È caos a Bruxelles sulla direttiva Green Claims. La Commissione europea ha ritirato la proposta di legge contro il greenwashing aziendale, messa in discussione dal piano Draghi e dal Clean Industrial Deal, che nel nome della competitività e della semplificazione normativa hanno cambiato il percorso della transizione verde in Europa rispetto a come era stato promosso dal primo esecutivo von der Leyen. Tiemo Wölken di S&D e Sandro Gozi di Renew Europe, i due relatori per il Parlamento europeo, hanno rivelato che i negoziatori del Consiglio e dell’Eurocamera non hanno trovato l’accordo sulla direttiva per le pressioni di alcuni Paesi membri e dei principali partiti conservatori.
“Ci sono troppi dubbi e confusione sul dossier. Abbiamo deciso di sospendere i lavori: la qualità è più importante della rapidità”, ha dichiarato la presidenza polacca del Consiglio. “Per quanto riguarda i prossimi passi, non abbiamo ancora le idee chiare, quindi resteremo in contatto con il Parlamento europeo e la Commissione europea per valutare le possibili azioni da intraprendere”. Ma cosa prevede di preciso la direttiva Green Claims e chi e perché ha remato contro la sua approvazione in un momento storico in cui si prevede che l’aumento della spesa per la difesa peggiorerà la crisi climatica?
In questo articolo:
- Cos’è la direttiva Green Claims e che prevede
- La legge europea contro il greenwashing spacca l’Ue
- Perché l’Italia ha cambiato idea in Consiglio
Cos’è la direttiva Green Claims e che prevede
Green Claims significa dichiarazioni ambientali: la proposta di direttiva europea che prende questo nome, lanciata dalla Commissione nel marzo 2023, ha l’obiettivo di introdurre nuovi criteri per impedire alle aziende di fare greenwashing, ovvero la pratica scorretta di fornire informazioni fuorvianti e inaffidabili sulle caratteristiche ambientali e sociali dei prodotti e servizi messi in commercio. L’intento della norma è rendere le dichiarazioni ambientali attendibili, comparabili e verificabili scientificamente in tutta l’Unione europea e contribuire a creare un’economia circolare e sostenibile, permettendo a consumatrici e consumatori di fare scelte di acquisto informate.
Per utilizzare etichette come “eco-friendly”, “biodegradabile”, “naturale”, “a basso impatto ambientale” o “proveniente da fonti rinnovabili”, le aziende devono fornire delle prove concrete. La direttiva impone standard rigorosi di trasparenza e accuratezza: le dichiarazioni hanno l’obbligo di comunicare a consumatrici e consumatori dati reali e comprovati. Secondo i numeri elaborati dalla Commissione, infatti, oltre il 50% delle informazioni ambientali presenti sul mercato sono vaghe, fuorvianti o infondate. Nel 40% dei casi l’ecologismo è solo di facciata e non è supportato da alcuna prova solida.
Le imprese devono dimostrare scientificamente, in modo verificabile e all’interno dello stesso mezzo (ad esempio la confezione del prodotto o lo spot pubblicitario) le proprie dichiarazioni ambientali. Ogni dichiarazione esplicita deve essere supportata da dati oggettivi, verificati da enti terzi indipendenti e accreditati. Oltre a vietare le dichiarazioni prive di fondamento, la norma prevede che le espressioni legate al clima, come “a zero emissioni nette” o “carbon neutral”, siano consentite soltanto se si riferiscono all’intero ciclo di vita del prodotto. L’obiettivo è ridurre i marchi di sostenibilità e le etichette ambientali, a oggi oltre 230 soltanto nell’Ue e molte di queste senza trasparenza né controlli. Le uniche label che si potranno utilizzare sono quelle basate su un sistema di certificazione o stabilite da una serie di autorità pubbliche.
La legge europea contro il greenwashing spacca l’Ue
Il testo della direttiva Green Claims è stato approvato dal Parlamento europeo nel gennaio 2024 con una schiacciante maggioranza: 593 voti favorevoli, 21 contrari e 14 astensioni. Successivamente, nel momento del trilogo, ossia il negoziato interistituzionale che avviene tra rappresentanti di Eurocamera, Consiglio e Commissione durante la procedura legislativa, la legge è rimasta bloccata in Consiglio. Nel giugno 2025, gli eurodeputati di Ppe (il Partito popolare europeo), Ecr (Conservatori e riformisti) e Patrioti per l’Europa (destra ed estrema destra) hanno inviato una richiesta formale alla commissaria per l’ambiente, Jessika Roswall, per ritirare la norma. Pochi giorno dopo, il portavoce della Commissione per la coesione, le riforme, l’ambiente e la pesca, Maciej Berestecki, ha annunciato senza una spiegazione ufficiale che “nel contesto attuale, in effetti la Commissione europea intende ritirare la proposta di una nuova legge sulle dichiarazioni ambientali”.
La questione più contestata dai partiti conservatori europei è l’esenzione delle microimprese dai requisiti per le dichiarazioni ambientali e i marchi di sostenibilità. La posizione del Consiglio è di includere le piccole aziende (quelle con meno di 10 dipendenti e un fatturato o un totale di bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro) nel campo di applicazione. La Commissione, invece, è di parere opposto e vorrebbe garantire le esenzioni per queste realtà. I vincoli “rischiano di ostacolare indebitamente la comunicazione in materia di sostenibilità attraverso procedure eccessivamente complesse, onerose dal punto di vista amministrativo e costose”, si legge nella richiesta ricevuta da Roswall.
Quando l’accordo tra le parti sembrava trovato, come ha rivelato Gozi, è arrivata la dichiarazione di Bruxelles con l’annuncio del ritiro della direttiva. L’emendamento “comporterebbe oneri per circa 30 milioni di microimprese, il 96% di tutte le imprese”, ha detto Paula Pinho, la portavoce dell’esecutivo. Una fonte della Commissione ha poi precisato che “il Consiglio ha distorto gli obiettivi della proposta”, ovvero “sostenere lo sviluppo dei mercati verdi senza imporre oneri alle imprese più piccole”, e che l’accordo non è stato completato perché l’approccio “sta andando completamente nella direzione sbagliata”.
“Aspetteremo e vedremo il prossimo incontro interistituzionale per capire se questo emendamento, che va completamente contro l’agenda di semplificazione, verrà mantenuto oppure no. Se non verrà mantenuto, allora potremo riconsiderare la nostra proposta di ritiro”, ha aggiunto Pinho. A giocare un ruolo decisivo sono stati i rappresentati dell’Italia in Consiglio: la maggioranza è saltata quando questi ultimi hanno cambiato idea e revocato l’appoggio inizialmente conferito. Fonti diplomatiche hanno confermato che “l’Italia sostiene l’intenzione della Commissione di ritirare la proposta di direttiva Green Claims” e che “si tratta di una proposta che l’Italia non ha mai sostenuto”.
Perché l’Italia ha cambiato idea in Consiglio
In realtà nel giugno 2024, in fase di approvazione dell’orientamento generale in Consiglio, l’Italia aveva dato il proprio assenso alla proposta di legge. Le ragioni del dietrofront sono state chiarite da Carlo Fidanza e Nicola Procaccini, europarlamentari di Fratelli d’Italia del gruppo Ecr. I due deputati hanno fatto sapere in una nota che la normativa “avrebbe potuto imporre oneri ingiustificati e restrizioni eccessive in materia di comunicazione ambientale delle aziende”: bloccare la direttiva Green Claims ha significato smontare “un altro pezzo del Green Deal ideologico firmato Timmermans, confermando la necessità di norme ambientali equilibrate e realistiche, posizioni per cui ci battiamo fortemente dalla scorsa legislatura europea e che finalmente sembrano incontrare il buon senso della Commissione Ue e di altre forze politiche”.
I socialisti del Pse e i liberali di Renew Europe, i due gruppi che con il Ppe compongono la maggioranza politica della Commissione von der Leyen II, hanno bollato il ritiro della direttiva da parte dell’esecutivo come “una forzatura senza precedenti”. Il Pse avrebbe addirittura consegnato a Ursula von der Leyen un ultimatum sulla permanenza del gruppo nella maggioranza europea che ha sostenuto il rinnovo della Commissione. “Abbiamo avuto l’impressione che la Commissione stesse seguendo le istruzioni dei tre gruppi politici”, ha affermato Gozi facendo riferimento all’alleanza tra Ppe, Ecr e Patrioti per l’Europa. Gozi e Wölken hanno ribadito che “nel mandato del Parlamento europeo le microimprese sono esentate dal campo di applicazione della direttiva” e dunque la chiusura dei negoziati e il ritiro della legge rappresentano esclusivamente la volontà politica del Partito popolare.
“Non riteniamo giusto privare il Parlamento della possibilità di concludere i negoziati su una direttiva dopo due anni di processo legislativo e innumerevoli ore di lavoro”, hanno detto Antonio Decaro, presidente della Commissione per l’ambiente del Parlamento europeo, e Anna Cavazzini, presidente della Commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori. “Ci viene impedito di discutere e, auspicabilmente, di raggiungere un accordo su un’importante direttiva che serve a rafforzare la consapevolezza ambientale e la fiducia dei consumatori, rendendo più affidabili e verificabili le dichiarazioni di marketing ambientale. Inoltre, la lotta al greenwashing creerebbe condizioni di parità per le imprese che già operano in modo sostenibile. In qualità di presidenti delle commissioni competenti del Parlamento europeo, siamo pronti a riprendere i negoziati il prima possibile, riprendendo il dialogo istituzionale”.
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