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Perché la Pa arriva sempre tardi all’appuntamento con l’innovazione


Nei centri per l’impiego, così come in tutto l’ambito della pubblica amministrazione, si continuano a erogare servizi ormai diventati “vecchi” e poco efficaci, per obbligo normativo. Andrebbe invece adottato modello basato su responsabilità per risultati.

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Il buon esempio di Nokia

Nokia nasce nel 1865 come cartiera. Nel corso del Novecento amplia le proprie attività nei settori della gomma, dei cavi e dell’elettronica. Dagli anni Novanta si afferma come leader globale nella telefonia mobile. All’epoca, il 40 per cento dei telefonini globali era un Nokia. La suoneria dei cellulari dell’azienda diventa così comune da diventare simbolo stesso del settore. Nel giro di pochi anni perde il mercato a causa della trasformazione tecnologica introdotta dagli smartphone. Nel 2013 dismette il comparto telefonico, cedendolo a Microsoft, e riconfigura la propria identità industriale nel campo delle infrastrutture di rete. La scelta, pur segnata da un ridimensionamento, ha consentito all’azienda di sopravvivere. 

Qui il punto chiave non è tanto la parabola di Nokia nella telefonia mobile, ma il fatto che l’azienda nasce come cartiera per la quasi inesauribile quantità di materia prima in Finlandia: le foreste. Cosa sarebbe accaduto se il legislatore avesse vincolato oggetto sociale e procedure produttive dell’azienda?

La traiettoria di Nokia evidenzia un aspetto strutturale delle imprese operanti in contesti competitivi: la possibilità, talvolta la necessità, di modificare radicalmente l’oggetto sociale e il modello operativo. In un ambiente aperto, le organizzazioni sono soggette a una pressione selettiva che favorisce le soluzioni più efficienti e più rispondenti al mutamento delle preferenze di utenti e clienti. L’adattamento continuo diventa una condizione di sopravvivenza e il cambiamento, anche profondo, viene spesso guidato da esigenze di mercato. Le imprese che non riescono a trasformarsi possono essere assorbite, ristrutturate o chiudere. Ma il sistema, nel suo complesso, evolve. Oggi sappiamo che un fattore chiave per le aziende di successo è la velocità di reazione al cambiamento. Un piano industriale pensato due anni fa, oggi rischia di diventare già obsoleto e può trascinare l’azienda a insistere su scelte sbagliate, che portano al fallimento. Sopravvivono, invece, le imprese che sanno reagire in fretta e sedimentano la capacità di ascolto dell’ambiente e di risposta ai bisogni e ai desideri espressi dal mercato nelle modalità richieste dal mercato (non ultimo, al prezzo più conveniente).

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Tutti i vincoli dei centri per l’impiego

Nel settore pubblico, e in particolare nei centri per l’impiego italiani, questo meccanismo di adattamento è, a esser generosi, fortemente limitato. I Cpi sono regolati da un sistema normativo multilivello: il Dlgs 150/2015 stabilisce le funzioni di base, il Dm 4/2018 definisce i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e le regioni ne disciplinano l’attuazione attraverso leggi regionali e delibere che specificano in modo dettagliato processi, strumenti, ruoli e modalità operative.

Questo assetto assicura uniformità e tracciabilità, ma ha criticità evidenti sul piano dell’adattabilità. La prima riguarda i servizi che pur avendo perso efficacia o rilevanza rispetto ai bisogni attuali devono continuare a essere erogati perché previsti da norme ancora in vigore. L’erogazione si trasforma così in un adempimento formale, non in una risposta a un bisogno concreto. La funzione sopravvive alla sua utilità perduta, resta operativa per obbligo normativo e spesso anche per vincoli di rendicontazione. Il fenomeno accade quando il ritardo rispetto al cambiamento di scenario riguarda la modalità di erogazione dei servizi, ad esempio perché non si adottano (o non si possono adottare) dispositivi comunemente utilizzati nel mercato. Nel settore della ricerca e selezione si utilizzano sistemi di simulazione situazionale o prove in-basket/inbox simulation (simulano una casella di posta elettronica lavorativa per valutare la capacità decisionale dei candidati.) all’interno di strumenti più ampi di assessment center digitali. Oggi questi sistemi potrebbero essere già obsoleti a causa del galoppare dell’intelligenza artificiale generativa. 

Cosa accade dunque nei servizi pubblici? Si erogano servizi old style, a volte poco efficaci, e la fruizione da parte degli utenti diventa un obbligo, una perdita di tempo necessaria per confermare il diritto di ricevere sostegno al reddito. Ora che il servizio pubblico adotta strumenti nuovi, sono già diventati vecchi.

In linea teorica, anche nei Cpi è possibile introdurre nuove tecnologie, ad esempio strumenti basati su intelligenza artificiale per il coaching o l’orientamento professionale. Tuttavia, ciò avviene in un quadro normativo che non le contempla. Le innovazioni si inseriscono, quando accade, in modo marginale o accessorio rispetto ai flussi principali, senza modificare le procedure formali o gli standard prestazionali. Non sono previste nei Lep, non sono integrate nei sistemi di valutazione e spesso non sono interoperabili con le piattaforme ufficiali, come il Siisl (Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa). È chiaro che se i processi sono definiti per norma, le innovazioni tecnologiche che modificano i processi non sono recepibili, se non come sperimentazioni, in modo controllato, con deroghe approvate, dentro a un sistema burocratico lento e snervante. Le innovazioni devono risiedere ad esempio su piattaforme pubbliche, il Siisl stesso ne è un esempio, che non avrà mai capitale e investimenti sufficienti per tenere il passo con piattaforme private gestite dai giganti tecnologici texani o californiani. Anche l’innovazione pubblica di casa nostra rischia di invecchiare precocemente.

I danni dell’inerzia legislativa e amministrativa

A questo si aggiunge l’inerzia normativa: il legislatore recepisce le innovazioni tecnologiche solo molto tempo dopo la loro comparsa e diffusione. Le norme intervengono a posteriori, a valle di cambiamenti già avvenuti nel sistema produttivo e nei comportamenti individuali. Ciò rende difficile la programmazione strategica del settore pubblico, che rimane ancorato a configurazioni precedenti, anche quando i presupposti sociali e tecnologici sono mutati. 

Accanto all’inerzia legislativa, esiste una inerzia amministrativa: anche quando il quadro normativo si aggiorna, la capacità delle strutture pubbliche di recepirlo pienamente è rallentata da numerosi fattori. Tra questi: l’adeguamento dei sistemi informativi, la revisione delle procedure interne, la formazione del personale, il superamento di abitudini consolidate e resistenze organizzative. In alcuni casi, passano anni tra l’introduzione formale di un’innovazione e la sua effettiva operatività nei servizi. Nel complesso, le innovazioni atterrano sulla pubblica amministrazione con un ritardo strutturale, che ne limita l’efficacia e riduce la capacità del sistema di rispondere in modo tempestivo a bisogni emergenti. L’implementazione di una innovazione dopo la trafila della sperimentazione, del cambiamento normativo e del recepimento amministrativo arriva a sistema dopo anni. Troppo tardi. Il rischio è che le strutture pubbliche, pur svolgendo un ruolo essenziale, si trovino progressivamente distanti dai contesti che dovrebbero presidiare, e che l’intervento si riduca a puro adempimento vuoto più che di trasformazione sociale.

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Nel caso di Nokia, la dismissione del ramo telefonico è stata un passaggio traumatico, ma necessario. Se l’azienda fosse stata obbligata a conservare la produzione di cellulari, anche quando la domanda non c’era più, avrebbe prodotto oggetti inutili che non servivano più a nessuno. Nei centri per l’impiego, la possibilità di discontinuità selettiva (con un obiettivo chiaro, riorientare l’offerta di servizi per procedure e tipologia) non è prevista. I servizi e le funzioni restano attivi anche quando non producono più valore, per vincolo normativo e per inerzia operativa. I Cpi continueranno a produrre telefonini fuori mercato.

Una revisione dell’impianto regolativo è necessaria. È possibile garantire diritti e livelli essenziali senza normare in dettaglio ogni processo operativo. Un modello basato su responsabilità per risultati, con spazi di autonomia organizzativa e flessibilità metodologica, potrebbe permettere alla pubblica amministrazione di rispondere in modo più efficace all’evoluzione dei bisogni collettivi.

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Simone Cerlini

Come policy advisor, ha contribuito alla concezione, nascita o sviluppo delle iniziative più significative nell’ambito delle politiche attive del lavoro e della formazione degli ultimi vent’anni. Oggi è Capo Divisione Lavoro di Afol Metropolitana, la rete dei servizi per il lavoro pubblica in Città Metropolitana di Milano.



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