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Eurobond fra sogni e incubi


Da quando, due settimane fa, il governatore di Bankitalia Fabio Panetta ha lasciato cadere nelle sue 37 pagine delle considerazioni finali le due paroline magiche “debito comune”, gli euro sognatori, ultimamente con le polveri abbastanza bagnate, sono tornati alla carica.

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Un sogno che però è durato solo una settimana, perché poi sabato scorso ci ha pensato Lorenzo Bini Smaghi (ex membro del comitato esecutivo della Bce) a suonare la fine della ricreazione, intervenendo sul Foglio con un articolo dal titolo «L’illusione degli Eurobond come soluzione a tutti i mali».

Tuttavia, ancorché terminato, è opportuno dimostrare, per tabulas, che quel sogno non ha alcun contatto con la realtà.

Innanzitutto le parole di Panetta vanno contestualizzate. Perché se il problema è quello della mancanza di un mercato dei capitali integrato – cioè l’assenza di barriere geografiche e normative all’interno della Ue relative alla raccolta e all’impiego del risparmio – allora la soluzione non è certo un titolo comune europeo. Non sono gli strumenti finanziari che mancano: oggi qualsiasi cittadino della Ue, avendo le adeguate conoscenze finanziarie, può acquistare azioni presso la Borsa di Amsterdam o titoli del debito pubblico polacco, ad esempio. Btp italiani, Bund tedeschi e Oat francesi sono già alcuni degli strumenti finanziari più liquidi e scambiati al mondo. Al contrario, le massicce emissioni di titoli già eseguite da istituzione sovranazionali come il Mes, la Bei o la Commissione, soffrono di problemi di liquidità.

Il problema sono le barriere normative – specificità del diritto societario, di regolazione del mercato e fallimentare di ciascuno Stato membro – non lo strumento per attrarre il debito.

Ma se il medesimo risparmiatore anziché comprare azioni, e quindi veicolare il suo risparmio direttamente a favore di chi lo impiega in investimenti produttivi, preferisce detenere i propri risparmi sotto forma di depositi bancari o titoli di Stato, la colpa è sua o dell’offerta non particolarmente allettante? Non vorremmo nemmeno pensare che si stia pensando in qualche modo di “costringere” il risparmiatore nella scelta della destinazione del suo risparmio.

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Il mercato mobiliare della UE è stato, soprattutto negli anni dieci, una trappola da cui spesso scappare e quello Usa è stato, al contrario, una miniera d’oro per i risparmiatori, già storicamente propensi all’investimento azionario. L’ostacolo è il groviglio di vincoli normativi e burocratici della Ue che si sommano a quelli nazionali, col risultato finale di rendere il mercato mobiliare poco attrattivo per il risparmiatore. Ma prima ancora di questi vincoli, ha rilevanza un fattore fondamentale: chi investe in un’area che è stata campione mondiale di crescita asfittica per almeno dieci anni?

Panetta ha poi sollevato un altro tema su cui non mancano le perplessità, peraltro ripreso il giorno dopo sul Sole 24 Ore in un intervento dell’ex ministro del governo Conte 1, Giovanni Tria, secondo il quale, oggi la UE “avrebbe bisogno anche di attrarre risparmio dal resto del mondo invece che continuare a fornire risparmio al resto del mondo, in particolare agli Usa”.

La soluzione sarebbe, ancora una volta, il “debito europeo considerato un titolo sicuro nel mercato globale del risparmio”. Ma si trascurano due aspetti: il primo è che, siamo “fornitori di risparmio” perché è l’altra faccia dell’avanzo abnorme delle partite correnti, tra cui spicca l’avanzo della bilancia commerciale. In altre più semplici parole, chi esporta è giocoforza detentore di attività finanziarie sull’estero. Così come, chi importa, è finanziato dall’estero, nei limiti delle proprie disponibilità valutarie. Poi, ovviamente, si possono sempre vendere quelle attività finanziarie e dirottarle altrove, ma immaginate che gli investitori di Cina, Giappone o anche i Paesi esportatori netti UE rifiutino di sedersi al banchetto del mercato finanziario Usa, per preferire, ad esempio, i titoli del Sudafrica? Anche dopo le recenti (benvenute) correzioni, Wall Street resta sempre una delle migliori destinazioni del risparmio.

Insomma, il professor Tria ci insegna che per attrarre risparmio la via più semplice è quella di essere importatori netti, non disporre di una (ennesima) obbligazione governativa. Ma poi, ammesso e non concesso che i risparmiatori gradiscano, chi dovrebbe spendere quelle somme? La Commissione, che ci ha messo ben 4 anni per erogare agli Stati membri 315 miliardi del Next Generation EU (205 sussidi e 110 prestiti)? Peraltro, una somma che il Tesoro italiano raccoglie sul mercato in circa un paio di anni.

E così veniamo “all’esperienza del NGEU” che, secondo Panetta, “dimostra che è possibile emettere debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei, senza dover creare un’unione fiscale o istituire un Ministero delle Finanze europeo”.

Un’affermazione che riteniamo non sia compatibile con le valutazioni della Corte Costituzionale tedesca in materia. Quando, con la sentenza del 6 dicembre 2022, la Corte ha ritenuto che la Decisione sulle Risorse Proprie del 2020 (che consentiva alla Commissione di emettere titoli per finanziare il NgEU) non violasse il diritto interno tedesco, lo ha fatto basando sull’essenziale e decisiva premessa che il NgEU fosse limitato nel tempo, nell’importo e nello scopo e, pertanto non comprometteva la sovranità di bilancio del Bundestag. Un NGEU perpetuo finirebbe sbriciolato dalla Corte di Karlsruhe.

Inoltre le centinaia di miliardi di emissioni eseguite finora da Mes, Commissione e Banca Europea degli Investimenti non brillano particolarmente.  Per le loro caratteristiche tecniche (liquidità del mercato, assenza di derivati) questi titoli pagano oggi (sul decennale) uno spread di 42 punti sul Bund e soli 56 punti in meno rispetto al Btp. Evidentemente gli investitori sanno che il bilancio UE, privo di significative entrate fiscali proprie, sarebbe una scatola vuota senza i versamenti degli Stati membri, che tuttora detengono gran parte del potere impositivo su famiglie e imprese.

Detto con le parole di Bini Smaghi: «La Commissione europea ha avanzato una proposta per aumentare le risorse proprie, in particolare attraverso tre nuove entrate (basate sulla tassazione delle imprese e delle emissioni CO2) per finanziare il Next GenEu, ma il Consiglio europeo non ha ancora deciso. Fin quando non si troveranno le risorse per garantire il debito fatto in passato, è del tutto illusorio pensare che se ne possa fare dell’altro».

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In breve: come può un soggetto, senza entrate fiscali proprie, emettere debito, peraltro ritenuto “bello”, mentre quello dell’Italia, che invece le entrate ce l’ha, è ritenuto “brutto”?

L’economista fiorentino però ne approfitta per riproporre il ruolo del Mes. Egli ritiene che sia necessario “creare uno strumento finanziario “sicuro” – cosiddetto safe asset – che rappresenti le fondamenta di un mercato europeo integrato, alternativo al dollaro. Ciò consentirebbe di ridurre il rischio su tutti i titoli europei e di proteggere meglio l’Europa dagli shock esterni. In questo modo si rafforzerebbe l’autonomia strategica del continente”.

Per avere un titolo europeo per almeno 5mila miliardi, allora l’unico soggetto che può eseguire queste emissioni è il Mes (dotato di un capitale di 700 miliardi). Con quei proventi, il Mes comprerebbe i titoli di Stato dei Paesi membri e (udite, udite…) “in caso di default di un emittente, il Mes verrebbe ricapitalizzato da quel Paese, che si potrebbe finanziare direttamente con un prestito del Mes stesso”. La trappola perfetta per togliere quel minimo di sovranità rimasta agli Stati membri e costituirli debitori di una istituzione-banca creata per gestire debitori in difficoltà.Proprio il motivo per cui tutti stanno lontani dal Mes.

Per fortuna, anche Bini Smaghi è costretto ad ammettere che “per poter operare come sopra, gli statuti e le funzioni del Mes devono essere rivisti”. Cioè mai. Almeno lo speriamo.



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