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Emettere fatture false non è più reato. Quali sono i rischi a cui si va incontro


La riforma fiscale ha degli effetti retroattivi: l’emissione di fatture false non è più punibile, nel caso in cui il debito sia stato saldato. La Corte di Cassazione, con una serie di sentenze, ha sostanzialmente ridefinito quale sia il confine tra un reato e l’illecito fiscale: sono state introdotte delle nuove opportunità di non punibilità e di riduzione della pena per i contribuenti che dovessero emettere delle fatture false o usufruire di crediti fiscali non spettanti.

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Grazie alle sentenze della Corte di Cassazione sulle fatture false, la riforma fiscale ha esteso i propri benefici. In questo contesto sono importanti le novità introdotte attraverso il Decreto Legislativo 87/2024 e la Legge Cartabia, che sono andate incontro ai contribuenti che decidono di mettersi in regola e saldare i propri debiti con l’Agenzia delle Entrate.

Emettere fatture false non è più un reato

A cambiare un po’ le regole del gioco sull’emissione di fatture false è la Terza Sezione Penale della Cassazione con le seguenti sentenze:

  • la numero 19675 pubblicata il 27 maggio 2025;
  • la numero 19868 pubblicata il 28 maggio 2025;
  • la numero 20068 pubblicata il 29 maggio 2025.

Ad affrontare il caso più interessante, indubbiamente, è stata la sentenza 19675/25, attraverso la quale i giudici si sono dovuti occupare di una dichiarazione fraudolenta realizzata con l’utilizzo di fatture false, ossia emesse per delle operazioni inesistenti. L’orientamento della Cassazione, in questo caso, è stato molto preciso: ai fini della non punibilità per la tenuità del fatto è importante che l’imputato abbia provveduto a saldare completamente il debito con l’Agenzia delle Entrate.

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Il pagamento può avvenire anche a rate, dopo che il soggetto ha concordato un piano di rientro con gli uffici tributari. La norma, indubbiamente favorevole a chi si è macchiato di qualche irregolarità, può essere applicata anche in modo retroattivo, quindi a dei fatti commessi prima del 29 giugno 2024, quando è entrata in vigore.

Ricordiamo, tra l’altro, che la riforma Cartabia ha facilitato l’accesso alla non punibilità che il Codice Penale ha previsto all’articolo 131-bis, andandone a modificare i requisiti: è possibile applicarla nel momento in cui la pena minima non sia superiore a due anni (in precedenza erano cinque anni). Il reato di emissione ed utilizzo di fatture false – che viene punito con un minimo di un anno e sei mesi di carcere – rientra completamente nei parametri che sono stati appena introdotti.

A quanto previsto dalla normativa, la Corte di Cassazione ha aggiunto che nel caso in cui il debito tributario sia stato completamente pagato, la condotta successiva al reato viene ritenuta positiva: questo è un fattore che il giudice deve necessariamente prendere in considerazione. La causa è stata rinviata al giudice di merito, in modo che possa procedere con una nuova valutazione rispettando i principi che abbiamo appena enunciato.

Quando scatta lo sconto della pena

La riforma introduce un’altra importante agevolazione, che può essere applicata nel momento in cui ci si dovesse trovare in alcune situazioni particolari.

Il contribuente che abbia utilizzato delle fatture false per delle operazioni inesistenti ha la possibilità di ottenere una riduzione della pena fino alla metà. Viene escluso, inoltre, dal pagamento di sanzioni accessorie (tra queste rientra, per esempio, l’interdizione dagli uffici direttivi di imprese e persone giuridiche).

È possibile beneficiare di questa agevolazione nel caso in cui il debito con l’Agenzia delle Entrate venga saldato completamente prima che il dibattimento di primo grado si concluda. A chiarire questo particolare aspetto è la sentenza n. 20068/2025, che ha sottolineato che questa particolare attenuante è stata introdotta attraverso l’articolo 13-bis del Decreto Legislativo 74/2000, modificato successivamente dal Dlgs 87/2024. La novità ha effetto retroattivo: in passato questa facoltà veniva limitata unicamente alla fase di apertura del dibattimento.

Il caso, che è finito sotto la lente d’ingrandimento della Cassazione, coinvolge il legale rappresentante di una srl, portato a giudizio per dichiarazione fraudolenta. La responsabilità penale di questo soggetto è diventata definitiva per alcune annualità, ma è stato in grado di beneficiare dell’attenuante speciale per altri capi d’accusa.

I giudici hanno ritenuto che per il soggetto in questione, benché avesse saldato completamente il debito con l’Agenzia delle Entrate prima che la riforma entrasse in vigore, l’attenuante potesse essere applicata in modo retroattivo.

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Il contribuente ha prodotto il Modello F24 relativo ai versamenti effettuati in Cassazione, permettendogli di beneficiare della riforma appena entrata in vigore dopo che il giudizio d’appello è stato chiuso.

Obiettiva incertezza e credito non spettante

È importante sottolineare, però, che la riforma non salva da eventuali condanne penali. Almeno non lo può fare in tutti i casi. Il contribuente non può beneficiare della non punibilità nel caso in cui il credito tributario non spettante emerga direttamente dalle dichiarazioni fiscali.

A portare un po’ di chiarezza, in questo caso, è la sentenza 19868/25, attraverso la quale la Corte di Cassazione ha chiarito che la non punibilità si viene a realizzare nel momento in cui si è in presenza di un’obiettiva incertezza che coinvolge delle valutazioni tecniche complesse. Si viene a configurare nel momento in cui ci si trova davanti all’evidenza dei documenti.

Il legislatore, attraverso il Dl 87/24, si è fatto parte attiva nel recepire la giurisprudenza sulla differenza tra:

  • credito inesistente, che viene punito più severamente. Viene considerato tale quello per il quale mancano completamente i presupposti costitutivi;
  • credito non spettante, il quale viene punito meno severamente. Siamo davanti ad un credito che esiste realmente, ma viene utilizzato con delle violazioni della modalità o viene utilizzato in misura superiore a quanto realmente è dovuto.

La Cassazione, almeno nel caso in esame, ha confermato la condanna a sei mesi di reclusione e la confisca di 300.000 euro all’imputato. In precedenza la Corte d’Appello aveva sostanzialmente riqualificato in modo corretto il credito inesistente e credito non spettante. In questo caso la non punibilità non è scattata perché non era stata riscontrata alcuna incertezza sui fatti. Il contribuente aveva deciso di portare in compensazione un credito superiore rispetto a quanto risulta dalla dichiarazione dei redditi.





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