La presentazione del nuovo numero della rivista trimestrale ENERGIA (2.25) a firma del direttore Alberto Clò.
Lo tsunami Trump
Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca segna un assoluto punto di discontinuità nelle politiche energetico-climatiche, non solo americane, e nella narrazione dominante sulla transizione energetica, sostenendo peraltro quel che in cuor loro molti condividevano senza il coraggio di affermarlo. In sintesi: impossibilità di cancellare le fonti fossili in tempi brevi a vantaggio delle rinnovabili; fissazione di obiettivi troppo ambiziosi in tempi troppo stretti; necessità di sostenere a ogni costo la transizione energetica, definita come «follia» dal segretario all’energia Chris Wright, che ha sostenuto che il riscaldamento non è un problema potendo ricorrere ai condizionatori. Quel che colpisce è non solo l’assurdità della frase ma che nessuno l’abbia apertamente contestata, sulla scia di una accondiscendenza al nuovo corso dell’amministrazione americana. Non sorprende così quanto sostenuto dalla vicepresidente di Bp, Ann Davies – «we love exploration»(1) – dopo poco che la società inglese ne aveva annunciato il blocco per ridurre la produzione del 40% entro fine decennio. Sta di fatto che le politiche trumpiane (più fossili, meno rinnovabili) porteranno inevitabilmente a un aumento delle emissioni americane, stimato in 4 miliardi di tonnellate, con parallela riduzione dei costi per famiglie e imprese, contro una diminuzione di quelle europee di 0,6 milioni di tonnellate a un costo di oltre 400 miliardi di euro all’anno sino al 2030. Ne seguirà un forte contraccolpo alla competitività economica europea – diversamente da quanto sostenuto nel Rapporto Draghi – cui non potranno sopperire le recenti proposte della Commissione (2), in assenza di nuovi fondi e comuni decisioni. L’industria degli idrocarburi sta beneficiando del mutato e favorevole vento così da poter realizzare gli investimenti necessari a soddisfare una domanda destinata ad essere consistente ancora per molto tempo (3), riducendo in modo consistente il suo impegno nella transizione energetica (4). Investimenti che sono tuttavia condizionati da caos, confusione, incertezza, imprevedibilità generati dall’amministrazione Trump, specie a causa delle tensioni geopolitiche aizzate a livello internazionale, più di quanto avvenuto nel corso del suo primo mandato (5), così che non è detto che possano effettivamente aumentare. Nel mio articolo analizzo le contraddizioni della sua paradossale politica energetica destinata a sortire effetti altri, se non contrari, a quelli cui mira. A iniziare dall’aumento della produzione, interna e internazionale, di petrolio, allo scopo di ridurre i prezzi della benzina (che da ben altro dipendono). Quel che potrebbe invece deprimere i prezzi internazionali, come va accadendo, impattando negativamente sugli investimenti petroliferi e quindi sulla futura produzione interna americana. A parere di Ivan Faiella ed Enrico Bernardini, il cambio di rotta di natura ideologica della nuova amministrazione statunitense può apparire tuttavia ingannevole se porta a ritenere inversioni nel processo di decarbonizzazione, che nel lungo termine dipende primariamente dall’innovazione tecnologica e dalla convenienza economica più che da divergenze negli orientamenti politici. Come dimostrato dal fatto che la roccaforte repubblicana del Texas dispone di una dotazione di rinnovabili doppia di quella della democratica California. La transizione continuerà poi, proseguono gli Autori, ad essere supportata dalla finanza sostenibile, divenuta ormai mainstream, in funzione di alcune tendenze in atto: la lentezza con cui procederà la transizione, l’aumento della spesa energetica che questa comporterà nel breve termine, la riduzione dei prezzi energetici nel medio-lungo termine, i sostegni che verranno dalla transizione digitale, il venir meno delle risorse statunitensi per la climate finance.
Il persistente dominio delle fossili
Nel loro importante articolo Daniel Yergin, Peter Orszag e Atul Arya evidenziano i numerosi ostacoli strutturali che stanno rallentando la transizione energetica, che sarebbe meglio nominare «energy addition» con le rinnovabili che si aggiungono e non sostituiscono quelle tradizionali che rimangono dominanti (come evidenziato su ENERGIA già nel 2018) (6) nell’impossibilità di conseguire a metà secolo, nel giro quindi di soli venticinque anni, l’azzeramento delle emissioni nette di carbonio e nell’incapacità di comprendere come gli obiettivi climatici debbano necessariamente coesistere con altri non meno rilevanti. Quel che richiede il ripensamento delle politiche, perché la transizione energetica non riguarda solo l’energia, ma comporta il rimodellamento dell’intera economia mondiale. Senza dimenticare che una larga parte della popolazione mondiale non dispone della razione minima di energia per sopravvivere, con l’emergere di una nuova divisione Nord-Sud su come bilanciare le priorità climatiche con la necessità dello sviluppo economico. Posizioni condivise nell’editoriale di Rainer Masera secondo cui «la transizione energetica rappresenta una reingegnerizzazione dell’intera economia globale che richiede un difficile consenso politico, economico e sociale con evidenti implicazioni geopolitiche». Le cose, in sintesi, richiederanno lunghissimi tempi per superare il dominio delle fossili e in particolare del petrolio e del gas che, in ragione del declino naturale dei giacimenti e della resiliente domanda, necessitano di continui nuovi investimenti. Che a sostenerlo sia il direttore esecutivo dell’Agenzia di Parigi Fatih Birol – che per anni aveva caparbiamente sostenuto il contrario (7) – più che suscitare sorpresa, conferma quanto l’Agenzia sia dipendente dal mutevole volere della politica e il valore relativo delle analisi contenute nei suoi World energy outlook. Sulla necessità di perseguire un accorto bilanciamento dei sistemi energetici si sofferma nel suo interessante e denso contributo Stefano Venier, che evidenzia la necessità di capire come far sì che le esternalità positive delle rinnovabili abbiano modo di collocarsi all’interno di una coerente riconfigurazione dei sistemi energetici: da un lato, liberandoci dell’idea di poter estromettere in breve tempo le dominanti fonti programmabili (anche se fossili) e, dall’altro, che i continui nuovi record di nuova capacità rinnovabile riescano di per sé a ridurre le emissioni che infatti continuano a crescere. Le rinnovabili non sottraggono quote alle fonti fossili ma sono costrette a chiedere loro soccorso per i consumi elettrici che non hanno modo di soddisfare. Soprattutto da parte del gas naturale – che emette il 30% in meno del petrolio e il 50% in meno del carbone – che può e deve avere un ruolo preminente.
Condizioni per un ruolo di equilibrio delle rinnovabili
Patrizia Feletig riprende il filo delle analisi sulla penetrazione delle rinnovabili nel nostro sistema energetico, che hanno comportato enormi costi per le bollette energetiche di famiglie e imprese a seguito dei sussidi loro riconosciuti (sinora 150 miliardi di euro), degli investimenti di adeguamento richiesti sulle reti, della necessità di acquisire capacità di accumulo. Se, da un lato, le rinnovabili hanno consentito di abbattere le emissioni, dall’altro, hanno ridotto solo in misura minore il ruolo delle fossili e delle importazioni (leggasi nucleare) nella generazione elettrica, che contano ancora per i due-terzi del totale. Gli incentivi – enormi un tempo, poi ridotti – sono l’antitesi di ogni capacità innovativa perché consentono grandi profitti con minimi sforzi. Quel che ostacola una maggior competitività del settore premiando gli impianti più efficienti a vantaggio di tutti. Sul ruolo degli incentivi nel favorire le rinnovabili si sofferma anche l’articolo di Stefano Clô, che analizza i limiti dell’attuale assetto istituzionale nel favorire lo sviluppo delle comunità energetiche. «L’incentivo economico derivante dallo scambio virtuale rappresenta l’unico vantaggio economico derivante dalla configurazione di una Cer. Questo rappresenta, ad avviso di chi scrive, il principale limite dell’assetto istituzionale delle Cer, che ne condizionerà fortemente la diffusione». A suo dire, per consentire la diffusione delle Cer anche in assenza di incentivi diventa rilevante attuare delle riforme tese ad equiparare l’autoconsumo collettivo a quello individuale. In assenza di una simile revisione, la Cer rischia di tradursi unicamente in un nuovo meccanismo di sostegno economico alle rinnovabili, «solamente più complicato e amministrativamente più oneroso rispetto ai precedenti sistemi incentivanti». In altri termini, è opportuno riconoscere alle Cer lo status di operatore di mercato, con relativa libertà contrattuale e possibilità di concordare il prezzo di valorizzazione dell’energia scambiata virtualmente. Nell’articolo trova spazio un’analisi delle barriere alla diffusione delle rinnovabili, tra le quali l’Autore individua la necessità di «disaccoppiare le rinnovabili dalle logiche del mercato spot e legarne la remunerazione a schemi contrattuali di lungo periodo che garantiscano un’adeguata copertura dei costi fissi d’investimento (Power purchase agreement oppure Contract for difference)». Questione a cui proponiamo una soluzione con il contributo di Leigh Hancher, Jean-Michel Glachant, Guillaume Dezobry sulla necessità di sviluppare con urgenza un nuovo approccio ai contratti a lungo termine nella politica europea in materia di concorrenza, basato su nuovi fatti, nuove realtà e una logica rivista. Gli Autori sostengono che nel nuovo, terzo, mondo elettrico e in risposta alle policrisi europee degli anni 2020, l’Unione non possa raggiungere gli obiettivi di piena e rapida decarbonizzazione e correlata massima elettrificazione industriale mantenendo la sua «obsoleta ostilità» alla maggior parte delle tipologie di contratti a lungo termine, di cui gli Autori offrono una panoramica delle tipologie, degli effetti pro e anti-concorrenziali, facendo emergere la necessità di una nuova «rete analitica» e di una guida mirata sul ruolo che possono svolgere in questa nuova realtà economica e geopolitica.
Guardare avanti
Una linea editoriale che ENERGIA si è posta sin dal suo nascere è stata quella di «guardare avanti», cercando di cogliere in anticipo i cambiamenti che andavano maturando spesso sotto la superficie delle cose e che si sarebbero imposti a distanza anche di molti anni all’attenzione delle opinioni pubbliche e dei decisori politici. Nel mondo dell’energia, infatti, occorre rapportarsi al lungo termine, poiché quando un problema diventa urgente è impossibile risolverlo nel breve. Così è stato per il tema del superamento del monopolio elettrico che affrontai sin dal 1985; dei cambiamenti climatici nel 1987 da William Kellog, cinque anni prima della Conferenza di Rio de Janeiro; delle potenzialità di riduzione dei gas serra in Italia, con un articolo anche qui pionieristico di Oliviero Bernardini nel 1990.
E così è stato venendo all’oggi per i rischi che i sistemi elettrici, da noi come altrove, avrebbero corso a seguito dei profondi mutamenti che andavano verificandosi nei loro assetti istituzionali (liberalizzazioni e superamento dell’integrazione verticale dei preesistenti monopoli) e produttivi (dall’accentramento alla generazione distribuita) con la esponenziale penetrazione delle intermittenti rinnovabili. Rischi che si sono manifestati nella loro interezza il 28 aprile scorso col blackout che ha privato della corrente elettrica l’intera penisola iberica. Mentre sono ancora in corso gli accertamenti sulle sue cause (quel che suscita non poca incredulità), ne emergono più fatti. Primo: il succedersi nel recente passato di molti blackout elettrici ha fatto emergere una nuova dimensione della «sicurezza energetica» di origine totalmente interna, diversamente da quel che si intendeva in rapporto alle politiche dei nostri paesi fornitori. Secondo: quel che è accaduto era ampiamente evitabile, si fosse seguito l’ammonimento col quale Giovanni Goldoni titolava il suo articolo La priorità è lo sviluppo delle reti elettriche nel quarto numero del 2022 di ENERGIA (8) come parte di quattro articoli che mettevano al centro il nodo delle reti. Tra questi, anche quello di Dominique Finon dal non meno emblematico titolo Rinnovabili intermittenti e minacce di blackout. In tutti questi contributi si denunciava come l’instabilità del sistema e i suoi ridotti margini di manovra, conseguenti alla chiusura di centrali con produzione controllabile e alla mancanza di flessibilità, avrebbero potuto determinare blackout di vasta portata. Come effettivamente accaduto. Tutto ciò per ribadire che «guardare avanti» è essenziale per governare sapientemente i sistemi energetici ed evitare che le mancate risposte ricadano sulla collettività, nell’incapacità di comprendere i danni che su di essa ricadono dalle trasformazioni in atto. Su questo numero, l’articolo di Carlo Degli Esposti aiuta a comprendere se un simile evento catastrofico possa verificarsi nel nostro Paese. L’articolo presenta i parametri di adeguatezza, sicurezza, affidabilità e resilienza di un sistema elettrico, l’attuale portafoglio di generazione e le infrastrutture di trasmissione/distribuzione in Italia, nonché gli strumenti di mercato che contribuiscono a garantire sufficienti margini per la continuità della fornitura elettrica. Dalla disanima emerge come sia molto improbabile che un simile evento possa verificarsi in quanto il nostro sistema elettrico è più preparato e robusto su molti fronti. Tra i citati strumenti di mercato che contribuiscono a garantire la continuità del servizio rientrano anche i mercati della capacità. L’articolo di Emma Menegatti, Leonardo Meeus e Nicolò Rossetto analizza una particolare criticità di questi mercati, ossia la partecipazione transfrontaliera esplicita. Le importazioni possono infatti contribuire all’adeguatezza di un sistema elettrico, ma la legislazione europea impone che la partecipazione transfrontaliera sia esplicita, ossia permettere alle risorse non nazionali di partecipare alle stesse aste delle risorse nazionali. Attraverso l’analisi dell’esperienza italiana e una recente analisi modellistica, gli Autori suggeriscono tuttavia che la partecipazione transfrontaliera esplicita non è necessariamente efficiente, aumentando la complessità del mercato e riducendo gli incentivi ad investire. Duplice la raccomandazione finale: nel breve termine tollerare la partecipazione transfrontaliera implicita, mentre nel lungo termine bisognerebbe superare i mercati nazionali della capacità e sviluppare un approccio europeo all’adeguatezza del sistema.
Il settore residenziale europeo tra elettrificazione e decarbonizzazione
A chiusura di questo numero torniamo su un settore centrale nelle politiche climatiche e di efficienza energetica dell’Unione europea: il residenziale. Il settore residenziale ha sempre assunto un ruolo di primo piano nella strategia europea in quanto responsabile del 40% del consumo energetico e del 36% delle emissioni di gas a effetto serra. Dopo aver affrontato nel numero 4 del 2024 di ENERGIA gli impegni, le strategie e i costi per l’Italia della cosiddetta direttiva «case green» pubblicata l’8 maggio dello scorso anno, proponiamo su questo numero un’analisi quantitativa, realizzata da Riccardo Bartiromo, Enrico Lanzilotti, Leonardo Massarutto, Stefania Migliavacca, Giorgio Torraca, su due aspetti chiave dei consumi del settore residenziale: riscaldamento degli ambienti e cottura dei cibi, che insieme rappresentano il 70% dell’energia consumata nelle abitazioni. Il modello di simulazione che gli Autori hanno sviluppato rappresenta un utile strumento per esplorare in chiave dinamica il potenziale di una transizione dalle tecnologie a gas a soluzioni elettriche più sostenibili negli edifici residenziali esistenti. Potenziale che molto dipende dagli incentivi economici nel guidare l’adozione delle pompe di calore e dei piani a induzione. I risultati mostrano che solo combinando più leve – economiche, regolatorie e culturali – è possibile accelerare la decarbonizzazione del settore residenziale, contribuendo in modo concreto agli obiettivi climatici europei.
Bologna, 6 giugno 2025
a.c.
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