War economy, conflitti, crisi degli approvvigionamenti, costi e austerity globale: così il Made in Italy finisce sotto attacco.
L’Europa ha intrapreso una strada che molti avrebbero ritenuto impensabile solo pochi anni fa: una “conversione progressiva verso l’economia di guerra”. Spinta dall’urgenza del conflitto russo-ucraino, e giustificata da un riarmo, conversione industriale e continue provocazioni militari russe “urbi et orbi”, l’Unione Europea ha cominciato a militarizzare la produzione.
In questo contesto, il Made in Italy – sinonimo di qualità, creatività e tradizione nei settori della moda, del design, dell’agroalimentare e dell’automotive – si trova a un bivio.
Come può un sistema economico orientato alla guerra influire su un simbolo globale di bellezza e innovazione?
Questo articolo esplora opportunità, sfide e prospettive future per l’eccellenza italiana in un’Europa e mondo in trasformazione.
L’Europa si prepara alla guerra (senza dirlo)
Il concetto di “War Economy” non è più solo retorica da think tank. È realtà industriale e politica.
Dalla Germania alla Francia, passando per Polonia e Slovacchia, si moltiplicano fondi pubblici, fabbriche di armamenti, accordi con la NATO, e stanziamenti miliardari.
Nel 2024, Ursula von der Leyen ha parlato apertamente della necessità per l’UE di adottare “un modello industriale da economia di guerra”.
Il Green Deal stesso è ormai subordinato alla priorità militare, e una quota crescente del bilancio europeo (e nazionale) viene destinata alla difesa. Stiamo assistendo ad un aumento senza precedenti della spesa militare globale con l’impennata delle spese in Europa e Medio Oriente.
In questo contesto, l’Europa non guida, subisce, risponde. E così l’Italia, ma a quale prezzo?
Il Made in Italy soffoca sotto l’ incombenza bellica
Ecco come la “war economy” impatta direttamente le nostre eccellenze:
a) Contrazione della domanda interna
Con inflazione, pressione fiscale e aumento delle spese militari, le famiglie italiane spendono meno per moda, cultura, ristorazione e prodotti di qualità. Chi compra una borsa artigianale o un vino pregiato quando si sente sotto minaccia costante?
b) Contrazione dell’export
Le sanzioni contro mercati strategici come Russia e Cina hanno ridotto l’export italiano: nel 2023, le esportazioni di moda verso la Russia sono crollate del 60% (fonte: Sistema Moda Italia).
c) Dirottamento di fondi
I fondi UE e PNRR sono sempre più orientati verso cybersecurity, difesa, infrastrutture dual use. Le PMI dell’agroalimentare, della moda e dell’arredo restano fuori da questo flusso finanziario.
Paradossalmente, un’azienda che produce munizioni oggi ha più accesso a finanziamenti di una che produce vino biodinamico.
d) Riconversione forzata od opportunità?
Alcune industrie vengono spinte a “riconvertirsi” verso la produzione bellica. Un processo che, oltre a snaturare la vocazione aziendale, rischia di distruggere decenni di competenze, tradizioni e orgoglio produttivo.
e) L’aumento dei costi delle materie prime
È una minaccia concreta: nel 2024, i prezzi dell’energia sono cresciuti del 30% in Europa (fonte: Eurostat), colpendo settori energivori come la produzione tessile e la lavorazione dei metalli. Ad esempio, il distretto ceramico di Sassuolo, leader nel design italiano, ha segnalato un calo della produzione del 15% a causa dei costi energetici (fonte: Confindustria Ceramica, 2024).
Nuove prospettive
La War Economy europea sta aprendo nuove prospettive per alcuni comparti del Made in Italy. Il settore aerospaziale e della difesa, rappresentato da aziende come Leonardo, beneficia direttamente dall’aumento della domanda di tecnologie avanzate. Ad esempio, Leonardo ha registrato un incremento degli ordini per sistemi di difesa elettronica e velivoli militari, con un portafoglio ordini che nel 2024 ha superato i 40 miliardi di euro e già nel primo trimestre 2025, ordini per € 6,9 MLD (+20,6%), ricavi € 4,2 MLD (+14,9%), EBITA € 211 MIL (+17,9%). FOCF € – 580 MIL, in crescita del 7,6%. (fonte: Leonardo SpA, 2025).
Anche la moda tecnica, come i tessuti ad alte prestazioni per uniformi militari, sta trovando spazio: il caso di Massimo Osti dimostra chiaramente come un brand di moda possa integrare materiali tecnici ad alto valore, con applicazioni potenzialmente dual‑use. (civili e militari).
In Italia esistono molte aziende che sviluppano materiali altamente tecnici o nanotecnologici con potenziale dual-use, anche se la maggior parte rimane focalizzata su moda, sport, abbigliamento professionale o sostenibile. Alcuni marchi (come IT.TECH, VAGOTEX, Directa Plus) lavorano già su tecnologie che possono servire sia all’uso civile che, potenzialmente, anche a quello militare.
Le piccole e medie imprese (PMI), cuore del Made in Italy, dimostrano una straordinaria capacità di adattamento. La loro flessibilità consente di diversificare la produzione senza compromettere l’identità del marchio.
Inoltre, in un mondo segnato dall’instabilità, il Made in Italy si rafforza come “bene rifugio”: il lusso italiano, con la sua aura di esclusività, continua ad attrarre consumatori globali, soprattutto nei mercati emergenti come India e ASEAN.
Uno studio di Bain & Co. presentato ad Altagamma evidenzia che, nonostante rallentamenti dovuti a guerre, dazi e flessioni economiche, il mercato del lusso non collassa, soprattutto grazie alla resilienza in Medio Oriente, America Latina e Asia sudorientale
In particolar modo per l’Asia, un’analisi di Milano Finanza sottolinea come il fashion premium sia oggi considerato anche un “safe haven” per i consumatori del Far East, in mercati come Singapore e Malesia
Le esportazioni italiane crescono
Nel complesso le esportazioni italiane stanno crescendo, in particolare se si considerano i dati trimestrali, ma secondo un’analisi del Centro Studi di Confartigianato, l’incertezza geopolitica — dal Medio Oriente alla crisi tra Russia e Ucraina fino alle tensioni tra India e Pakistan — mette a rischio 61,4 miliardi di euro di export italiano, pari al 9,8 % delle esportazioni totali, concentrati soprattutto in comparti ad alta artigianalità (moda, gioielleria, occhiali, alimentari, arredamento e metallo).
Inoltre, il 40,7 % dell’import energetico nazionale (circa 27,6 miliardi di euro) proviene da 17 Paesi a rischio, tra cui Arabia Saudita, Qatar, Iraq ed Emirati, retti sul delicato passaggio dello Stretto di Hormuz (più che mai a rischio).
Questo rende l’Italia vulnerabile a blocchi delle forniture e shock energetici, con impatti diretti su costi di produzione, inflazione e competitività delle nostre imprese.
Una “tempesta perfetta” che ha spaccato in due il sistema produttivo italiano.
Da un lato, i settori tradizionali del Made in Italy – dalla moda alla meccanica di precisione – schiacciati dall’impennata dei costi energetici, dalla difficoltà di reperire materie prime strategiche e dalla chiusura di mercati vitali come quello russo. Dall’altro, in questo deserto di difficoltà, gli unici a prosperare sono i mercanti di un macabro boom: il settore della difesa, che beneficia di commesse crescenti, e pochi giganti dell’energia, che capitalizzano sul nuovo “triangolo energetico” con il Nord Africa per sostituire le forniture russe.
Si delinea così una frattura netta: da un lato il Made in Italy diffuso, che paga il prezzo più alto; dall’altro, un’élite industriale legata ad armi ed energia che, cinicamente, trae profitto dalla crisi, accelerando la cannibalizzazione dell’economia civile.
L’austerità indotta: la scure sulla domanda di beni “Made in Italy”
L’altro fronte, silenzioso ma altrettanto devastante, della “War Economy” è l’austerità strisciante che essa impone.
Ogni miliardo di euro dirottato (scelta obbligata) su munizioni, droni e sistemi di difesa è un miliardo sottratto a sanità, cultura, istruzione o a necessari sgravi fiscali per famiglie e imprese.
Questa riallocazione delle risorse, unita a un’inflazione alimentata dai costi energetici e delle materie prime, genera un clima di incertezza economica che agisce come un veleno per i consumi.
A essere erosa non è solo la capacità di spesa delle fasce più deboli, ma soprattutto quella della classe media europea e globale, ovvero il cliente d’elezione del Made in Italy.
Quando le famiglie sono costrette a fare i conti con il caro-bollette e l’aumento del costo della vita, il primo acquisto a essere sacrificato non è quello di necessità, ma quello legato al desiderio, alla gratificazione, allo status: un capo di moda, un oggetto di design, una vacanza culturale.
Questa dinamica non è solo italiana o europea, ma globale.
La contrazione della domanda nei nostri mercati di esportazione chiave, dagli Stati Uniti all’Asia, segue la stessa logica. L’austerità, ufficiale o di fatto, trasforma così il consumatore mondiale da ammiratore della bellezza italiana a un cauto risparmiatore, prosciugando il mercato del desiderio da cui le nostre eccellenze traggono linfa vitale.
Una nuova cortina di ferro economica
Come non bastasse la crescente polarizzazione geopolitica sta ridefinendo le regole del commercio globale.
L’Italia, in quanto Paese dichiaratamente occidentale e atlantico, si trova oggi a dover rinunciare – per scelta di campo – a mercati un tempo strategici come Russia e Iran, ma anche ad approcci neutri con il Sud globale.
Questa nuova cortina di ferro economica comporta l’esclusione da relazioni commerciali in aree dove il Made in Italy aveva consolidato reti e domanda qualificata. Il risultato è una progressiva chiusura degli spazi d’azione, con una ridefinizione delle filiere globali che penalizza soprattutto le PMI italiane. In un mondo dove “con chi fai affari” è diventato un atto politico, l’identità occidentale diventa un vincolo commerciale oltre che un asset valoriale.
La reputazione internazionale è a rischio
Un altro rischio è la dissonanza culturale. Il Made in Italy è associato a valori di bellezza, sostenibilità e lifestyle; un’economia bellica potrebbe alienare consumatori attenti a questioni etiche. Brand come Gucci e Ferragamo, che hanno investito in campagne di sostenibilità, devono navigare con cautela per non compromettere la loro reputazione.
Chi compra Made in Italy nel mondo non lo fa solo per la qualità. Lo fa per ciò che “rappresenta”: una civiltà fondata sull’armonia, sulla bellezza, sull’individuo, sulla creatività che nasce dalla libertà.
Se l’Italia diventa — o viene percepita come — satellite bellico dell’asse franco-tedesco o americano, se svende la propria immagine per un posto subalterno nella catena militare dell’UE, allora rischia di perdere l’aura simbolica che rende i suoi prodotti irresistibili.
Nei mercati americani, giapponesi, israeliani o emiratini, dove i consumatori cercano autenticità, l’Italia potrebbe non essere più considerata un faro culturale, ma un semplice esecutore industriale. E a quel punto, perché pagare di più per un prodotto italiano?
Prospettive future: una strategia per resistere (e vincere)
Per uscire dal marasma della War Economy, dell’instabiltà internazionale nel suo complesso, il Made in Italy deve puntare:
- sull’ innovazione tecnologica. Le tecnologie dual-use, utilizzabili sia in ambito civile che militare, rappresentano un’opportunità.
- La diversificazione dei mercati, ampliando l’attenzione a USA, India, ASEAN, ma anche a paesi strategici come Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.
- La delocalizzazione produttiva in alcuni casi come quello degli Stati Uniti come già aziende quali Illy e Lavazza hanno deciso di fare.
- la creazione di una solida catena di distribuzione internazionale italiana.
- Inoltre, è cruciale che il governo sostenga le PMI tradizionali con sgravi fiscali e accesso ai fondi.
Sono passi chiave per mantenere il controllo qualitativo e l’identità del brand, trasformando la crisi in opportunità. Solo così il Made in Italy sarà capace di adattarsi a un mondo in rapida trasformazione senza perdere la propria anima.
E ricordiamoci sempre che il Made in Italy non è un prodotto. È “una dichiarazione di guerra contro la decadenza”.
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