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Chi Inventa, Comanda: La Vera Partita tra USA e Cina


IL PUNTASPILLI di Luca Martina

Gli Stati Uniti accusano la Cina di avere sfruttato una posizione di vantaggio nei suoi confronti e minacciano nuove pesanti tariffe. Sono fondate le accuse rivolte da Trump? Quale sarebbe la strategia più corretta da adottare?

Il libero mercato ha dimostrato di essere il motore della crescita (anche cinese) e continuerà ad esserlo anche nella sua versione 2.0 che passa attraverso la supremazia tecnologica: la tecnologia (come la conoscenza) è fluida e non si può certo contenere con le barriere doganali.

La Cina ha senza alcun dubbio beneficiato enormemente della globalizzazione ma potrà forse sorprendere come l’importanza degli Stati Uniti, sul totale dell’export cinese, si sia ridimensionata proprio negli anni successivi al 2001, l’anno della discussa ammissione della Cina al WTO, con il beneplacito statunitense.

Da un picco del 22% sul totale delle importazioni statunitensi, toccato nel 2002, è iniziata infatti una discesa costante fino al 13% toccato nello scorso dicembre: un calo del 41%.

Considerato che nel 2024 le importazioni USA erano pari al 12% del PIL, questo significa che la porzione cinese corrisponde a circa l’1.6% del PIL nazionale (al suo massimo era arrivata a superare di poco il 2.5%).

Il trade deficit con la Cina corrisponde, invece, all’1% del PIL USA, in calo del 50% rispetto ai massimi del 2% raggiunti nel 2018.

Anche in rapporto al PIL cinese l’export negli USA si è più fortemente ridimensionato passando dal 7% del 2005 al 2,6%.

Insomma, emerge chiaramente come non sarebbe corretto sostenere che sono stati gli Stati Uniti a trainare la crescita cinese né che il trade deficit abbia provocato significativi svantaggi a quella americana.

Per meglio comprendere come si è evoluta la situazione occorre però distinguere almeno tre fasi nella storia recente dei rapporti commerciali con la Cina.

1- La prima fase di espansione delle esportazioni (1978-1989):

Questo periodo fu avviato dalle riforme economiche e dalle privatizzazioni introdotte da Deng Xiaoping a partire dal 1978, sotto lo slogan a lui attribuito: “Arricchirsi è glorioso.” Le riforme agricole e industriali, insieme all’istituzione delle Zone Economiche Speciali (ZES) volte a liberalizzare l’economia cinese, stimolarono una rapida crescita delle esportazioni. Tra il 1978 e il 1989, le esportazioni passarono dal 4,5% al 14% del PIL.

L’espansione impetuosa delle esportazioni trascinò il PIL in una crescita a doppia cifra che, fatalmente, produsse squilibri provocando così diffusi disordini sociali che sfociarono nella dichiarazione della legge marziale, il 20 maggio 1989, e, qualche giorno dopo, nella violenta soppressione della protesta di piazza Tiananmen.

Il massacro che ne seguì non interruppe però le riforme economiche che, anzi accelerarono specie dopo il “Southern tour”, intrapreso dall’ ormai ottantottenne Deng Deng Xiaoping nel 1992 per spiegare l’importanza delle sue riforme, e la successiva ulteriore apertura agli investimenti stranieri. L’accelerazione del PIL fu ancora una volta trainata dalle esportazioni il cui peso sul Pil arrivò al 20% nel 2001.

2- Ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e sua integrazione nel commercio internazionale (2001–2005):

Nel 2001 la Cina viene ammessa nel WTO, con il voto e l’approvazione decisivi degli Stati Uniti, ed inizia una nuova, breve ma fortissima, fase di crescita delle esportazioni, il cui valore raggiunge in soli quattro anni il 38% del PIL.

Si tratta del periodo più tumultuoso e che pose delle basi alle odierne criticità.

  1. Graduale Normalizzazione e Diversificazione (2006–2024):

A partire dalla metà del primo decennio di questo secolo il peso dell’export inizia rapidamente a scendere per ritornare al 20% nel 2024, la stessa traiettoria subita dalle esportazioni cinesi negli Stati Uniti.

Di fronte a quanto sopra descritto potrà apparire strano l’inasprirsi della guerra commerciale avvenuto nell’ultimo decennio.

La spiegazione non ha dunque a che fare solamente con la dimensione del deficit commerciale ma è strettamente legata con la qualità dell’export cinese.

Per meglio comprendere, possiamo ricorrere all’ Economic Complexity Index (ECI), elaborato dall’ Harvard Growth Lab’s Country Rankings, che si ripropone di “Valutare lo stato attuale delle conoscenze produttive di un Paese. I Paesi migliorano il loro Indice di Complessità Economica (ECI) aumentando il numero e la complessità dei prodotti che riescono a esportare con successo”.

Il cambiamento intervenuto negli ultimi decenni appare così in tutta la sua evidenza: la Cina ha migliorato la sua classifica ECI dalla 38a posizione, nel 1995, alla 16a mentre nel frattempo gli Stati Uniti sono scesi dalla 10a alla 15a (The Atlas of Economic Complexity ).

Per semplificare il concetto possiamo dire che oggi le merci che arrivano dalla Cina hanno una qualità e un livello tecnologico che è pressoché pari a quello statunitense e poco importa se le sue dimensioni relative (rispetto al PIL americano) si sono ridimensionate negli ultimi anni.

Il dominio esercitato oggi nei settori più importanti e strategici dalla Cina, sia in termini di produzione assoluta che di specializzazione della propria struttura industriale, è dimostrato anche dall’ “Hamilton Index” prodotto dall’ITIF (Information Technology & Innovation Foundation).

Per valutare la performance relativa delle nazioni in settori strategicamente importanti, l’ITIF utilizza una statistica analitica nota come “coefficiente di localizzazione” (LQ, Location Quotient, The Hamilton Index, 2023: Data Visualization for Industries | ITIF), che misura il livello di specializzazione industriale di una determinata nazione rispetto al resto del mondo.

Il LQ si calcola come la quota di un settore sull’economia nazionale divisa per la quota dello stesso settore sull’economia globale.

Un LQ maggiore di 1 indica che la quota del paese nella produzione globale di un determinato settore è superiore alla media mondiale.

L’indice dimostra come la Cina sia superata solo da una manciata di Paesi per specializzazione industriale (indice LQ) e sia al vertice in sette dei dieci più importanti settori strategici.

Un’ulteriore chiara conferma di questo è la forte crescita cinese della spesa in ricerca e sviluppo, che oggi eguaglia a parità di potere di acquisto quella americana, e della sua quota mondiale nella registrazione di nuovi brevetti (Was Made in China 2025 Successful? – Rhodium Group ).

La situazione rischia di essere ancora peggiore se si tiene conto di Taiwan, il cui futuro cinese è ritenuto pressoché ineluttabile (non sappiamo quando ma ci sono pochi dubbi sul se).

Le importazioni statunitensi da Taiwan sono, infatti, più che raddoppiate negli ultimi due decenni e si tratta per lo più di prodotti ad elevata complessità tecnologica (Taiwan è al quarto posto del ranking ECI).

Ma se la leadership tecnologica USA è chiaramente a rischio la risposta non possono certo essere i dazi che, al contrario, potrebbero spingere Paesi emergenti come il Vietnam a riorientare i propri commerci, e non solo, verso la Cina.

L’unico modo per rispondere alla crescita del gigante asiatico dovrebbe essere, invece, quello di puntare con forza su tutto ciò che ha consentito agli Stati Uniti di generare l’ambiente ideale per innovare, favorendo la nascita e lo sviluppo delle maggiori società tecnologiche al mondo: un’economia aperta e terra di grandi opportunità, grazie alla libertà di fare impresa, ed un sistema di istituzioni universitarie di assoluta eccellenza.

La fede nel libero mercato ha da sempre consentito lo sviluppo delle aziende migliori e con le maggiori capacità di competere al mondo ma questo non sarebbe stato certo sufficiente senza un sistema universitario in grado di attrarre professori e studenti eccellenti da tutto il mondo (secondo “Times Higher Education World University Rankings 2025”, World University Rankings 2025 | Times Higher Education (THE) sette delle migliori università mondiali sono statunitensi).

Nello scorso anno scolastico 2023/24 gli studenti stranieri negli USA hanno toccato il loro massimo, a 1,126 milioni con quasi 299.000 nuovi arrivati.

Una quota molto importante è rappresentata da cinesi, 25%, e indiani che, proprio l’anno scorso, sono diventati la comunità studentesca internazionale più importante con il 29% del totale.

Ma attrarre studenti può non essere più sufficiente.

Diventa, infatti, sempre più importante la capacità delle università americane di sfornare laureati STEM  (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), i più richiesti dal mercato, risorse umane indispensabili per supportare la crescita delle aziende tecnologiche.

Da questo punto di vista lo sforzo cinese sta iniziando a produrre i suoi effetti.

Dalle università del gigante asiatico escono annualmente più di 3,5 milioni di laureati STEM, dati 2020, contro gli 820.000 degli Stati Uniti.

E non è solo il numero assoluto che deve fare riflettere ma anche la percentuale STEM sul totale dei laureati: in Cina è superiore al 40% contro il “solo” 20% statunitense.

Se poi concentriamo l’attenzione sui dottorati STEM (Phd), con specializzazioni avanzate basate sui loro progetti di ricerca, la Cina è prevista produrne quasi 80.000 nel 2025 contro i 40,000 degli Stati Uniti.

Occorre inoltre considerare che il 40% del totale degli STEM Phd americani (16 su 39.000), saranno studenti stranieri, in buona parte cinesi, sempre più orientati a rientrare in patria al termine degli studi all’estero (privando le aziende USA di importante linfa vitale).

Gli Stati Uniti hanno dunque una forte necessità di riorientare i propri studenti verso i percorsi di studio STEM, fondamentali per mantenere la propria leadership nei settori strategici, e di continuare ad essere una destinazione privilegiata per i migliori studenti (e professori) internazionali.

Naturalmente il presupposto per una buona riuscita deve essere costituito da un sistema universitario eccellente, con una naturale vocazione all’innovazione ed una crescente attenzione agli investimenti in ricerca e sviluppo.

Gli ultimi segnali provenienti dalla Casa Bianca non sembrano andare in questa direzione e potrebbero rendere vani gli sforzi tesi a perseguire l’obiettivo, del tutto condivisibile anche da parte dei Paesi europei, di respingere la sfida all’ultimo chip proveniente da oriente.

La versione originale di questo elaborato è stata pubblicata, in due articoli separati, ai seguenti indirizzi: How China went from low-cost exporter to tech rival and why tariffs won’t save the day – IREF Europe EN e The Chinese educational system has been the key to China’s technological rise. Tariffs will not change the picture – IREF Europe EN  dall’Institute for Research in Economic and Fiscal Issues (IREF)

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