Questa mia prima Assemblea da presidente parte da un tema molto alto e strategico: la politica industriale. Argomento estremamente vasto e dal perimetro non sempre esattamente definibile, ma che necessita di una riflessione urgente e condivisa sui fondamentali dello sviluppo industriale e della crescita che questo garantisce. Di mettere a fuoco le condizioni di base del fare impresa. Di capire a che punto siamo oggi in Europa, in Italia, nel nostro territorio, su questo aspetto cruciale dell’economia in una fase storica all’insegna di una estrema incertezza e variabilità (basti pensare al tema dazi, per tacere delle gravi situazioni belliche e delle tensioni geopolitiche). Alla luce dei cambiamenti radicali in atto che riguardano anche le catene commerciali mondiali e che impongono alle imprese grandi sforzi per restare competitive (pensiamo anche alla transizione digitale tecnologica con l’intelligenza artificiale e alla transizione ecologica), dobbiamo chiederci se e quanto siano radicati pregiudizi antindustriali che rischiano di portare alla desertificazione manifatturiera; dobbiamo stabilire se condividiamo che l’industria sia ancora alla base di uno sviluppo sano del nostro territorio. È da qui che bisogna partire per ragionare di politica industriale. Quando, nella recente assemblea di Confindustria, il presidente Orsini ha parlato di Piano industriale straordinario per l’Italia e per l’Europa ha lanciato un giusto richiamo a tutte le istituzioni, a cominciare da quelle europee, dalle quali discende, è stato evidenziato, il 70% delle norme che impattano sulle imprese dei paesi dell’Unione. Dalla nostra Europa vengono approcci di cultura industriale a dir poco discutibili e talvolta deleteri. Senza andare al più noto tema dell’automotive, uno per tutti: la valorizzazione prioritaria, a prescindere da qualsiasi valutazione, del riuso rispetto al riciclo. Tutto questo senza dimenticare che dall’Europa giungono anche risorse strategiche, assegnate attraverso i bandi regionali.
Il piano nazionale rimane comunque decisivo, pur nella cornice dei provvedimenti europei e nella rilevanza della dimensione amministrativa locale. Il Libro Bianco che sta per essere varato, dopo un lungo e approfondito lavoro del Ministero delle imprese e del made in Italy, è molto atteso: gli orientamenti che conterrà ispireranno politiche da cui potrebbe derivare in misura anche determinante il futuro della nostra industria. Le linee generali contenute nel Libro Verde, che è alla sua base, hanno ispirato da parte di Confindustria contributi importanti, che auspichiamo siano recepiti.
Aspettando quindi il Libro Bianco, vorrei condividere alcune considerazioni su ciò che come industrie di Lucca, Pistoia e Prato ci aspettiamo dalla politica industriale nazionale ma che europea, regionale e locale. Ce lo aspettiamo, ma nello stesso tempo siamo consapevoli della necessità in questi processi del ruolo attivo delle imprese: un ruolo che manifestiamo nel rappresentare in maniera argomentata condizioni e bisogni e nell’impegno costante a dare il nostro contributo per creare le migliori condizioni per la crescita economica e sociale. Ma soprattutto un ruolo che interpretiamo ogni giomo andando in azienda e affrontando con determinazione i tanti problemi che ci troviamo davanti.
L’industria rappresenta, come apporto diretto, un quarto del Pil italiano, ma è da quel quarto che dipendono anche tante altre attività, da quelle che vi sono immediatamente connesse (i servizi alle imprese, prima di tutto, che creano con l’industria una simbiosi preziosissima per la qualificazione e la competitività del manifatturiero) ad altre apparentemente lontane ma che si alimentano della ricchezza prodotta dal settore secondario. Tutti i settori sono importanti, tutti sono degni di attenzione: noi, come associazione industriale, ci focalizziamo su ciò che conosciamo meglio e che rappresentiamo in via prioritaria. Peraltro nell’area Lucca-Pistoia-Prato valore aggiunto generato dall’industria supera il 30%, una quota quindi particolarmente elevata. Su un territorio che è il 13,5% della superficie toscana, con una popolazione che è un quarto di quella regionale, ha sede nelle nostre tre province il 31,5% degli stabilimenti industriali.
È quasi un luogo comune dire che in Italia manca una politica industriale. Non è corretto. Tutto ciò che impatta sull’industria è politica industriale. Anche le omissioni e le misure inefficaci o inappropriate sono scelte di politica industriale: sono comunque risposte ai bisogni delle imprese. Risposte, in questi casi, deludenti e contrarie agli interessi dell’economia. Purtroppo talvolta accade anche questo.
Dall’Europa, dall’Italia, dalle amministrazioni locali ci aspettiamo quindi non semplicemente una politica industriale, ma una buona politica industriale. Buona significa ispirata a principi di efficienza ed efficacia, alla sburocratizzazione e alla semplificazione, significa orientata all’innovazione, a sua volta motore di sviluppo e di crescita; significa realistica e non ancorata a presupposti ideologici astratti e inattuabili; significa in linea con i principi fondamentali del rispetto delle persone e dell’ambiente, coniugandoli con le esigenze di produttività e competitività. Tutto questo si può e si deve fare, se non vogliamo perdere terreno nel contesto della concorrenza internazionale.
Terreno in verità ne abbiamo già perso e continuiamo a perderlo. E non solo, inevitabilmente, nei confronti di paesi di recente industrializzazione caratterizzati da bassi costi di produzione, talvolta associati anche alla disponibilità di materie prime. Ma l’Italia ha il fiato grosso anche per reggere la concorrenza degli altri paesi occidentali, dei nostri stessi compagni di viaggio dell’Unione Europea. Unione Europea che a sua volta, peraltro, negli ultimi anni nella generazione di Pil non ha fatto che arretrare rispetto agli Stati Uniti: dal 2007 il tasso medio annuo di crescita nell’Unione Europea è stato a quota +1,6%, contro il +4,2% degli Stati Uniti. E questo mentre parallelamente la Cina avanzava
In una Europa che già non brilla la nostra Italia è abbastanza opaca. Nel 2024, dichiara l’Istat nel suo recente rapporto annuale, la produzione italiana è diminuita in volume del -4% rispetto a un 2023 che aveva già perso 2 punti percentuali sull’anno precedente. Abbiamo quindi fatto peggio della Uw27 che si è fermata a quota -2,4%; la maggiore perdita della Germania (-4,6%) è un problema nel problema, data l’intensità dei rapporti economici fra le due nazioni. Il debole segno positivo (+0,4%) della produzione italiana nel trimestre gennaio-marzo 2025 – il primo in crescita dall’ormai lontano secondo trimestre 2022 – è una buona notizia, come lo sono anche l’indice pmi Hcob del manifatturiero nell’Eurozona a maggio, anch’esso in leggero incremento, e per l’italia le previsioni positive per il secondo trimestre 2025 elaborate dal Centro Studi Confindustria. Ma questi segnali flebili certamente non bastano per poter parlare di un’inversione di tendenza. Anzi, pochi giorni fa le previsioni dell’Ocse indicano che la crescita dell’italia passerà dallo 0,7% del 2024 allo 0,6% del 2025, per poi tornare allo 0,7% del 2026. Un quadro quindi non esaltante.
Per l’italia uno dei nodi, anzi forse “il” nodo cruciale, che riassume in sé molti fattori di debolezza, è la produttività. In particolare, ha calcolato l’Istat, la Ptp-Produttivita Totale dei Fattori, che misura congiuntamente produzione lavoro, capitale e livello di innovazione tecnologica, conoscenza e organizzazione, è diminuita nel 2024 del -1,3%. Non un crollo, ma una sonora sveglia sì. Una sveglia che ci indica nello sviluppo tecnologico, digitale in particolare, e nell’immissione di conoscenza nel mondo produttivo i fattori da far crescere perché questi a loro volta generino crescita.
In particolare le tecnologie abilitanti saranno, anzi sono già oggi, decisive: a partire dalla “basica” banda ultralarga fino all’intelligenza artificiale, l’italia non può rimanere indietro. E nemmeno l’Europa: lo stesso presidente Orsini ricordava poche settimane fa che i 30 miliardi di investimenti europei nell’intelligenza artificiale sono poca cosa rispetto ai 330 degli Stati Uniti e ai 100 della Cina. Probabilmente recuperare del tutto su questo piano sarà impossibile, ma quantomeno dobbiamo fare in modo che l’applicazione dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi avvenga nei modi e nei tempi più funzionali al nostro sistema produttivo. È questa la nuova frontiera, assieme a quel tema gigantesco e forse un po’ trascurato che è la cybersecurity. In tema di promozione dell’innovazione qualcosa di positivo è stato fatto: Industria 4.0 ha funzionato ed è un peccato che le risorse siano in esaurimento. Non si può essere altrettanto entusiasti di Transizione 5.0, con i suoi vincoli e paletti che ne rendono difficile l’accesso. Le transizioni ecologica e digitale sono delle priorità da sostenere con la massima efficacia, temi strettamente connesse all’innovazione in cui noi imprenditori crediamo profondamente. Realtà come il Digital Innovation Hub Toscana testimoniano l’interesse e l’impegno di tutti noi.
I processi ad alta tecnologia si caratterizzano anche per gli elevati consumi energetici: una considerazione che mostra con piena evidenza, se ce ne fosse bisogno, come l’economia sia veramente un sistema strettamente integrato, in cui punti di forza e di debolezza valgono non solo in se ma anche come elementi modulari di altri processi. Va sottolineato, ancora e sempre, che il gap forse più profondo e serio che mina la nostra competitività è costituito dai costi energetici. Le imprese italiane hanno da lungo tempo fatto proprio l’impegno alla decarbonizzazione e si sono fatte parte attiva nella transizione energetica. Ricordiamo tutti quando l’anno scorso Terna ha annunciato che nei primi sei mesi del 2024 si era registrato il sorpasso della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili rispetto alle fonti fossili: una vera svolta. Gran parte del merito va all’industria e non solo a quella direttamente preposta alla generazione di energia elettrica ma anche a tutte le imprese. Però sempre nel 2024 in Italia l’energia elettrica costava all’ingrosso il 38% in più rispetto alla Germania, il 72% di più della Spagna e l’87% in più della Francia: sono numeri che traggo dal commento di Confindustria al Libro Verde sulla politica industriale, con l’inevitabile conclusione che è necessario il disaccoppiamento del prezzo dell’energia da fonti rinnovabili dai mercati di breve termine e dal gas, oltre che la promozione dei contratti di lungo termine. Tutto questo con il prezzo del gas metano che come materia prima ha conosciuto nel 2024 solo un modesto regressa, intorno al-15%, rispetto al 2023, rimanendo a un livello quasi doppio rispetto al pre-covid. Non vado oltre, non mi addentro nella questione degli oneri diversi da quelli della pura materia prima: ma ci sarebbe molto da dire, anche, per esempio, su una distribuzione molto opinabile delle agevolazioni. Se l’obiettivo è quello di una buona politica industriale, se l’aspirazione è a recuperare competitività, non si può che passare in primo luogo da una corretta, efficiente, moderna politica energetica.
Le tecnologie digitali hanno un rapporto diretto con l’energia, ma ancor più stretto lo hanno con le competenze. Gli ultimi dati confermano per l’italia un livello di istruzione nettamente al di sotto degli standard europei: nella popolazione italiana tra i 25 e i 64 anni solo il 65,5% delle persone dispone di almeno un diploma di scuola secondaria superiore, contro 1’80% della media dell’Unione Europea. Ancora peggio se si guarda ai laureati: 21,6% in Italia, media europea superiore al 35%. Al di là di questi dati e di altre considerazioni relative alle risorse umane (una per tutte: le criticità dell’andamento demografico), c’è il tema dei contenuti del’insegnamento. Competenze scientifiche, tecniche, linguistiche, legate al digitale e ai temi ambientali, ma anche una formazione che insegni ai ragazzi a lavorare insieme e a percepire le conoscenze come un processo in continuo divenire: serve tutto questo nelle scuole, nelle università, in quegli ITS a cui le imprese guardano con grande interesse sentendoli particolarmente in linea con le proprie esigenze.
Un altro tema cruciale è quello fiscale. Aumentare l’imposizione fiscale sul lavoro non va nel senso di una proficua politica industriale: ma è quello che è accaduto nel 2024, ci dice il consueto rapporto annuale Ocse Taxing Wages. La media del cuneo fiscale sulle retribuzioni dei single senza figli nei paesi Ocse è al 34,9%, l’Italia è a quota 47,1%, anche perché nel 2024 si è appunto avuto un aumento di 1,61 punti. Cosi si compone il cuneo fiscale italiano: 15,9 punti tasse (13,4 punti la media Ocse), 7,2 punti i contributi sociali per dipendente (8,1 punti la media Ocse), 24 punti i contributi sociali a carico dell’azienda (13,4 la media Ocse). Dati che si commentano da soli. Certo, poi ci sono bonus e detrazioni, ma le retribuzioni dei single senza figli non sono importanti solo perché costituiscono il parametro comparativo fra paesi, ma perché rimandano soprattutto alla categoria dei lavoratori giovani: il nostro futuro, tanto più prezioso quanto più è in declino l’andamento demografico a cui facevo cenno poco fa. Un altro segnale che sarebbe opportuno come dimostrazione di attenzione per il lavoro è l’abbassamento del prelievo fiscale su tutti i premi di produttività, indipendentemente dall’esistenza o meno di accordo sindacale.
Non voglio però fare l’elenco, che sarebbe infinito, dei temi di politica industriale, ma un altro devo proprio citarlo ed è la dotazione infrastrutturale del territorio. Anche su questo piano, nonostante il volano importantissimo costituito dal Pnrr, arrivano segnali non positivi. È di poche settimane fa l’allarme, fatto giustamente proprio dai colleghi di Ance Toscana Nord, per l’annunciato taglio dei trasferimenti alle province per le manutenzioni stradali, con il rischio che appalti già aggiudicati non vengano contrattualizzati o, se già avviati, non possano avere continuità: parliamo di una riduzione di risorse da quest’anno al 2029 fino al 70%. Sono stati annunciati ripensamenti: speriamo si concretizzino perché altrimenti avremmo un danno grave per il territorio e per le imprese edili. Le infrastrutture – tutte, senza elenchi superflui – sono la spina dorsale dello sviluppo. Generano crescita, consentono risparmi, velocizzano le relazioni, qualificano i processi. Anche quelli ambientali: i termovalorizzatori che mancano in Toscana sarebbero un anello essenziale dell’economia circolare. La loro assenza è un esempio di quello che dicevo all’inizio: anche non fare ciò che occorre è politica industriale. Controproducente, ma lo è.
Mi fermo qui. La vastità del tema non consente che degli esempi; ho citato alcuni di quelli più rilevanti.
Qua nella terra di Puccini mi pare particolarmente appropriato ripetere l’invito che poche settimane fa è arrivato dal presidente Mattarella: Nessun dorma. In quel caso si parlava di Europa, ma in rapporto al tema di questa Assemblea vale per tutti. Il presidente qualche giorno fa proprio in Toscana, a Rondine, ha rilanciato il senso profondo del progetto europeo: una comunità fondata su diritti, dialogo, responsabilità collettiva e solidarietà tra i popoli. E la competitività delle nostre aziende è presupposto per il mantenimento dei valori fondanti della comunità europea, baluardo di questi nel cambiamento epocale in atto.
La competitivită va sostenuta da una buona politica industriale. Ogni inerzia è un danno grave. Dobbiamo essere tutti ben svegli, attivi, dinamici e concreti.
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