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Minerali critici: il Grande Gioco sulla tavola periodica


Le nuove vie della diplomazia e degli accordi commerciali sono sempre più tattiche per partecipare al grande gioco sulla tavola periodica. Come ricordato dall’Agenzia internazionale per l’energia (IEA), per sostenere la transizione energetica è necessaria una base di approvvigionamento più diversificata per i minerali – come litio, cobalto, grafite, nichel e terre rare – al fine di tutelarsi da potenziali interruzioni o tensioni geopolitiche, che potrebbero influire sull’economicità delle tecnologie “verdi” o compromettere le industrie coinvolte. Con l’aumento degli investimenti in energia solare, eolica e veicoli elettrici, nonché in intelligenza artificiale e data center (che rappresentano, insieme ad altri settori come robotica e difesa, un demand risk dal momento che più industrie inizieranno a competere per risorse limitate), l’interesse globale per questi minerali e materiali aumenterà vertiginosamente, con una domanda globale che dovrebbe raddoppiare entro il 2030 e triplicare entro il 2050. “La cooperazione internazionale e il supporto politico sono essenziali”, ha ricordato di recente Fatih Birol, direttore esecutivo della IEA.

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Per molti governi occidentali – alle prese con un nuovo “China Shock”per via della decisione di Pechino di bloccare l’export di alcune terre rare lo scorso aprile in reazione ai dazi di Trump – la diversificazione degli approvvigionamenti è diventata una questione di sicurezza economica, per essere competitivi nelle tecnologie emergenti e ridurre la dipendenza da singoli. Molti Paesi del G7 (che hanno rinnovato gli sforzi nell’ultimo incontro in Canada con un nuovo Critical Minerals Action Plan) hanno quindi iniziato a mappare le proprie vulnerabilità, adottando al contempo misure concrete per ridurre la dipendenza, soprattutto nei confronti della Cina. Tuttavia, negli ultimi quattro anni la quota di mercato media dei tre maggiori Paesi produttori, rileva la IEA, è aumentata all’86% nel 2024 rispetto all’82% del 2020. Pur essendo validi sulla carta, gli accordi commerciali o le partnership strategiche devono tradursi in risultati concreti in termini di investimenti (cresciuti negli ultimi 10 anni a livello mondiale, ma in rallentamento per via dei prezzi piatti delle materie prime) pur mantenendo un approccio pragmatico e orientato alle esigenze delle industrie interessate nei Paesi del G7.

Minerals Security Partnership: quale futuro con Trump?

I minerali critici sono una delle questioni che godono di un forte sostegno bipartisan negli Stati Uniti, soprattutto per la loro rilevanza per l’economia e la sicurezza nazionali. Questa forte attenzione è testimoniata dalla Minerals Security Partnership (MSP), una delle iniziative chiave lanciate dal dipartimento di Stato americano sotto la presidenza di Joe Biden. Nonostante l’elezione di Donald Trump e il suo impegno politico a smantellare l’eredità della precedente amministrazione, questa partnership annunciata alla convention della Prospectors and Developers Association of Canada (PDAC) di Toronto nel giugno 2022 – uno degli eventi chiave dell’industria mineraria globale – è ancora intatta e conta ora 14 Stati membri e l’Unione europea. La MSP ha avuto un ruolo chiave, con la sua portata multilaterale, nell’enfatizzare l’importanza della “sicurezza mineraria” con i Paesi alleati degli Stati Uniti. Ha evidenziato il crescente peso della diplomazia delle risorse e la necessità di mobilitare le democrazie per sfidare il dominio della Cina attraverso policy e strumenti di mercato e non (standard ambientali, trasparenza sui prezzi e dialogo con le comunità indigene), con un ruolo proattivo degli investimenti privati a più livelli (dall’esplorazione fino al sostegno di banche per lo sviluppo in Stati ricchi di risorse).

Sebbene non siano disponibili dati ufficiali, l’MSP ha iniziato a sostenere circa 30 progetti (16 di estrazione, 7 di raffinazione e altri 7 per riciclo e recupero) incentrati su cobalto, rame, gallio, germanio, grafite, litio, manganese, nichel e terre rare in quattro continenti. Per promuovere questi partenariati pubblico-privati, il ruolo della International Development Finance Corporation (DFC) statunitense e di altri istituti finanziari partner dell’MSP (come la giapponese JOGMEC o la tedesca KfW IPEX-Bank) è stato decisivo e potrebbe diventare ancora più importante in futuro per ridurre il rischio d’impresa attraverso prestiti, garanzie sui prestiti e investimenti azionari.

Dall’elezione di Trump, mentre i minerali critici e le terre rare sono diventati una questione molto pubblicizzata (con la Groenlandia e l’Ucraina come hotspot per i minerali), una serie di misure e iniziative contraddittorie ha messo in discussione l’efficacia e la credibilità della strategia statunitense. Se da una parte il presidente degli Stati Uniti ha emesso ordini esecutivi a sostegno dell’attività estrattiva domestica nell’ottica di ridurre l’esposizione sulla Cina, tra cui “Declaring a National Energy Emergency” del 20 gennaio e “Immediate Measures to Increase American Mineral Production” del 20 marzo, è meno evidente ad oggi quali potranno essere gli utilizzatori finali e le industrie a valle che l’amministrazione MAGA teme maggiormente esposte al rischio di approvvigionamento. Ad esempio, la revisione da parte dei repubblicani al Congresso dell’Inflation Reduction Act (IRA) attraverso il One Big Beautiful Bill – in particolare le sezioni relative al credito d’imposta 45X e 30D per la produzione e vendita di batterie e veicoli elettrici, particolarmente avidi di minerali e metalli – potrebbe seriamente ridimensionare gli scenari di crescita della domanda sul mercato statunitense, ma anche influenzare le relazioni commerciali e gli investimenti esistenti con alcuni partner del G7 e della MSP (tra tutti, Corea del Sud e Giappone ma anche il Canada).

Oltre alla politica interna, non è una coincidenza che i minerali critici siano stati sostanzialmente esentati dai dazi imposti da Trump ad aprile (almeno per ora) poiché gli Stati Uniti dipendono maggiormente dalle importazioni. Sul fronte internazionale, Washington è comunque impegnata in colloqui bilaterali avanzati con la Repubblica Democratica del Congo e il Ruanda per lo sviluppo di partnership nei settori del cobalto, del tungsteno e del litio al fine di garantire agli USA acquisti a lungo termine, a seguito di accordi bilaterali e memorandum già firmati con Ucraina, Argentina, India, Giappone, Mongolia, Norvegia e Uzbekistan. Questi sviluppi suggeriscono che il successo della diplomazia mineraria a guida USA potrebbe essere influenzato dagli interessi di parte del suo principale “azionista”, con Trump che sembra convinto di prioritizzare settori più legati agli interessi della sua constituency economica (intelligenza artificiale, nucleare, difesa, spazio), con buona pace della politica climatica nazionale che era materialmente agganciata al destino dell’IRA. E con esso, le relative supply chain.

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Partner d’obbligo, non per scelta: il ruolo minerario di Canada e Australia

Australia e Canada sono due Paesi intrinsecamente posizionati per beneficiare della spinta occidentale alla diversificazione. Entrambi dispongono di riserve significative di minerali critici (litio, nichel, rame) con un’industria mineraria matura, supportata da politiche nazionali volte a integrare ulteriormente la catena di approvvigionamento verso le capacità di lavorazione (il vero “tallone d’Achille” dell’Occidente). Beneficiano inoltre di accordi di libero scambio con gli USA, che li rendono già Paesi idonei agli incentivi federali contenuti nell’IRA, oltre a vantare anche collaborazioni bilaterali con quasi tutti i membri del G7.

Considerato il potenziale nordamericano, il Canada ha in vigore con gli Stati Uniti un Piano d’azione congiunto sui minerali critici, firmato nel gennaio 2020, con azioni concrete annunciate in seguito, come un investimento congiunto in due giacimenti minerari critici canadesi nel maggio 2024 e un sostegno finanziario fornito per un progetto di raffinazione del cobalto in Ontario.

Sul fronte commerciale, dopo l’imposizione di dazi su diversi prodotti di fabbricazione cinese da parte dell’amministrazione Biden, anche il Canada ha seguito l’esempio, applicando una tariffa doganale del 100% sui veicoli elettrici importati dal Paese asiatico. Questi sviluppi suggeriscono che il mercato nord-americano, in particolare per quanto riguarda i minerali critici, sarà sempre più protetto dall’arrivo di prodotti a basso costo provenienti da aziende cinesi, offrendo così maggiori opportunità economiche per l’approvvigionamento locale. Ad esempio, nell’ottobre 2024 la North American Graphite Alliance (NAGA) ha fatto pressioni sul governo canadese affinché si allineasse ai dazi statunitensi sui prodotti provenienti dalla Cina, responsabile del 67% della grafite naturale e del 75% della grafite artificiale. Nel maggio 2025 il dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha annunciato la decisione preliminare di imporre dazi compensativi fino al 721% sui materiali degli anodi attivi provenienti dalla Cina, essenziali per la produzione di batterie.

L’Australia è un altro attore importante nel settore dei minerali critici, detenendo riserve preziose (23%) ed essendo il primo produttore (35%) di litio da giacimenti di roccia dura. Tuttavia, quasi tutto il minerale di litio estratto nell’Australia occidentale viene attualmente spedito in Cina per ulteriori lavorazioni: è da qui che si concentrano i recenti sviluppi legislativi (come il Future Made in Australia Act 2025), riducendo la dipendenza dalle esportazioni e offrendo prodotti raffinati a basso rischio, anche per ottenere maggiore valore aggiunto. Il Paese ospita anche uno dei due soli giacimenti di terre rare commerciali ex cinesi nell’Occidente, di proprietà e gestito da Lynas Corporation. Con una chiara visione del potenziale del suo patrimonio geologico, riflessa nella Critical Minerals Strategy 2023-2030, il governo australiano è già attivo in impegni bilaterali con Giappone, Francia, Germania, Corea e India.

Partner sì, ma fino a che punto della filiera? Il ruolo di Corea e Giappone

Gli attori asiatici sono sempre più integrati nelle filiere di approvvigionamento di minerali critici, soprattutto per l’emergere della catena del valore delle batterie per veicoli elettrici, dall’estrazione mineraria alla produzione a valle. Con l’affermarsi di questa tecnologia negli USA e nell’UE, il ruolo di Giappone e Corea del Sud – due attori chiave in termini di investimenti diretti esteri e produzione (circa il 25% della capacità globale delle gigafactory escludendo la Cina) – sta evolvendo soprattutto in questa direzione. Entrambi hanno sviluppato industrie di raffinazione, ma dipendono ancora dalle importazioni cinesi (secondo l’Export-Import Bank of Korea, per il 60-80% delle sue importazioni di minerali, tra cui terre rare, cobalto e litio), con il Giappone che si distingue per la virtuosità del suo operato. Il Paese nipponico è riuscito a ridurre la sua dipendenza dalla Cina per le terre rare da oltre il 90% al 58% nel 2020 (con il primo investimento, tramite JOGMEC, nelle attività australiane di Lynas). Accordi sono stati firmati anche bilateralmente con Stati Uniti e Australia, specificamente sulla cooperazione in materia di minerali critici.

Uno dei principali fattori trainanti delle politiche e degli accordi di de-risking è stata la necessità di conformarsi all’Inflation Reduction Act statunitense, considerando i rigorosi requisiti sui materiali contenuti nelle batterie e l’esclusione delle Foreign Entity of Concern (FEOC) dall’accesso ai crediti d’imposta federali. Con l’ampliamento della definizione e dell’ambito di applicazione (per esempio, la nuova etichetta di “Prohibited Foreign Entity”), proposti da One Big Beautiful Bill, queste restrizioni si applicherebbero ad alcune sezioni dell’IRA come l’Advanced Manufacturing Production Credit, il Clean Electricity Investment Tax Credit e Production Tax Credit, l’impatto sull’idoneità delle aziende di approvvigionamento potrebbe essere significativo.

Prima di questi nuovi aggiornamenti, il memorandum d’intesa firmato da Seul e Ottawa è stato determinante per consentire alle aziende coreane di sfruttare potenzialmente il credito d’imposta dell’IRA per i veicoli elettrici approvvigionandosi da aziende canadesi di minerali critici. Per prevenire potenziali effetti collaterali derivanti dall’indagine del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti sulle importazioni di minerali critici processati e prodotti derivati (annunciata ad aprile, ai sensi della Sezione 232 del Trade Expansion Act), la Korea International Trade Association (KITA) ha inviato una lettera al dipartimento americano, sottolineando il ruolo cruciale svolto dalla Corea nel comparto ​​per la sicurezza nazionale degli USA, soprattutto nel contesto dei controlli sulle esportazioni cinesi. La Corea concluderà inoltre il suo primo anno di presidenza della Mineral Security Partnership entro la fine di giugno, con un annuncio pionieristico: Korea Zinc, azienda coreana attiva nel mercato dei metalli non ferrosi, ha annunciato di voler acquisire una quota delle azioni di The Metals Company, società d’esplorazione dei fondali oceanici con sede negli USA. Un segnale che anche il deep-sea mining rappresenta una frontiera, tutt’ora da esplorare, nelle partnership internazionali per svincolarsi dalla Cina.

L’Unione europea svela i suoi “progetti strategici”

Dopo aver annunciato lo European Critical Raw Materials Act, entrato in vigore nel maggio del 2024, la Commissione europea ha svelato una lista di progetti ritenuti strategici per riuscire quantomeno ad avvicinarsi ai benchmark fissati con il Regolamento entro il 2030. Si tratta di 60 depositi e impianti di estrazione, raffinazione e riciclo localizzati in Europa e in alcuni Paesi con cui Bruxelles ha siglato partnership e accordi bilaterali per agevolare gli investimenti e la cooperazione sul tema dei minerali critici. Di questi 60, ben 39 riguardano a più stadi progetti legati ai cosiddetti battery minerals, ovvero quei minerali e metalli essenziali per la produzione di batterie per veicoli elettrici (BEV-PHEV) e sistemi di stoccaggio stazionario (BESS), su cui l’UE sconta una dipendenza acuta sia nella fase estrattiva che in quella di lavorazione.

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Entro il 2030 la Commissione ha fissato l’obiettivo di produrre il 40% del fabbisogno interno di tecnologie low-carbon, tra cui appunto le celle per batterie, attraverso il Net Zero Industry Act: ed è proprio questo ad aver accelerato l’esigenza di garantire forniture sicure e, laddove possibile, sostenibile di materiali utili a tali manifatture avanzate anche in un’ottica di competitività dell’industria europea.

La firma delle partnership strategiche, tra la metà del 2021 e le ultime fasi del 2024, con Paesi ricchi di risorse è stata importante per gettare le basi di una messa a terra della strategia di diversificazione auspicata in seguito con il Regolamento, che prevede di non avere più del 65% per ogni singola materia prima strategica delle importazioni da un singolo Paese. Per esempio, nichel e cobalto da Canada e Brasile, grafite dal Kazakistan e dall’Ucraina, manganese dal Sudafrica e infine litio dalla Serbia (considerando che il Paese non è all’interno dell’UE) e dal Cile con il quale è stato di recente siglato un accordo di libero scambio. Rimangono, tuttavia, alcuni punti in sospeso, tra cui la sostenibilità finanziaria dei progetti in un contesto di prezzi delle materie prime in picchiata da almeno due anni, la visibilità della domanda europea (con le difficoltà di un’industria delle batterie europea svincolata da investimenti e forniture dei leader asiatici) e la fortissima concorrenza cinese.

La presenza ingombrante e la lezione della Cina

Il playbook di Pechino nelle fasi upstream – una combinazione di investimenti mirati attraverso equity, prestiti agevolati dalle banche statali, accordi di fornitura a lungo termine e presenza diplomatica attraverso la Belt and Road Initiative –, fino a quelle più a valle della filiera attraverso la leadership tecnologica non solo nella manifattura ma anche negli asset industriali per la raffinazione, rappresenta una strategia difficilmente replicabile in scala fuori dalla Cina. Questo vale soprattutto se a livello G7 non prevarrà un coordinamento solido, coerente per consentire ai Paesi industrializzati di sfidare il dominio cinese non solo nelle materie prime, ma anche nel sostenere la domanda delle tecnologie abilitate (batterie, pannelli, magneti, semiconduttori).

Come si evince dalle mosse di Pechino tramite interventi diretti (controlli all’export) e indiretti (manipolazione dei mercati), il vantaggio ecosistemico accumulato in oltre un decennio di politica industriale in questi settori non sarà sacrificato sull’altare dei profitti e delle quote di mercato (anche se le inefficienze interne alla Cina in alcuni settori in sovracapacità potrebbero portare a una razionalizzazione), con la Repubblica popolare pronta a tutto pur di difendere il suo primato. Dunque, per i membri del G7 che mirano a rilocalizzare le supply chain in un’ottica di sicurezza economica, la fase di produzione nel clean tech, e non solo, sarà sorprendentemente difficile da replicare seguendo il mantra del passato: troppo densa di CAPEX, know-how e rischi.

Mentre le politiche e alleanze sopra citate sembrano concentrarsi a monte – su ciò che viene estratto o raffinato – la vera indipendenza parte dal controllare la manifattura avanzata. Trump sembra non voler sacrificare i soldi dei contribuenti americani con l’IRA, l’UE invece prova a cambiare marcia. In ogni caso “follow the m…inerals.



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