Abita in via Torino a Ivrea, in una zona che per collocazione e densità urbana dovrebbe rappresentare il fiore all’occhiello della transizione digitale. Ci si aspetterebbero connessioni a 1 Gigabit al secondo, telelavoro a pieno regime, videoconferenze nitide, streaming senza buffering. Invece, la realtà è da Terzo Mondo digitale: connessioni a singhiozzo, velocità ridicole, cadute di linea sistematiche. Ma non per mancanza di infrastruttura.
La fibra ottica è già stata posata: i cavi giacciono nei pozzetti, i vani tecnici condominiali sono cablati, gli armadi stradali installati e perfettamente funzionanti, le canaline verticali pronte all’uso. Mancano solo i cablaggi finali fino agli appartamenti: un lavoro da due giorni, spiegano i tecnici.
Eppure, nulla si muove. L’attivazione è un miraggio. È come se una mano invisibile avesse deciso di bloccare tutto a pochi centimetri dalla meta, lasciando gli eporediesi in una bolla di rame e frustrazione.
E non è un caso isolato. Al contrario, è una condizione ormai generalizzata: decine di famiglie e imprese della stessa via lamentano da mesi la stessa situazione. C’è chi ha aperto ticket, chi ha scritto PEC, chi ha scattato foto ai tombini pieni di fibra, chi ha coinvolto amministratori condominiali, chi ha sollecitato i call center. E la risposta? Sempre la stessa, surreale nella sua freddezza: “Il servizio non risulta disponibile.”
Come può essere non disponibile un servizio che è già lì, fisicamente presente, installato, posato, pronto? È uno dei grandi misteri della digitalizzazione italiana: abbiamo tutto, ma non possiamo usarlo.
Il risultato è uno dei paradossi più grotteschi della modernità: infrastruttura completata, ma disservizio assoluto. E questo succede a Ivrea, ma anche a Chivasso, Settimo Torinese, Leinì, Volpiano, San Mauro, Ciriè, Rivarolo Canavese e in decine di altri comuni sparsi nella provincia di Torino. Basta digitare un qualsiasi indirizzo sul sito di TIM, Open Fiber o Tiscali per rendersi conto dell’assurdo: aree dichiarate “coperte” ma di fatto non attivabili.
In molte strade il civico 45 è cablato, il 47 no. Il 51 risulta “disponibile”, il 53 “non servito”. Tutto fermo. Tutto bloccato. Con buona pace delle promesse.
Semplice spiegazioni suddivisioni tipologie reti fisse, dal sito TIM
E pensare che una delle missioni centrali del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) riguarda proprio il potenziamento delle infrastrutture digitali, con lo scopo – dichiarato in ogni documento ufficiale – di raggiungere una copertura di almeno 1 Gbps in download e 200 Mbps in upload su tutto il territorio nazionale, in particolare nelle cosiddette aree bianche o grigie, quelle considerate non profittevoli dagli operatori privati.
Il piano si chiama “Italia a 1 Giga”, è stato promosso dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (ex MISE), e ha stanziato circa 3,8 miliardi di euro (Missione 1 – Digitalizzazione). A occuparsene sono stati colossi come TIM, Open Fiber, Fastweb, Tiscali, FiberCop, vincitori dei bandi pubblici che hanno il compito – formalmente obbligatorio – di portare la FTTH (Fiber To The Home) in ogni angolo d’Italia. Eppure, come accade troppo spesso nel nostro Paese, tra la teoria e la pratica c’è di mezzo un abisso.
La fibra FTTH è quella vera, quella che porta il segnale ottico fino all’interno dell’abitazione, garantendo prestazioni stabili e velocità reali fino a 1 Gigabit/s in download e 300 Mbps in upload. Una tecnologia essenziale per lavorare, per la didattica, per la pubblica amministrazione digitale, per le imprese e i professionisti. Ma se la fibra si ferma all’armadio stradale, allora siamo di fronte alla FTTC (Fiber To The Cabinet): un sistema ibrido fibra-rame che riduce la velocità reale a 50-100 Mbps, e che diventa drammaticamente instabile in presenza di distanze superiori ai 300 metri.
Il punto è che i collegamenti verticali tra l’armadio condominiale e i singoli appartamenti non vengono mai completati. Il motivo? Dipende a chi si chiede. I tecnici dicono: “Non abbiamo ricevuto ordini.” Gli operatori commerciali: “Il civico risulta non coperto.” I cittadini: “Abbiamo fatto la richiesta, ma non ci richiamano.” Una giungla di responsabilità sfumate, dove nessuno controlla, nessuno coordina, nessuno verifica.
Prova documentale di alcuni abitanti della via dimostrano come l’armadietto per il collegamento gigabit sia presente nei condomini.
E così ci si trova di fronte a una nuova forma di digital divide, più subdola della precedente: non più tra chi ha e chi non ha la rete, ma tra chi ce l’ha e non può usarla. Il risultato è la stessa esclusione, ma mascherata da inclusione: nei grafici sei “coperto”, ma nella realtà non puoi nemmeno aprire una videochiamata decente.
Cosa fare? L’unico strumento a disposizione del cittadino è verificare la copertura sulla carta. Si può consultare il sito ufficiale di Infratel Italia (https://bandaultralarga.italia.it), oppure le mappe pubblicate dai singoli operatori. Ma spesso i dati sono vecchi, errati, contraddittori. L’unico modo per avere conferma è, ironia della sorte, tentare l’attivazione e attendere un rifiuto. Come se la digitalizzazione fosse una lotteria.
Nel frattempo, alcune Regioni stanno tentando di colmare i vuoti del piano nazionale con progetti complementarifinanziati autonomamente. Ma il Piemonte su questo fronte è in ritardo, e molte aree – anche densamente popolate – restano escluse da ogni iniziativa strutturale. Il caos aumenta quando si scopre che molti operatori hanno chiesto proroghe ai tempi di realizzazione: ufficialmente tutto dovrebbe essere completato entro il 2026, ma la realtà è che molte zone non saranno servite nemmeno nel 2027.
Chi ha sbagliato? Gli operatori? I tecnici? I comuni? Il Ministero? La verità, come spesso accade in Italia, è che la colpa è di tutti e di nessuno. In alcuni casi i Comuni hanno tardato con le autorizzazioni o non hanno vigilato sui cantieri. In altri, i lavori sono stati completati ma mai collaudati. In altri ancora, nessuno ha aggiornato i database commerciali e quindi la rete “non esiste”. Il punto però è un altro: nessuno controlla se la fibra, una volta posata, viene anche attivata. Nessuno obbliga gli operatori a rispondere ai cittadini. Nessuno fa audit. Nessuno rende conto.
E mentre lo Stato si autocompiace nei comunicati stampa e nelle slide ministeriali, i cittadini aspettano. Nei condomini di via Torino, nei quartieri di Chivasso, nei sobborghi di Settimo. Aspettano che qualcuno accenda la luce. Aspettano con le fotografie in mano, i pozzetti pieni di cavi, e la connessione che non arriva mai. E intanto studiano peggio, lavorano peggio, vivono peggio, con connessioni degne di una sitcom degli anni ’90.
La fibra? C’è. Ma è invisibile. È lì, sotto i piedi, come una reliquia moderna: costosa, dimenticata, e – soprattutto – inutilizzabile.
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