Chiudete gli occhi. Provate a immaginare per un momento un mondo senza le Nazioni Unite. Niente Oms, Fao, Unesco, Unhcr, Unicef o Ipcc. Nessuna Dichiarazione universale dei diritti umani, nessuna Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile. Non so se vedete lo stesso scenario che vedo io, ma è sicuramente più buio di quello attuale. Un mondo dove i conflitti degenerano più facilmente, la proliferazione nucleare è più rapida e le future pandemie ci colgono impreparati. Milioni di bambini e profughi restano senza protezione, le nazioni meno sviluppate sono sempre più ai margini. Dove manca una cornice condivisa per denunciare le violazioni dei diritti umani. Un mondo senza uno spazio globale dove affrontare insieme i grandi problemi comuni, come il cambiamento climatico. Fortunatamente possiamo ancora riaprire gli occhi e impedire che questa distopia diventi realtà, in un momento in cui l’organizzazione sembra impotente di fronte alla crisi che il mondo sta vivendo, certamente la più grave dalla fine della Guerra Fredda. Ma l’organizzazione è tutt’altro che morta, e bisogna riportarla a contare di più. Anche se la questione non è affatto semplice.
La Carta delle Nazioni Unite è stata firmata il 26 giugno 1945, esattamente 80 anni fa. Non in un mondo in pace, ma per superare le devastazioni della guerra. “Un atto di speranza e determinazione”, ricordano oltre 250 funzionari ed ex funzionari dell’Onu in un appello, ma oggi “quella speranza è messa a dura prova come mai prima”. La guerra, l’autoritarismo, la propaganda e il fatto che “non stiamo assistendo a semplici violazioni del diritto internazionale. Si tratta dello smantellamento sistematico dello stato di diritto, pezzo per pezzo, norma per norma”.
Alla complessità di questo quadro si aggiungono le criticità interne all’Organizzazione delle Nazioni Unite che portano alla legittima domanda: “l’Onu serve ancora a qualcosa?” Viene spesso percepita come lenta, paralizzata e poco incisiva di fronte a guerre ed emergenze globali. Non solo non è più in grado di organizzare missioni militari, ma le posizioni politiche sono spesso bloccate dai veti delle maggiori potenze e, anche quando l’Assemblea Generale riesce a prendere una posizione, si tratta spesso di posizioni di parte che non rispecchiano quella che dovrebbe essere una giusta realtà. A questo si sommano una burocrazia pesante e costi elevati. Come documentato su FUTURAnetwork, l’Onu sta affrontando un grave buco finanziario, acuito dal ritardo nei contributi di Usa e Cina, che lo usano come leva politica. Il deficit di cassa potrebbe toccare 1,1 miliardi di dollari entro fine anno, compromettendo il pagamento di stipendi e ai fornitori, a cui si aggiunge la carenza di risorse per le operazioni di peacekeeping.
Come sbloccare questo stallo e rivitalizzare l’Onu e il multilateralismo? Tra le diverse idee in discussione da tempo c’è l’allargamento del Consiglio di sicurezza (rispetto ai cinque membri permanenti che sono Usa, Russia, Cina, Regno Unito e Francia), includendo nuovi membri permanenti o semi permanenti come India, Brasile, Germania e Unione africana. Una proposta per superare l’assetto post-bellico, aprendo a nuovi protagonisti provenienti anche dai Paesi in via di sviluppo, e riaffermare un nuovo equilibrio. Alcuni suggeriscono di limitare o abolire il diritto di veto dei cinque membri permanenti, almeno nei casi gravi di violazione dei diritti umani, o di estendere questo diritto a grandi nazioni del Sud del mondo. Altri propongono di rafforzare l’Assemblea generale, che è democratica (ogni Paese ha un voto) ma ha poteri molto limitati.
Nella direzione di un serio processo di riforma vanno le iniziative che António Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, sta portando avanti, a partire dal Patto sul futuro (qui la traduzione italiana) firmato nel settembre 2024. L’accordo intende riformare l’architettura globale, rivitalizzare il multilateralismo e attuare 56 azioni per un futuro sostenibile. Ma Guterres già in vista del Summit sul futuro aveva rilasciato alcuni Policy brief, come quello sulla riforma del sistema finanziario globale, su una Onu 2.0 (dedicato proprio alla riforma dell’organizzazione) e su una nuova agenda per la pace:
“Il nuovo multilateralismo deve riconoscere che l’ordine mondiale sta cambiando […] Deve anche elevarsi per affrontare la miriade di minacce globali che hanno bloccato gli Stati nell’interdipendenza, che lo desiderino o meno. Questo nuovo multilateralismo ci impone di guardare oltre i nostri ristretti interessi di sicurezza”.
Guterres ha anche avviato l’iniziativa UN80, che punta a tre aree chiave: efficienza operativa, revisione dei mandati degli Stati membri e revisione strategica per cambiamenti strutturali più profondi. E poi ci attendono alcuni importanti appuntamenti internazionali, come l’imminente Conferenza internazionale sul finanziamento per lo sviluppo di Siviglia (30 giugno-3 luglio), fondamentale per riformare l’architettura finanziaria. Ne abbiamo parlato nel primo articolo del nostro nuovo blog dedicato all’attuazione del Patto sul futuro, che sarà curato da Luigi Di Marco (segreteria generale ASviS). Preoccupante, in questo quadro, il ritiro degli Usa dal vertice di Siviglia, dopo l’uscita dall’Accordo di Parigi (effettiva dal 2026).
Non sorprende dunque che, nel Sustainable Development Report 2025 di UN Sdsn, gli Stati Uniti si siano classificati ultimi nell’indice Onu di multilateralismo, con 5,13 punti rispetto ai 92 dell’isola delle Barbados, prima in classifica. L’indice misura l’impegno dei 193 Paesi nei confronti del sistema delle Nazioni Unite attraverso sei indicatori quali, ad esempio, la ratifica dei principali trattati e la partecipazione a conflitti e militarizzazione. I Paesi Ue conquistano solo tra i 50 e i 70 punti, ad eccezione della Francia (sotto i 50, tra gli ultimi 20 posti in classifica) e di Austria, Svizzera, Montenegro, Irlanda e Germania (tra 70 e 80 punti). Messico e America Latina costituiscono le aree continentali con i punteggi migliori (tra 70 e 80, ma anche oltre 80), e anche il Sud dell’Africa è messo bene.
Le Nazioni Unite restano cruciali non solo per i Paesi in via di sviluppo, ma per la salute ambientale, sociale ed economica dell’intero Pianeta. Ci sono temi, infatti, sui quali non è possibile andare avanti divisi, che possono essere affrontati adeguatamente solo con un accordo tra tutti i Paesi. Questo varrà anche in futuro, si pensi ad esempio allo spazio e ai rischi di scontri militari nei prossimi anni per occuparlo se non ci saranno regole comuni, ma anche ai cambiamenti climatici e alle pandemie. L’intera situazione globale è garantita dai molti accordi internazionali che, seppur con i loro difetti, hanno portato grandi progressi nel mondo. È vero che il diritto internazionale non ha sempre valore vincolante, ma strumenti come sanzioni, inchieste, isolamento diplomatico e pressioni morali possono fare la differenza. Perché violare il diritto internazionale vuol dire rinnegare accordi presi a livello internazionale, fondamenta dei rapporti civili tra tutti i Paesi del mondo. Anche nel modo in cui si fa guerra ci sono delle regole, e violarle colpisce direttamente i civili, come sta avvenendo purtroppo a livello globale.
Ci sono ambiti in cui l’Onu continua a funzionare. Si pensi al nuovo Gruppo di alto livello indipendente formato da Guterres per elaborare una misura di valutazione del benessere “oltre il Pil”, di cui fa parte anche il direttore scientifico dell’ASviS Enrico Giovannini. Quanto alle agenzie, e al loro ruolo cruciale nel mondo nonostante i rischi posti dalla situazione geopolitica, gli alti funzionari delle Nazioni Unite stanno valutando la possibilità di fondere in un’unica entità le principali agenzie umanitarie, come riportato in un documento riservato visionato da Reuters. L’obiettivo ultimo è creare un meccanismo più snello, centrato soltanto su quattro grandi dipartimenti: pace e sicurezza, affari umanitari, sviluppo sostenibile e diritti umani.
Le idee di riforma vengono anche dal dibattito pubblico. Paolo Lepri, in un articolo sul Corriere della Sera dal titolo “Nostalgia dell’Onu”, riporta alcune riflessioni dello storico birmano Thant Myint-U, nipote dell’ex segretario generale delle Nazioni Unite U-Thant: “bisogna abbandonare ‘i modelli interventisti degli anni ’90, concepiti per un particolare tipo di guerra civile’ e puntare ‘ad una nuova diplomazia di pace adatta a un mondo sempre più militarizzato, guidato dai social media, multipolare’. La dura realtà, osserva, è che manca oggi lo spirito di internazionalismo alla base dell’Onu”.
Per Giampiero Massolo (ex segretario generale della Farnesina) abbiamo bisogno di un “multilateralismo dal basso”, con il coinvolgimento del settore privato. “Non possiamo lasciare il lavoro solo agli Stati”, ha affermato, “bisogna trovare un’alternativa, una nuova sintesi per progredire tra Paesi in via di sviluppo e Paesi sviluppati”.
Anche se la politica in questo momento si muove in un’altra direzione, una cooperazione internazionale che non parta esclusivamente dagli Stati o dalle istituzioni sovranazionali, ma coinvolga attivamente attori locali e non statali (come città, regioni, organizzazioni della società civile, comunità locali, giovani, imprese e movimenti sociali), potrebbe rappresentare un punto chiave della nuova idea di multilateralismo. Un modo per valorizzare le esperienze territoriali, promuovere la cooperazione orizzontale tra attori di Paesi diversi ma con caratteristiche simili e colmare il divario tra la dimensione globale e locale. Un multilateralismo inclusivo, efficace e aderente alle istanze reali delle comunità.
Copertina: UNICEF
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