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Quel business nel Dna – Economy Magazine


Ci sono i Berlusconi e gli Agnelli, i Del Vecchio e i Caprotti, i Vacchi e i Benetton, i Marzotto e i Florio, i Merloni, gli ZoppasDinastie imprenditoriali che affollano le cronache con le loro storie di successo… e passaggi generazionali spesso conditi da una buona dose di conflittualità. Se le  statistiche dicono che due terzi delle imprese familiari non sopravvivono alla seconda generazione e solo il nove per cento sopravvive alla terza, sappiate che, a guardare dallo specchietto retrovisore le dinastie imprenditoriali appena citate, ci sono famiglie che mandavano avanti ininterrottamente la loro azienda da secoli: i Marinelli, attivi dal 1040 con la loro fonderia ad Agnone, in provincia di Isernia; i Barovier e i Toso, vetrai muranesi dal 1295; i fiorentini Torrini, che dal 1369 realizzano gioielli tanto preziosi da essere esposti persino al British Museum; i Magnani con la lo fabbrica di carta a Pistoia, avviata nel 1404; i Camuffo con il loro cantiere navale di Portogruaro, il più antico del mondo, aperto nel 1438; i Beretta, ormai alla quindicesima generazione nella produzione di armi dal 1526; gli Amarelli con le loro liquilizie dal 1731… Sono lì, da secoli, a dimostrare che il modello dell’impresa familiare è un modello vincente. E lo è per una semplice ragione: la famiglia è (o meglio, dovrebbe essere) un organismo che vive di lungimiranza, la stessa che va iniettata nella gestione dell’azienda. Perché se sopravvive l’una, sopravvive anche l’altra. 

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L’Italia, va detto, è al quarto posto su scala globale (dopo Stati Uniti, Germania e Francia) e al terzo in Europa tra i Paesi con più aziende familiari incluse nel Global 500 Family Business Index, che classifica con cadenza biennale le 500 maggiori aziende familiari a livello globale sulla base dei ricavi (con una crescita di quelli delle realtà italiane del 12% rispetto al 2023, dai 160 miliardi di dollari del 2023 ai 179 miliardi di dollari del 2025). «Nonostante le sfide degli ultimi anni, le aziende italiane continuano a dimostrare una forte capacità di adattamento al contesto esterno e crescita, anche grazie ad una gestione attenta e orientata agli investimenti in tecnologia, ricerca e innovazione», commenta Massimo Meloni, EY Italy Private Leader and Italy Audit & Assurance Market Leader. Il 36% delle aziende incluse nel Global 500 Family Business Index ha una storia di oltre 100 anni, a testimonianza della longevità che caratterizza il tessuto imprenditoriale italiano. Dall’Indice emerge che il 31,8% delle aziende italiane sono quotate in borsa, un dato inferiore alla media europea (38,4%) e globale (51,8%), a testimonianza di una propensione ancora limitata all’apertura del capitale delle aziende italiane alla Borsa. La presenza delle famiglie fondatrici nella compagine azionaria e nel top management resta forte: per circa il 45% delle società un componente della famiglia ricopre la posizione di Ceo, a testimonianza della centralità delle famiglie nello sviluppo di queste realtà.

Il cambio della guardia

Per il sistema Paese si tratta di un tema cruciale, considerato che in Italia, stanto ai rilievi dell’Istat, sono familiari l’80,9% del totale delle imprese con almeno tre addetti… Imprese dalle quali dipende la sopravvivenza non solo della famiglia proprietaria, ma anche delle famiglie di chi, in quell’impresa, ci lavora. Imprese la cui gestione è affidata nella maggior parte dei casi all’imprenditore stesso o a un membro della famiglia proprietaria, anche se nelle imprese di medie (10,4% delle unità considerate) e grandi dimensioni (21,3%) si ricorre un manager interno o esterno all’impresa. La sopravvivenza per generazioni ruota tutta intorno a un solo perno: quello del passaggio generazionale. 

I numeri della XVI edizione dell’Osservatorio Aub promosso da Aidaf (Italian Family Business), che analizza ogni anno proprietà, governance e performance delle imprese familiari italiane con fatturato superiore ai 20 milioni di euro, parlano chiaro: il ricambio generazionale nelle imprese familiari italiane non solo è un passaggio obbligato, ma rappresenta un’opportunità strategica. Prova ne sono i risultati economico-finanziari delle aziende che hanno affrontato un passaggio generazionale tra il 2013 e il 2022, che rispetto alla media mostrano un differenziale positivo medio annuo del 7,4% nei ricavi, del 3,5% nel Roe e del 11,5% nel tasso di crescita delle immobilizzazioni. E attenzione: non si tratta di una indagine a campione, ma di uno studio su tutte le aziende familiari italiane con un fatturato di almeno 20 milioni. In tutto 15.836 imprese, numero che già da solo rappresenta un risultato importante: sono ben 4.201 le imprese che sono entrate nella rilevazione solo quest’anno, con un incremento del 36,1% rispetto all’anno precedente e addirittura del 55% rispetto a dieci anni fa. Non solo: a differenza di quanto accaduto dopo il 2008, Le aziende familiari hanno avuto una crescita dell’occupazione del 17,9% rispetto ai livelli pre-Covid, un dato superiore a quello delle aziende non familiari (14.1%). Poi, il Roi delle aziende familiari (11%) è cresciuto ulteriormente nel 2023 e continua ad essere superiore a quello delle aziende (8,7%). Anche il Roe (14,4%), è rimast superiore rispetto a quello delle aziende non familiari (11,4%). Non solo: c’è un gap positivo nel rendimento dei dipendenti (16,9% vs 13,7%) e nell’indice di solidità finanziaria (Pfn/Equity) a quota 1,1, contro l’1,5 delle non familiari. Segno che il dinamismo dell’imprenditoria familiare italiana non si arrende alla permacrisi e, anzi, continua a crescere. Anche nel fatturato.

A crescere sono anche i passaggi dello scettro del comando da una generazione (spesso quella del fondatore) a quella seguente: la “NextGen”. La crescita dei leader ultra-settantenni si è infatti quasi arrestata a partire dal 2020 (sono rimasti 1 su 4), e il passaggio generazionale ha registrato un’accelerazione dal 2020, dall’1,5% all’anno nel periodo 2013-2019 al 2,1% annuo nel triennio 2020-2022. Da 127 passaggi generazionali ogni anno a 181, in media. Ma quello che colpisce è che le aziende che hanno effettuato un passaggio generazionale hanno mostrato miglioramenti in vari indicatori di performance: nel tasso di crescita annuo dei ricavi (+7,4%), in quello delle immobilizzazioni (+11,5%), nel Roa (+5,9%), nel Roe (+3,5%), nel rapporto tra Posizione finanziaria netta ed Ebitda (-5,5%) e persino nel rendimento dei dipendenti (+2,4%). Merito di una NextGen preparata: i successori hanno un alto livello di istruzione, con circa il 70% con almeno una laurea di primo livello (con le donne che tendono ad avere un livello di istruzione leggermente più elevato rispetto agli uomini), quasi 1 su 2 (46%) ha un titolo di studio in ambito economico (quasi 2 su 3 tra i NextGen donna). E si sono fatti le ossa, fuori dall’azienda di famiglia: 2 NextGen su 10 (16,6%) hanno svolto, prima dell’ingresso in azienda, una significativa esperienza lavorativa esterna e 1 su 20 un’esperienza lavorativa all’estero. Fattori che amplificano positivamente l’impatto del passaggio generazionale sulle performance aziendali, facendo crescere il Roe di altri 0,98 punti, il tasso di crescita dei ricavi di quasi altri 2 punti e il rendimento dei dipendenti di ulteriori 0,13 punti. Quando, poi, il successore entrante della NextGen ha un titolo di studio almeno pari ad una Laurea di II livello (magistrale), le performance salgono ancora. La spiegazione c’è, e la sottolinea Fabio Quarato, Managing Director della Cattedra Aidaf-Ey di Strategia delle Aziende Familiari in memoria di Alberto Falck, Università Bocconi: «I figli che subentrano ai padri hanno un livello di istruzione paragonabile ai manager esterni che subentrano ai leader della generazione precedente. Quello che resta ampio è il divario in termini di esperienza al di fuori dell’impresa familiare, che nella NextGen familiare è molto meno significativa rispetto ai manager esterni. Va anche detto però che oggi stiamo fotografando la situazione di chi ha completato il proprio percorso di studi circa vent’anni fa, per cui è molto probabile che questo differenziale si stia già riducendo»

«I numeri dell’Osservatorio AUB confermano che le imprese familiari che hanno effettuato un passaggio generazionale, in crescita nell’ultimo triennio, hanno mostrato performance migliori in quanto a redditività, produttività e solidità patrimoniale», commenta Cristina Bombassei, presidente di Aidaf. «Questo anche grazie al ruolo strategico della NextGen familiare come agente di cambiamento, in grado di portare nuove competenze, soprattutto nei settori tecnologici e innovativi, per meglio rispondere alle dinamiche di mercato e contribuire alla modernizzazione dei processi aziendali. In Aidaf consideriamo il passaggio generazionale non come un semplice atto di successione, ma come un dialogo continuo tra visione ed esperienza, tra passato e futuro. È un processo che va costruito con consapevolezza, responsabilità e ascolto reciproco. Per questo accompagniamo le famiglie imprenditoriali con programmi di formazione mirati, strumenti di governance evoluta e momenti di confronto intergenerazionale, come quelli promossi attraverso il nostro Comitato Giovani. Crediamo che le nuove generazioni vadano coinvolte attivamente, non solo preparate: portarle nei Consigli di Amministrazione, dare loro voce nelle scelte strategiche è il primo passo per responsabilizzarle. Promuoviamo una cultura della leadership fondata su merito, responsabilità e valori condivisi, perché sappiamo che le azioni si possono ereditare, ma la leadership si costruisce insieme, con ascolto, inclusione e visione comune. Il nostro obiettivo è che ogni famiglia possa trasformare la sfida della successione in un’opportunità di crescita, costruendo una Legacy capace di generare valore non solo per l’impresa, ma per la società».

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Regole ed eccezioni

E se il passaggio generazionale non viene adeguatamente programmato, e il successore non sfoggia lauree, master, dottorati vari? Non è detto che l’impresa sia destinata a scomparire, anzi. La “prova provata” la offre Francesco Casoli, presidente esecutivo di Elica (e presidente onorario di Aidaf). Nato a Senigallia nel 1961, si è trovato a soli 16 anni a fare i conti con la morte improvvisa del padre Ermanno, fondatore dell’azienda, scomparso a 49 anni. Un evento traumatico che ha segnato il suo ingresso forzato nel mondo dell’impresa e della responsabilità. Casoli non ha dubbi su quanto quel momento abbia inciso profondamente nella sua vita. «L’importanza di programmare il passaggio generazionale è fondamentale. Bisogna renderlo il più dolce possibile. Per me, invece, è stato traumatico. Mio padre non pensava certo di morire a 49 anni: è stato un passaggio inaspettato, non preparato. Io avevo 16 anni quando entrai in azienda». 

Al di là dell’esperienza personale – e Casoli ha ampiamente dimostrato di saperci fare, conquistando la leadership mondiale nella produzione di cappe da cucina – ciò che davvero determina la riuscita di una transizione tra generazioni, per il presidente Aidaf, non è soltanto la preparazione tecnica: «Quello che conta moltissimo è l’attitudine di chi prende il testimone. La preparazione è importante, certo, ma è l’attitudine a fare davvero la differenza. Nel mio caso, la paura di non riuscire a portare avanti tutto è stata la molla che mi ha permesso di mettermi in ascolto, di farmi domande, di avere la giusta attitudine. Non bisogna mai pensare di essere il più furbo di tutti, ma capire fin da subito che certe cose non le puoi fare da solo».

È da questa consapevolezza che nasce oggi il suo approccio al passaggio generazionale. «Sono concetti che non mi stanco mai di ripetere: il problema che vedo oggi è che sembra che con una buona scuola e una formazione adeguata si possano superare tutti gli ostacoli. Purtroppo non è così. Sicuramente l’istruzione aiuta, però sono convinto che quello che mi ha permesso di portare avanti l’azienda è stato questo mio pormi con la coscienza del fatto che avevo bisogno – e continuo ad avere bisogno – di aiuto. Eppure vedo tanti giovani che invece ritengono di avere tutte le risposte in mano», ammonisce Casoli: «non è così. Oggi le cose sono diventate molto complesse, tutte collegate, e l’empatia è una caratteristica che chiedo sempre di coltivare: avere la capacità di mettersi in relazione con gli altri». Poi insiste su due temi spesso ignorati nel linguaggio d’impresa: «l’aspetto caratteriale e quello sentimentale sono importanti, perché la responsabilità di portare avanti un sistema, un organismo come è l’impresa, è qualcosa con cui bisogna relazionarsi, capire, interpretare. Tutto questo non avviene automaticamente né meccanicamente».L’avvertimento è netto: «Ereditare quote di una società non ti dà il diritto di fare tutto quello che hai in testa, ma dà il dovere di capire il business, l’attività, cercare di capire le ragioni degli altri». Infine, una raccomandazione: «Bisogna capire che ci sono tanti più bravi di te. L’arroganza è pericolosissima».

Noblesse oblige

Buon vino fa buon sangue, ma fa anche buon business. Altrimenti non si spiega come mai tra le diverse aziende familiari in attività più antiche, ci siano così tante case vitivinicole. C’è la Barone Ricasoli, per esempio, fondata a Brolio, nel Chianti, nel 1141 da Bettino Ricasoli, il “Barone di ferro”, e oggi ha un fatturato che sfiora i 4 milioni di euro. Vicina di casa (e di vitigno), la Marchesi Mazzei Spa Agricola, nata nel 1435, porta avanti l’eredità a Castello di Fonterutoli (Siena) e ha un giro d’affari di circa 2 milioni di euro. Poi c’è la Conte Collalto, che dal 1300 produce bianchi, rossi, prosecco e olio di qualità nella Susegana, in provincia di Treviso, che ha un giro d’affari di 7,2 milioni di euro ed è guidata oggi da Isabella Collalto de Croÿ. E come non ricordare la Marchesi De’ Frescobaldi, fondata nel 1300 nella tenuta proprietà di famiglia già dall’XI secolo: oggi ha ricavi intorno ai 170 mln e un Ebitda vicino ai 64 milioni. Nobili anche gli Antinori, marchesi fiorentini per essere precisi, che dal 1385 producono vino: sono ormai alla 26ma generazione e hanno un giro d’affari alla soglia dei 400 milioni di euro. E ancora: i veneti Guerrieri Rizzardi. Nobili, ça va sans dire: conti i Guerrieri, conti i Rizzardi. Entrambe producono vino dalla metà del ‘600 e nel 1913, grazie a un matrimonio, nacque l’azienda agricola che oggi fattura 6,4 milioni di euro grazie alle tenute in Valpolicella, a Soave e a Bardolino. Tra baroni, conti e marchesi manca solo un duca. Anzi, no: c’è. E la Duca Carlo Guarini, fondata nel 1065 quando Ruggero Guarini giunse in Puglia al seguito di Roberto il Guiscardo. I Guarini cheoggi guidano l’azienda di Scorrano (Lece) non producono solo vini, ma anche olii, così come l’azienda agricola dei Conti Possenti Castelli di Terni, i cui natali risalgono al 1301 e che oggi è gestita da Maria Possenti Castelli ed è la più antica azienda olivicola d’Italia. Noblesse oblige, nobiltà fa obbligo: quello di fatturare nei secoli.



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