comuni, amministratori locali, tecnici prudenti. Persone che non negano la necessità di cambiare, ma faticano a farlo.

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Spiegare perché si installano poche pompe di calore con la ‘mancanza di informazione’ è rassicurante, ma insufficiente. Il nodo non è solo comunicare meglio. È progettare meglio. Perché non si tratta solo di cosa si decide, ma di come lo si fa. E, soprattutto, di chi lo fa.

È qui che entra in gioco l’analisi comportamentale delle politiche pubbliche.

Le neuroscienze al servizio delle politiche pubbliche

L’analisi comportamentale delle politiche pubbliche è una disciplina ancora giovane in Italia, ma già influente nel dibattito internazionale.

Come spiegano Daniel Kahneman (Thinking, Fast and Slow, 2011), Richard Thaler e Cass Sunstein (Nudge, 2008) e più recentemente Riccardo Viale e Laura Macchi in Analisi comportamentale delle politiche pubbliche (Il Mulino, 2021), nessuna decisione è neutra. Né quella del cittadino, né quella dell’amministratore pubblico. Tutti noi, anche i più esperti, siamo esposti a distorsioni sistematiche, bias cognitivi, semplificazioni mentali. È così che funziona il nostro cervello. E questo non cambia quando si entra in un municipio o in un ministero.

Un esempio tra i tanti: il bias di status quo. Tendiamo a preferire ciò che conosciamo. Anche se inefficiente, anche se costoso. Una caldaia che ‘ha sempre funzionato’ sembra più affidabile di una tecnologia nuova, anche se quest’ultima promette più comfort e meno consumi. C’è poi l’avversione alla perdita: se mi obblighi a cambiare, io percepisco un danno, di denaro, di tempo, di libertà. E questo conta più del beneficio atteso.

E i decisori? Anche loro non sono immuni e non perché manchi loro intelligenza o volontà, ma perché operano sotto le stesse pressioni cognitive di tutti noi: limiti di tempo, vincoli informativi, urgenze sociali.

Il bias di conferma li porta a selezionare inconsapevolmente solo le informazioni che confermano le loro ipotesi. L’effetto Dunning-Kruger può indurre a sovrastimare la propria comprensione dei comportamenti collettivi (‘conosco la tecnologia, quindi so cosa è meglio per tutti’). Il risultato? Una politica pensata bene in teoria, ma difficile da applicare nella realtà. Non per mancanza di competenza, ma perché il comportamento reale delle persone, non quello atteso, è la vera variabile critica.

Cosa accade davvero quando si decide?

Una politica pubblica non vive sulla carta, ma nel modo in cui viene percepita. La misura sull’obbligo di pompe di calore, per esempio, ha tutti i crismi della buona intenzione. Gli incentivi esistono, la tecnologia è matura, l’urgenza ambientale è evidente. Ma la misura viene vissuta come minacciosa, confusa, lontana. Un’imposizione calata dall’alto.

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Il cittadino non fa un calcolo costi-benefici, fa un bilancio emotivo. E spesso, quel bilancio è in rosso. Perché cambiare richiede sforzo. Perché le testimonianze negative («mio cugino ha speso una fortuna e ora la casa è fredda») pesano più dei report dell’ENEA. Perché il linguaggio tecnico (coefficiente di prestazione, aria-aria, aria-acqua) allontana, invece di coinvolgere.

Nel frattempo, i decisori pubblici si pongono legittimamente una domanda: «Com’è possibile che questa misura, pur tecnicamente corretta, venga accolta con così tanta resistenza?». Ed è una domanda giusta. Ma la risposta non può fermarsi alla comunicazione. Deve passare attraverso la progettazione comportamentale delle misure, che tenga conto non solo del contenuto della norma, ma del modo in cui viene vissuta. Serve una politica che impari, non solo che insegni.

Progettare per come decidiamo, non per come dovremmo decidere

L’analisi comportamentale propone un altro modo di costruire le politiche. Un modo più vicino alla realtà dei comportamenti umani. Nel caso delle pompe di calore, ad esempio, il disegno della misura potrebbe seguire un percorso più realistico:

  • Partire dal punto di vista dell’utente. Non come atto retorico, ma come metodo operativo. Strumenti come le interviste in profondità, le etnografie rapide o il citizen journey mapping possono aiutare a mappare i veri attriti psicologici e pratici. Cosa blocca davvero il cambiamento? Dove si genera il sospetto? Quali parole spaventano?
  • Integrare la mappa dei bias cognitivi. Il cambiamento comporta incertezza. La norma deve tener conto di fenomeni ricorrenti come la procrastinazione, l’avversione alla complessità tecnica, la fiducia selettiva (dati fidati solo se confermati da una rete familiare o sociale).
  • Modulare l’intervento. Non un obbligo secco e uniforme, ma una transizione graduale. Legare la sostituzione a eventi chiave (come ristrutturazioni), prevedere premi per chi anticipa, comunicare successi locali (social proof). Il caso dei Paesi Bassi è illuminante: tra il 2018 e il 2021, grazie a un programma di transizione che legava incentivi alla ristrutturazione e offriva simulazioni di risparmio energetico personalizzate, l’adozione delle pompe di calore è aumentata del 65%, con alta soddisfazione degli utenti.
  • Rendere la comunicazione esperienziale. Non solo spot e brochure, ma energy simulator online, realtà aumentata per mostrare in tempo reale i benefici del retrofit, testimonianze video geolocalizzate, comparatori intuitivi. Le parole tecniche devono diventare immagini, storie, numeri emozionali.
  • Attivare la co-progettazione. Coinvolgere non solo gli utenti, ma anche installatori, amministratori di condominio, imprese locali nella costruzione delle misure. Non per democrazia di facciata, ma per raccogliere dati qualitativi, sciogliere frizioni pratiche, generare fiducia. In Finlandia, la co-creazione di linee guida locali con le imprese ha ridotto i tempi di installazione media da novanta a quaranta giorni.
  • Monitorare e adattare. Una politica comportamentale è una politica che apprende. Non impone, ma calibra. Non chiude, ma osserva e corregge. Attraverso A/B testing, monitoraggio delle interazioni digitali, analisi dei drop-out burocratici, è possibile iterare rapidamente le misure prima che falliscano sul campo.

Anche chi decide è umano

Un errore frequente nelle politiche pubbliche è pensare che solo i destinatari debbano essere ‘accompagnati’. Ma chi scrive le norme agisce all’interno di condizioni cognitive complesse. Anche i comitati tecnici si confrontano con pressioni, narrazioni, aspettative. Anche i decisori, come dimostrano Viale e Macchi (2021), sono soggetti agli stessi meccanismi cognitivi studiati nei consumatori. La differenza è che le conseguenze delle loro scelte sono collettive, non individuali.

Per questo, la progettazione comportamentale dovrebbe essere integrata nei processi di policy making sin dall’origine, e non come strumento accessorio. Alcuni governi già lo fanno: il Behavioural Insights Team nel Regno Unito, il BETA in Australia, il JRC della Commissione europea collaborano stabilmente con i ministeri nei momenti di drafting normativo, non solo nella fase di implementazione.

L’approccio comportamentale non è un vezzo accademico. È una necessità pratica che può aiutare a progettare politiche più realistiche, evitare fallimenti prevedibili, migliorare l’adesione senza aumentare l’obbligo e costruire fiducia nelle istituzioni.

Qualche conclusione

Una buona politica non è solo tecnicamente corretta. È anche empaticamente intelligente. Deve tenere insieme l’urgenza ambientale e la lentezza dell’adattamento umano. Deve sapere che tra l’analisi costi-benefici e il ‘cosa sento quando leggo questa norma’ ci passa un abisso. E deve decidere da che parte stare.

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Il caso del perchè si installano poche pompe di calore è paradigmatico: una misura utile, ma non ancora compresa. E forse non è stata compresa proprio perché non è ancora stata sentita. L’analisi comportamentale serve proprio a questo, a riportare al centro il modo in cui le persone pensano, scelgono, si oppongono o aderiscono. Serve per ricordarci che il buon senso, da solo, non basta.

Come scrive Viale: «Una politica è efficace solo se è sensibile al modo in cui è percepita da chi la vive.» Non si tratta di marketing, ma di rispetto. Di attenzione. Di costruire ponti tra chi scrive le leggi e chi le attraversa.


Antonio Disi è Responsabile Laboratorio Strumenti per la Promozione dell’Efficienza Energetica Dipartimento Unità per l’Efficienza Energetica CR ENEA Bologna


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