Lo scorso aprile il Fondo monetario internazionale (FMI) ha pubblicato il suo Regional Economic Outlook per l’Africa subsahariana. Questa pubblicazione semestrale fornisce un’analisi degli andamenti economici recenti e avanza previsioni per quelli futuri, segnati in questo caso da un certo pessimismo, a partire dal titolo: “Recovery interrupted”. Infatti, l’FMI ha rivisto al ribasso le stime dello scorso ottobre, tagliando quella relativa al 2025 di 0,4 punti percentuali alla luce di uno scenario di accresciuta imprevedibilità nell’economia mondiale. Dopo aver segnato un’espansione regionale del 4% nel 2024, l’Africa subsahariana dovrebbe ridurre nell’anno in corso la propria crescita al 3,8%, per poi accelerare nuovamente nel 2026 con un 4,2%.
Oltre il dato aggregato
Naturalmente vi sono grandi variazioni all’interno della regione, che vede premiati in particolare i Paesi meno dipendenti dalle risorse e, a livello di macroaree, i Paesi dell’Unione economica e monetaria ovest-africana (UEMOA), un’organizzazione che riunisce otto Stati dell’Africa occidentale, includendone sia di saheliani (Burkina Faso, Mali, Niger) che costieri (Senegal, Costa d’Avorio e altri).
Nel 2024 per nove Paesi (Benin, Capo Verde, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Guinea, Niger, Rwanda, Senegal e Uganda) la crescita è stata pari o superiore al 6%. Dal canto loro, le due principali economie della regione, Nigeria e Sudafrica, mostrano due percorsi molto diversi: la prima ha visto un’espansione del PIL del 3,4% nel 2024 e dovrebbe viaggiare a un +3% nel 2025; la seconda continua il lungo periodo di crescita quasi asfittica, allo 0,6% nel 2024 e all’1% atteso nel 2025.
Negli stessi giorni la Banca mondiale ha pubblicato la propria analisi dell’economia regionale nel report semestrale Africa’s Pulse, che, utilizzando parametri leggermente diversi (tra le altre cose, prende in considerazione anche Sudan e Mauritania, che l’FMI esclude dal raggruppamento regionale dell’Africa subsahariana), prospetta invece uno scenario di leggera accelerazione dell’economia, dal 3,3% nel 2024 al 3,5% nel 2025 e poi al 4,2% nel 2026. Anche in questo caso, però, le stime sono al ribasso rispetto a quelle del precedente report di ottobre 2024, che prevedeva una crescita del 4% per il 2025.
Al netto di alcune differenze, la Banca e il Fondo concordano dunque sul fatto che la ricerca di una ripresa economica più decisa – dopo la recessione imposta nel 2020 dagli effetti della pandemia – abbia incontrato, quantomeno, un ennesimo incidente di percorso in quella che si è rivelata negli ultimi anni una strada decisamente faticosa. Dalla pandemia in poi, il susseguirsi di shock nella politica e nell’economia internazionali ha avuto conseguenze che, per quanto riguarda l’Africa subsahariana, si sono innestate in un contesto già segnato da vulnerabilità strutturali.
Già nel febbraio del 2021, a meno di un anno dall’inizio della pandemia, un numero dell’Economist denunciava nel titolo il “Long COVID dell’Africa”: tale espressione riassumeva come le economie in questione stentassero a riprendersi dal colpo subito nel 2020, quando la regione era andata per la prima volta in recessione dopo un ventennio di crescita ininterrotta (per quanto decisamente rallentata negli anni immediatamente precedenti la pandemia). Già allora si identificavano tra i fattori di questa debolezza anche vulnerabilità preesistenti, in particolare la difficoltà di tenere il passo con l’incremento della popolazione e di assorbire una forza lavoro in aumento e quella di far fronte ai grandi shock esterni, anche a causa di uno spazio fiscale ristretto dalla pressione debitoria. Dal 2021 in poi, nonostante un andamento altalenante, una ripresa c’è stata, facendo registrare nel 2024 una crescita al di sopra delle aspettative, sostenuta dall’esportazione di materie prime (oro, cacao e caffè, ad esempio, hanno registrato prezzi sostenuti sui mercati internazionali), un rallentamento dell’inflazione e una stabilizzazione dell’indebitamento. Tuttavia, in molti Paesi dell’Africa subsahariana tale ripresa non ha più superato la crescita media da essi raggiunta nel periodo virtuoso iniziato nel 2000 (ovvero l’inizio di un’impetuosa espansione economica nel periodo dell’“Africa emergente”). In quella fase, in particolare fino al 2014, si erano registrati tassi intorno al 5%, rallentati poi tra il 2015 e il 2019.
Le nebbie all’orizzonte
A guidare il ridimensionamento delle proiezioni di crescita sono stati vari fattori, alcuni derivanti dal contesto internazionale, altri intrinseci al continente. Una maggiore conflittualità a livello globale, indotta dalla prosecuzione dei conflitti in Ucraina e nel Medio Oriente, porta con sé il rischio di aumento dei prezzi dell’energia e dei prezzi alimentari: un fenomeno le cui conseguenze si erano viste in Africa nel 2022, quando l’aumento dei prezzi, le interruzioni delle catene del valore e le pressioni inflazionistiche si erano innestate sulla strada già difficile della ripresa dalla recessione, creando quella che il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres aveva definito una “tempesta perfetta”.
Nuovamente frammentazione e conflittualità globali potrebbero riverberarsi anche sulle economie subsahariane sia tramite una diminuzione dei flussi finanziari verso la regione (tanto sul fronte degli aiuti – come si vedrà più avanti – che su quello degli investimenti) sia tramite un calo della domanda di materie prime. In aggiunta, anche i Paesi africani sono stati colpiti dai dazi annunciati dal presidente statunitense Donald Trump lo scorso 2 aprile. Considerando le esenzioni su energia e materie prime critiche dall’iniziativa del “Liberation Day”, i beni effettivamente colpiti dalle nuove tariffe doganali degli USA (al momento pari al 10%) hanno un peso relativamente basso nelle economie della regione. Non va dimenticato, però, che il prossimo 9 luglio potrebbero scattare le aliquote “personalizzate” per Paese (si ricordi il Lesotho, per cui si prevedeva l’aliquota più alta di tutte, pari al 50%), che Trump aveva sospeso ad aprile per 90 giorni. Più pesanti potrebbero essere gli effetti indiretti di queste nuove barriere commerciali, ad esempio per una minore domanda da parte di altri Paesi importatori di beni africani o per la possibilità che i dazi anticipino una sospensione dell’African Growth and Opportunity Act (AGOA), il programma di preferenze commerciali con Washington di cui beneficiano molti Paesi africani e che dovrebbe scadere (e potrebbe quindi non essere rinnovato) a settembre.
Altri fattori creano un contesto di maggiore complessità, meno capace di reagire a pressioni esterne. Uno di questi è il peso dei conflitti armati: si pensi al Sahel, dove si concentra circa la metà delle attività del terrorismo jihadista mondiale e dove il numero di vittime ha raggiunto un nuovo record nel 2024. O al conflitto in Sudan, iniziato nell’aprile del 2023 e detonato con una violenza tale da generare la crisi umanitaria più grave al mondo, con più di 12 milioni tra sfollati interni e rifugiati e gravi ricadute anche per i territori vicini. L’anno scorso il Sudan ha subito una contrazione di oltre il 20% della sua economia, mentre sempre nel 2024 le ripercussioni di questo conflitto nel vicino Sud Sudan sono costate all’economia di questo Paese una riduzione di ben 27,6 punti percentuali (principalmente per l’impossibilità di esportare petrolio attraverso le infrastrutture che passano per il Sudan).
Anche le sfide portate dal cambiamento climatico hanno e continueranno ad avere conseguenze concrete: l’aumento di fenomeni estremi, come gli intensi episodi pluviometrici in Africa occidentale o le mancate stagioni delle piogge nel Corno d’Africa, interferisce con le attività agricole (ad esempio, con la produzione del cacao di cui l’Africa occidentale fornisce il 70% della produzione mondiale) e aggrava il quadro dell’insicurezza alimentare nel continente. Secondo l’Associazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite, i costi aggiuntivi derivanti dalla necessità di adattarsi a eventi climatici estremi (dalla creazione di infrastrutture ad hoc alla messa a punto di sistemi di allerta precoce) saranno pari al 2-3% annui del PIL della regione nel prossimo decennio.
I ritmi di crescita registrati negli ultimi anni e previsti per quelli a venire non sono comunque sufficienti a produrre significativi passi avanti sul fronte degli obiettivi di diminuzione della povertà. L’Africa subsahariana conta meno del 2% del PIL mondiale, ma ospita più del 15% della popolazione e ben il 60% delle persone che vivono in condizioni di povertà estrema (ovvero con meno di 2,15 dollari al giorno) a livello globale (di cui un terzo solo in Nigeria e Repubblica Democratica del Congo). La connotazione demografica della regione gioca un ruolo fondamentale poiché la crescita economica stenta a stare al passo con quella demografica e non è accompagnata da interventi strutturali per la riduzione delle diseguaglianze e per l’accesso a opportunità di generazione di reddito rivolte alle fasce più povere della popolazione. Con un’età media inferiore ai vent’anni, la regione vedrà la forza lavoro raddoppiare da qui al 2050. Ciò richiederà quindi politiche mirate a rafforzare la crescita a ritmi in grado di evitare che il divario tra Africa e resto del mondo in termini di incidenza della povertà continui ad aumentare.
Il fattore degli aiuti allo sviluppo
Tutti questi elementi di vulnerabilità potrebbero essere ulteriormente esacerbati dalla riduzione degli aiuti provenienti dalla cooperazione internazionale, una tendenza sempre più evidente negli ultimi anni e decisamente accelerata dal corso impresso dall’avvio della seconda presidenza di Trump. A gennaio questi ha firmato l’ordine esecutivo che ha portato al drastico snellimento dell’imponente sistema della cooperazione internazionale statunitense e, in particolare, allo smantellamento dell’agenzia governativa per lo sviluppo internazionale USAID (United States Agency for International Development) – di cui sarebbe stato tagliato l’87% dei programmi – e all’accorpamento delle iniziative residue presso il dipartimento di Stato. Prima di essere “gettata nel tritalegna” (“thrown into the woodchipper”), per citare un’espressione utilizzata in quei giorni da Elon Musk, USAID gestiva un budget di circa 44 miliardi di dollari, pari a circa il 70% degli aiuti allo sviluppo statunitensi. Di questi, nel 2024 erano stati versati all’Africa subsahariana circa 11 miliardi di dollari.
Fino al 2024 gli Stati Uniti erano il principale donatore a livello globale, secondo i dati del Comitato per l’assistenza allo sviluppo (Development Assistance Committee, DAC) dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che riunisce 33 dei principali Paesi fornitori di aiuto pubblico allo sviluppo (APS) a livello mondiale. Il recente passo indietro di Washington nell’impegno per gli aiuti internazionali non solo determina un cambiamento significativo nel panorama della cooperazione globale, ma ha anche fatto suonare il campanello d’allarme su una tendenza già avviata di progressiva contrazione degli aiuti internazionali, come si evince dai flussi di APS dei Paesi DAC negli ultimi anni.
Nel 2024 le risorse destinate all’APS sono state pari a 212 miliardi di dollari, con un calo del 7% rispetto ai 223 miliardi dell’anno precedente, dopo un quinquennio di crescita costante. Le avvisaglie del rallentamento erano presenti da tempo: a partire dalla pandemia, molti dei principali donatori – Germania, Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Svizzera e Svezia – avevano iniziato a riconsiderare o a ridurre concretamente il proprio impegno per gli anni a venire, rendendo il quadro complessivo degli aiuti sempre più incerto. Fino al 2023, però, questo calo era stato compensato proprio dalle risorse statunitensi, che da sole arrivavano a coprire circa il 30% del totale. Accanto alle tendenze quantitative, tuttavia, occorre anche tener conto della destinazione degli aiuti. Tra il 2022 e il 2024, in particolare, una quota significativa – quasi 52 miliardi di dollari – è stata destinata specificamente al sostegno dell’Ucraina. Inoltre, una parte non trascurabile degli aiuti (pari al 13% del totale nel 2024) è stata impiegata per coprire i costi legati all’assistenza a rifugiati e richiedenti asilo all’interno degli stessi Stati donatori.
Una riduzione degli aiuti ha e continuerà ad avere, naturalmente, un effetto più pesante nei Paesi maggiormente dipendenti da questo tipo di finanziamenti. Il continente africano da solo riceve circa un quarto degli APS messi a disposizione dai Paesi DAC e, secondo le stime dell’FMI su un campione di Stati subsahariani, una riduzione degli aiuti da parte dei principali donatori, combinata a un inasprimento delle condizioni finanziarie, potrebbe generare una contrazione dei flussi netti in entrata equivalente a fino all’1,5% del PIL. USAID, ad esempio, era molto presente nel continente, in particolare tramite progetti di assistenza umanitaria, di rafforzamento del settore sanitario e prevenzione delle malattie, e di sostegno allo sviluppo economico. Il suo venire meno avrà un impatto immediato, soprattutto nei Paesi in cui l’agenzia aveva molta rilevanza (si stima, ad esempio, che in Sud Sudan, Somalia, Liberia e Repubblica Centrafricana l’effetto dei tagli di USAID sarebbe pari ad almeno il 4% del reddito nazionale lordo) o con economie estremamente vulnerabili, mentre nel corso del tempo le realtà più solide potrebbero attutire il colpo introducendo modifiche strutturali che favoriscano una maggiore autosufficienza. Il taglio dei flussi degli aiuti potrebbe però esaurire la capacità già limitata degli Stati africani di attutire gli scossoni provenienti da un contesto internazionale nuovamente turbolento.
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