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NATO: Il vertice del 5 % e l’ombra lunga del disimpegno americano


Alla fine dunque, nonostante i timori della vigilia legati agli sviluppi sempre più imprevedibili della situazione in Medio Oriente, Donald Trump è venuto. Il summit NATO che si è aperto ieri sera all’Aja con la cena ufficiale ospitata dalla famiglia reale olandese dovrebbe anzi, almeno nelle aspettative e speranze degli organizzatori, offrirgli un’altra opportunità per un giro d’onore: se le parole con cui lo ha accolto il Segretario Generale Mark Rutte sono state all’altezza della sua fama di ‘Trump whisperer’, la dichiarazione comune resa nota oggi – la più breve dell’ultimo decennio (una sola pagina) – contiene l’impegno collettivo degli alleati a spendere fino al 5 per cento del PIL nazionale sulla difesa, in linea con un’esternazione fatta mesi fa da Trump che, all’epoca, molti avevano ritenuto fantasiosa e del tutto irrealistica. Al di là delle richieste di esenzione dell’ultima ora (per ragioni interne molto diverse) di Spagna e Slovacchia – che hanno irritato altri alleati e potrebbero irritare ancor più il presidente americano – la formula “allies commit” (al posto di “we commit”, vincolante in fondo anche per Washington) che annuncia il nuovo Defence Investment Plan dovrebbe offrire a Trump una buona scusa per non rilanciare la disputa acrimoniosa con cui si era presentato per la prima volta a Bruxelles nel luglio 2018. È anche per contenere questo rischio, del resto, che la riunione di lavoro plenaria di stamattina – l’unica del vertice – è limitata a un paio d’ore, e non si dovrebbe parlare di Ucraina e Russia, a cui sono riservate solo poche parole (un’altra evidente differenza rispetto al recente passato) nella dichiarazione conclusiva.  

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La ‘soluzione 5 per cento’ rappresenta un successo per il Segretario Generale Mark Rutte, che ha saputo trovare la quadra per blandire il presidente americano venendo nello stesso tempo incontro alle esigenze di diversi alleati europei. L’abile ripartizione fra un 3,5 per cento per le capacità militari “core” (compresi, probabilmente, gli aiuti bilaterali all’Ucraina) e l’1,5 per le capacità “adiacenti” (infrastrutture e resilienza, cyber e anti-terrorismo) lascia infatti una certa flessibilità nell’allocazione nazionale delle risorse. E se la scadenza per rispettare il target dovesse davvero essere il 2035 – e non il 2032 previsto inizialmente – la flessibilità si estenderebbe anche ai tempi per spalmare la crescita dei bilanci su più anni (dieci, come nel caso del precedente Defence Pledge del 2014). È probabile tuttavia che alcuni alleati richiedano in cambio una sorta di  ‘tagliando’ già nel 2029, se non altro per evitare quello che è successo negli ultimi 2/3 anni, con aumenti di spesa affrettati (e perciò potenzialmente dispersivi) per rispettare il vecchio target  ed evitare l’ira di Trump: in effetti, Italia, Spagna, Canada, Belgio, Portogallo e Lussemburgo rispetteranno il 2 per cento deciso in Galles nel 2014 solo quest’anno.  

Oltre (e dietro) il 5 per cento, e l’articolo 5 

L’enfasi sugli obiettivi di spesa può apparire esagerata, anche se oggi è meglio collegata rispetto al passato agli obiettivi di capacità militari decisi dai ministri della difesa alleati pochi giorni fa, sulla base dei piani regionali (nord, centro e sud) adottati da più di un anno. Ma è chiaramente un modo per cercare di disinnescare a monte un’altra possibile controversia transatlantica e per guadagnare tempo, a valle, in vista del probabile disimpegno americano dal continente europeo, peraltro già annunciato non solo da Trump ma dall’intera amministrazione. La stessa recente nomina del generale Alexus Grynkewich a nuovo comandante supremo delle forze alleate (SACEUR) e delle forze americane in Europa, se ha fugato i timori di un disimpegno imminente (nel caso il Pentagono avesse ceduto la carica, per la prima volta, ad un alto ufficiale europeo), non ha certo dato rassicurazioni sul futuro prossimo. 

La sfida di fronte a cui si trovano soprattutto gli alleati europei, anzi, sta proprio nel capire in quali tempi e quali forme quel disimpegno potrà materializzarsi, e con quali implicazioni per la sicurezza del continente. Pare che il ministro della difesa tedesco Boris Pistorius e suoi colleghi nordici abbiano sollecitato Washington a preparare e presentare agli alleati un piano di massima a questo proposito, dato che l’eventuale disimpegno americano avrebbe un notevole impatto su come e quanto investire in Europa per mitigarne le possibili conseguenze – non tanto in termini di forze vere e proprie (gli USA hanno comunque tuttora oltre 100 000 militari sul continente, circa 20 000 dei quali stazionati nei paesi più prossimi al conflitto russo-ucraino) quanto soprattutto in termini di capacità (i cosiddetti strategic enablers, dai satelliti per le comunicazioni e l’intelligence alle difese antimissile), che sono molto più ardue e costose da (ri)costituire.  

Al momento, tuttavia, è evidente che l’amministrazione americana preferisce tenersi le mani libere anche su questo. Non ci sono soltanto l’imprevedibilità e la volatilità del contesto strategico – a cominciare dalla guerra in Ucraina – o il fatto che Pete Hegseth ha appena lanciato una revisione della defence strategy nazionale che dovrebbe concludersi a fine estate e produrre una nuova (e certamente diversa) defence posture degli Stati Uniti. C’è anche da mettere in conto lo stile politico di Donald Trump, che ama fare della propria imprevedibilità e perfino volubilità uno strumento di pressione politica, anche (se non soprattutto) verso i paesi ‘amici’. La sequenza di minacce, tentativi di deal, annunci di misure estreme, improvvisi voltafaccia e precoci giri d’onore – già vista nelle dispute commerciali – è ormai messa in atto anche in materia di sicurezza, come si è visto pure in Medio Oriente negli ultimi giorni. Quello che Zaki Laidi, su Le Monde, ha chiamato ‘geo-narcisismo’ ha del resto già investito la NATO, in passato come nei mesi scorsi, e anche se il summit dovesse concludersi senza sostanziali sbavature non ci sono garanzie che i prossimi mesi non riservino nuovi shock – verbali e non. La persistente reticenza di Trump (anche a bordo dell’Air Force One che lo ha portato in Olanda) a riaffermare chiaramente il valore e la validità dell’articolo 5 è, in questo senso, piuttosto significativa. 

Già all’indomani dell’Aja i leader dei 27 paesi UE si riuniranno per il loro summit, a Bruxelles, e sarà importante capire come intendono posizionarsi rispetto alla prospettiva di un disimpegno americano, che potrebbe cominciare già a settembre con il taglio degli aiuti (innazitutto economici) all’Ucraina – senza contare i negoziati in corso sui dazi, la marginalizzazione degli europei dalla diplomazia mediorientale, o le divergenze su Putin. Proprio nei giorni scorsi, sulla scia di quanto fatto in maggio dalla Gran Bretagna, Australia e Canada hanno firmato con l’UE partenariati in materia di sicurezza e difesa – che dovrebbero fra l’altro dischiudere loro l’accesso ai nuovi fondi comunitari per l’industria militare – a riprova del fatto che perfino la cosiddetta ‘anglo-sfera’ sta cominciando a prepararsi a quel disimpegno. Per gli europei, la vera sfida consisterà nel preservare il preziosissimo patrimonio di deterrenza e interoperabilità della NATO (compresa la sua ‘cultura aziendale’) sviluppando nello stesso tempo al suo interno, anche attraverso la UE, le capacità militari e la coesione politica e strategica indispensabili per poter fare a meno – dovesse davvero dimostrarsi necessario – della protezione, almeno convenzionale, di Washington. 

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