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Perché non è uno scandalo il sindacalista Sbarra nel governo Meloni


Esiste un caso Luigi Sbarra? E’ singolare che l’ex segretario generale della Cisl, dopo aver lasciato da qualche mese l’incarico ricoperto nella sua organizzazione, abbia accettato di scendere in politica come indipendente in qualità di sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega per i problemi del Mezzogiorno: una poltrona vacante dopo il trasferimento di Raffaele Fitto a Bruxelles?

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Il fatto nei suoi termini oggettivi non dovrebbe stupire nessuno. Nel dopoguerra molti dirigenti sindacali hanno ricoperto insieme incarichi di partito, hanno fatto parte di assemblee elettive nazionali e locali fino a quando tra la fine degli anni ’60 e i primi del decennio successivo non fu affermato – come supporto all’autonomia dei sindacati – il principio dell’incompatibilità tra cariche sindacali, di partito e mandati elettorali: una regola ci correttezza che è sopravvissuta al venir meno delle prospettive unitarie. La nuova disciplina ha imposto un diverso comportamento consistente nell’atto delle dimissioni al momento della candidatura, mentre a fine mandato è una consuetudine consolidata offrire ai leader sindacali più autorevoli la possibilità di essere eletti in una lista di Partito, per utilizzare la loro esperienza e notorietà.

Se ci mettessimo a fare la conta, troveremmo che quanti non hanno seguito – da sindacalisti in uscita – il cursus honorum appena descritto si raggruppano nelle dita di una mano. Luigi Sbarra è solo l’ultimo in ordine di tempo. Da questo punto di vista, dunque, non c’è trippa per gatti. Qualche maligno ha voluto individuare nella nomina di Sbarra, una sorta di ricompensa da parte di Giorgia Meloni per la linea di condotta della Cisl nei confronti del suo governo, arrivando a dire che il centro destra si è annesso la Confederazione di via Po. E’ una polemica velenosa per tanti motivi.

In primo luogo, perché andando in pensione Sbarranon si è portato appresso il sindacato, la cui attività prosegue con altri dirigenti secondo modalità e prassi consolidate e in autonomia. In secondo luogo, non c’era alcun bisogno di avere delle contropartite di carattere personale per dissociarsi dagli scioperi generali a scadenza fissa, proclamati dalla Cgil e dalla Uil, con argomenti di carattere strumentale e sulla base di piattaforme/polveronedi visibile e provata opposizione preconcetta. Non sta scritto in nessun codice deontologico che un sindacato è autonomo se proclama degli scioperi, ancorchè insensati, mentre non lo è se stipula accordi con le controparti. Nel 2022, all’Assemblea dei delegati a Bologna, con la campagna elettorale già in corso, Landini lasciò di stucco tutti gli osservatori, per i toni di equidistanza/indifferenza riservati all’esito che si stava profilando in modo sempre più chiaro: la vittoria del Centro destra. ‘’Negli ultimi anni – così parlò Zaratustra – il mondo del lavoro, le lavoratrici e i lavoratori, i precari, i giovani non sono stati ascoltati. E addirittura le politiche fatte, in molti casi sia da governi di destra sia da governi che si richiamavano alla sinistra, hanno peggiorato la condizione di vita e di lavoro delle persone’’. Pertanto la Cgil non avrebbe avuto posizioni pregiudiziali nei confronti di un governo di destra. Poi, evidentemente le cose sono cambiate. Landini confidava di poter contare su di un governo populista, disposto a condividere le proposte del sindacato. Meloni, invece, per fortuna degli italiani ha gettato alle ortiche i programmi insensati di politica economica e si è convertita al buon senso della continuità con l’azione del governo Draghi, in buona armonia con Bruxelles. Che cosa dovrebbe fare un sindacato che vuole giudicare un governo dai suoi atti, senza pregiudiziali? Maurizio Landini ha una sua ricetta: quella di raccontare un Paese che non esiste. Come ha scritto su Startmag Michele Magno: “L’Italia non è un paese povero ma un povero paese, disse una volta con tagliente ironia il generale De Gaulle. Non la pensano così la sinistra e il sindacato maggioritario di casa nostra, con le loro narrazioni dolenti di un paese quasi sull’orlo dell’indigenza”. Una rappresentazione più veritiera ed onesta viene da un articolo di Antonio Gozzi, in cui sono richiamati studi e analisi di carattere internazionale. Vediamo alcuni elementi essenziali dell’articolo.

Crescita del PIL: l’Italia è stata per molto tempo la Cenerentola della crescita in Europa ma nell’ultimo periodo, 2018-2023, ha superato per crescita la Germania, il Regno Unito, la Francia e il Giappone, con una crescita media dell’1% all’anno. Anche la crescita del Reddito pro-capite nel periodo considerato (2019-2023 ) ha visto l’Italia con il + 1,3% all’anno, seconda solo agli USA (+1,9%) ma avanti di molto a tutti gli altri Paesi europei.

Crescita degli Investimenti produttivi: nel periodo tra il 2018 e il 2023 l’Italia ha visto una importante crescita degli investimenti più alta di quella registrata in tutti gli altri maggiori Paesi europei. In questo periodo infatti gli investimenti produttivi dell’Italia sono cresciuti del +17,8% contro un +6% della Francia, e un -4,5% della Germania. Questa esplosione degli investimenti si deve alla misura adottata dal Governo Renzi e chiamata “Industria 4.0”, che ha funzionato benissimo e ha incentivato significativamente gli investimenti in impianti, macchinari, tecnologie.

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Esportazioni e commercio internazionale: l’Italia si è confermata negli ultimi anni come il quarto Paese più esportatore del mondo. Nel 2023 su un fatturato della manifattura italiana pari a 1200 miliardi di euro ne sono stati esportati più di 630 miliardi (pari al 52,5% del totale). In assenza di quelle che un tempo si chiamavano “svalutazioni competitive” della Lira, non più consentite dall’esistenza dell’Euro, questi numeri mostrano un vantaggio competitivo formidabile della nostra industria. Ma quali sono le sorgenti di questo vantaggio competitivo? La grande diversificazione della nostra manifattura articolata su molti settori di eccellenza (meccanica e meccatronica, farmaceutico, agro-alimentare, sistema moda, legno arredo ecc); l’alta qualità del Made in Italy, richiestissimo in tutto il mondo; l’alta produttività delle nostre imprese industriali, che nelle classi tra i 10 e i 50 addetti e in quella tra i 50 e i 250 è la più alta di tutta Europa, e che nella classe dai 250 addetti in su è seconda solo alla Germania; l’estrema flessibilità delle nostre imprese prevalentemente pmi a controllo famigliare; un’innovazione di prodotti e processi continua e incrementale, che spesso non viene evidenziata nelle spese di R&S.

Sostenibilità ambientale dell’economia italiana: il settore industriale manifatturiero italiano (la seconda industria d’Europa) ha emissioni di CO2 più basse del 5,1% rispetto alla media di emissione dell’industria europea. Inoltre tra il 2013 e il 2023 vi sono stati investimenti ingentissimi in energie rinnovabili (si parla di oltre 200 miliardi di euro di incentivi all’orizzonte del 2030). Inoltre l’Italia è il primo Paese europeo per economia circolare in termini di valore aggiunto e addetti.

Capitalizzazione delle imprese: a partire dalla crisi finanziaria del 2007-2008 le imprese italiane hanno dato vita a un processo di progressivo rafforzamento finanziario e patrimoniale. La capitalizzazione delle imprese italiane raggiunge nel 2022 il 47,3% del totale delle fonti finanziarie, si allinea a quella delle imprese tedesche e spagnole ed è superiore a quella delle imprese francesi. Ciò ha consentito di diminuire i debiti delle imprese italiane verso le banche dal 53,9% sul totale del capitale investito del 2011 al 27,4% del 2024. Ciò significa che le imprese italiane nel periodo che va dal 2011 al 2024 hanno praticamente dimezzato i loro debiti.

Mercato del lavoro: il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta dedica una parte rilevante della sua relazione annuale al mercato del lavoro, sottolineandone la performance straordinaria degli ultimi anni. Contrariamente a quanto sostengono CGIL e i promotori dei referendum l’occupazione in Italia è continuata ad aumentare raggiungendo un record storico di occupati, soprattutto nella parte rappresentata dai contratti a tempo indeterminato; e ciò che colpisce in particolare è che nel 2024, nonostante il rallentamento dell’economia e dell’industria, l’occupazione (sempre a tempo indeterminato) ha continuato a crescere. Landinidice che è cresciuto solamente il lavoro precario, ma questo è un falso smentito dalla relazione di Panetta. Scrive infatti Bankitalia: “La crescita dell’occupazione è stata trainata dal lavoro dipendente a tempo indeterminato, a fronte di un calo di quello a termine, che risente maggiormente del ciclo economico.” Sempre i promotori dei referendum sostengono che il Jobs Act ha indebolito i contratti e reso più semplici e convenienti i licenziamenti e reso i giovani più precari. Un altro falso: scrive sempre Bankitalia “ Secondo i dati dell’INPS la crescita dei contratti a tempo indeterminato è stata favorita anche dal basso tasso di licenziamenti e dall’alto numero di trasformazioni dei contratti temporanei in essere. Si sono invece ridotte le assunzioni a termine per i giovani. Sempre con riferimento ai giovani la disoccupazione nel 2024 è scesa al 6,5% il valore più basso degli ultimi 17 anni”. E la disoccupazione giovanile nei primi mesi del 2025 è ancora in calo, oggi siamo al 6%. “Il numero degli occupati ha ricominciato a crescere in maniera decisa beneficiando degli investimenti connessi con ilPnrr. La crescita dell’occupazione è proseguita tra i più anziani ed è ripresa tra i giovani”. Avete letto sui giornali queste considerazioni positive del Governatore? Francamente molto poco.Naturalmente restano tanti problemi da affrontare: la partecipazione delle donne al mercato del lavoro, il livello dei salari, il consistente flusso di emigrazione di giovani laureati, l’insufficiente flusso di immigrati qualificati anche per compensare il declino demografico ecc. M apresentare tutto come una tragedia è una menzogna formidabile”.

Fino a qui Gozzi. Se questi aspetti sono reali (pur tra tanti altri ancora inadeguati in un contesto di variabili inedite come le guerre armate e commerciali) quello presieduto da Giorgia Meloni è davvero il governo della fame, del freddo e della paura? Proviamo, con un volo pindarico della fantasia, ad immaginare che cosa farebbe un governo Schlein/Conte/Landini, sia in politica estera che interna.

Dove sta allora il problema? Perché Sbarra avrebbe dovuto rinunciare? Lo ha spiegato Savino Pezzotta (già segretario della Cisl): “La Cisl è antifascista, mentre questi qui non hanno mai rinnegato nemmeno la Repubblica sociale”. Poi, malignamente nei confronti di un collega Pezzotta aggiunge: ‘’La poltrona a Sbarra è evidentemente un premio per una certa accondiscendenza rispetto al centrodestra. Sennò perché scegliere proprio lui?”. E a questo punto l’ex segretario – dimentico dei principi della Cisl sulla contrattazione – incolpa Sbarra di aver contrastato pro domo sua persino il salario minimo legale. Quante prove deve dare questo governo e la sua premier per dimostrare che hanno chiuso con il Fascismo? Suggerirei di giudicare il caso Sbarra da un altro punto di vista. Questa volta è stato il ministro Lollobrigida a centrare il bersaglio.



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