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cosa cambierà per le associazioni dal 2026


Con l’approvazione da parte della Commissione UE della riforma fiscale del Terzo settore, dal 2026 gli enti non commerciali si muoveranno in un nuovo panorama normativo, ecco le novità

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Nel Decreto Fiscale approvato nel Consiglio dei Ministri del 12 giugno trova spazio anche il recepimento della comfort letter notificata dalla Direzione generale della Concorrenza (COMP) della Commissione europea sulle novità previste dal Codice del Terzo settore.

Gli enti non commerciali, a partire dal 1° gennaio 2026, dovranno muoversi in un panorama normativo del tutto rinnovato.

Dal 1° gennaio sarà operativa anche la riforma IVA per gli enti associativi, e la riforma fiscale per gli ETS, e sempre nel 2026, in particolare dopo il 30 marzo sparirà per sempre la qualifica di ONLUS, che per molti anni ha accolto moltissimi enti no profit.

Cerchiamo di capire quali saranno i punti salienti delle riforme che interesseranno gli enti non commerciali a partire dal 2026.

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I limiti per gli enti non commerciali e le associazioni

A partire dal 1° gennaio 2026 entreranno in vigore le disposizioni fiscali contenute nel Titolo X del d.lgs 117/2017 comprese negli artt. 79-89, incluse quelle di coordinamento quale l’art. 89.

Le associazioni culturali saranno quelle più colpite dall’entrata in vigore di tali disposizioni. Le modifiche introdotte dall’art. 89 del d.lgs 117/2017, infatti, si sono concentrate sulla rimozione di alcune categorie di enti dalla previsione contenuta nell’art. 148 del TUIR.

L’art. 148 al comma 3 nella sua previsione originale conteneva il seguente assunto:

“Per le associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona, nonché per le strutture periferiche di natura privatistica necessarie agli enti pubblici non economici per attuare la funzione di preposto a servizi di pubblico interesse non si considerano commerciali le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici nei confronti degli iscritti, associati o partecipanti, di altre associazioni che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale, dei rispettivi associati o partecipanti e dei tesserati dalle rispettive organizzazioni nazionali, nonché le cessioni anche a terzi di proprie pubblicazioni cedute prevalentemente agli associati”.

L’art. 89 del d.lgs 117/2017 ha rimosso da tale previsione le seguenti categorie associative:

  • associazioni culturali;
  • associazioni di promozione sociale;
  • associazioni di formazione extra-scolastica della persona.

Alle quali non sarà quindi più consentito considerare di natura non commerciale le seguenti entrate:

  • corrispettivi specifici versati dai propri soci o partecipanti, dagli associati o partecipanti di altre associazioni (che svolgono la medesima attività e che per legge, regolamento, atto costitutivo o statuto fanno parte di un’unica organizzazione locale o nazionale) o dai tesserati alle rispettive organizzazioni nazionali, per partecipare ad attività organizzate dall’associazione nell’ambito delle finalità istituzionali (art.148, comma 3, TUIR). Esempio: le quote di partecipazione a corsi ed attività;
  • vendita di proprie pubblicazioni a soci e non soci anche se la cessione avviene prevalentemente agli associati. Era ad esempio il caso dell’associazione che stampava e diffondeva un periodico sociale destinato prevalentemente, ma non esclusivamente, agli associati: in tal caso gli eventuali proventi legati a tali vendite rientravano tra le entrate istituzionali.

Le associazioni culturali dovranno, quindi, decidere se continuare ad esistere trasformandosi in enti del Terzo settore, o perdere con molta probabilità la qualifica di ente non commerciale, nel caso in cui dovessero continuare a svolgere le loro tipiche attività con le modalità solite.

Il regime forfettario per gli enti non commerciali

Gli Enti di Terzo settore che potranno essere considerati non commerciali beneficeranno, chiaramente per le attività svolte di tipo commerciale, del regime forfettario per il reddito d’impresa, applicando un coefficiente di redditività a seconda della tipologia di attività svolta e dei ricavi dell’ente.

L’art. 80 del Codice del Terzo settore espone che:

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“Per gli enti del terzo settore «non commerciali», nel caso in cui svolgano prestazioni di servizi fino a 130.000 euro all’anno potranno applicare un coefficiente del 7 per cento, fino a 300.000 euro sale al 10 per cento, mentre oltre i 300.000 euro arriva al 17 per cento.

Nel caso in cui essi svolgano altre attività, sempre di natura commerciale, ma diverse dalla prestazione di servizi, le soglie restano immutate ma i coefficienti spaziano dal 5 per cento, 7 per cento, fino ad arrivare al 14 per cento.”

L’art.86 al comma 3 prevede invece un regime ad hoc per le APS, le quali nel caso in cui svolgano attività di natura commerciale, qualsiasi essa sia, e mantengano ricavi al di sotto della soglia di euro 130.000 potranno applicare un coefficiente di redditività del 3 per cento.

Sempre all’art. 86 comma 3 si specifica che per le ODV a pari soglia il coefficiente scende all’1 per cento.

Parlando di regimi fiscali forfettari è bene ricordare che quanto previsto dalla legge 398 del 1991 non si potrà più applicare agli ETS, ma resterà sempre in vigore per le associazioni sportive dilettantistiche e le società sportive dilettantistiche non iscritte al RUNTS, Registro Unico Nazionale del Terzo settore, ma solo al RASD, Registro Nazionale delle Attività Sportive Dilettantistiche.

Dubbi interpretativi per gli ETS: norme da chiarire

Nonostante sia arrivata l’autorizzazione da parte della Commissione Europea, la riforma fiscale degli ETS per essere effettivamente messa in atto ha prima bisogno di alcuni interventi in quanto molti sono gli interrogativi che si stanno ponendo i futuri utenti utilizzatori.

Il codice del Terzo settore prevede la decommercializzazione delle entrate derivanti dallo svolgimento delle attività di interesse generale, se le stesso sono state svolte a titolo gratuito o dietro corrispettivo a patto che i ricavi non superino di oltre il 6 per cento i relativi costi per ciascun periodo d’imposta e per non oltre tre periodi d’imposta consecutivi.

Uno degli aspetti cruciali che dovrà essere oggetto di analisi è sicuramente quello relativo alle modalità che gli enti dovranno seguire per stabilire e contabilizzare l’ammontare dei costi oggetto di calcolo ai fini del confronto per la valutazione del mancato superamento di tale soglia.

Sicuramente assisteremo alla perdita da parte di diversi enti della qualifica di ente non commerciale o al contrario alla loro acquisizione a causa del completo stravolgimento dei criteri per la sua attribuzione e mantenimento.

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In questo periodo di cambiamento e transizioni vi saranno anche delle situazioni ambigue e probabilmente di dubbia interpretazione. Basti pensare ad un ente che possiede immobili di proprietà e a seguito delle modifiche intervenute con la riforma abbia la necessità di farli transitare dalla sfera commerciale a quella non commerciale, sarebbe soggetto alla tassazione di una plusvalenza, anche se non realizzata stante la continuazione dell’attività nelle modalità consuete.

La valutazione dell’equilibrio tra costi e ricavi prevista dall’art. 79 comma 2 e 2-bis, sarà però affiancata al confronto tra attività non commerciali e attività diverse così come previsto dall’art. 79 comma 5.

È importante infatti che un ente del terzo settore valuti se le attività di interesse generale svolte in forma d’impresa e le attività diverse (art. 6 d.lgs 117/2017) producano più ricavi di quelli derivanti dalle entrate di attività non commerciali.

È chiaro che per rendere tali calcoli omogenei e ben leggibili anche agli organi deputati al controllo del rispetto di tali requisiti, oltre che di facile attuazione per gli enti, sarà necessario fornire più specifiche linee guida alle quali gli enti potranno attenersi.

Imprese sociali: detassazione utili reinvestiti in attività di interesse generale

Tra le misure la cui attuazione risultava essere subordinata all’approvazione della Commissione Europea vi era anche quanto previsto dall’art. 18 del d.lgs 112/117, recante le misure dettate in merito al regime fiscale previsto per le imprese sociali.

L’art. 18 comma 9 del d.lgs 112/2017 specifica difatti che:

“L’efficacia delle disposizioni del presente articolo e dell’articolo 16 è subordinata, ai sensi dell’articolo 108, paragrafo 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, all’autorizzazione della Commissione europea, richiesta a cura del Ministero del lavoro e delle politiche sociali”.

A partire dal 1° gennaio 2026 sarà, quindi, possibile applicare quanto previsto dall’art. 18 commi 1 e 2, secondo il quale per le imprese sociali si potrà essere applicata una completa detassazione degli utili reinvestiti in attività statutarie.

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Scendendo nel dettaglio della fattispecie, quanto previsto dai primi due commi dell’art. 18, crea una situazione analoga a quanto già previsto per le cooperative sociali, ai sensi della l. 398/1991, oltre che per i consorzi tra piccole e medie imprese in base alla Legge n. 240/1981, dove gli utili o gli avanzi di gestione conseguiti nelle attività di interesse generale e attività diverse non costituiscono redditi imponibili qualora siano destinati ad apposita riserva indivisibile, non distribuibile ai soci nemmeno in sede di scioglimento dell’impresa sociale, in sede di approvazione del bilancio dell’esercizio in cui sono stati conseguiti, utilizzata nello svolgimento dell’attività statutaria oppure per incremento del patrimonio o a contributo per l’esercizio dell’attività ispettiva di cui all’art. 15 del D.Lgs. n. 112/2017.

L’art. 18 nei commi 1 e 2 del d.lgs 112/2017 va letto in combinato disposto con l’art. 3 comma 1 del medesimo decreto legislativo secondo il quale:

“Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 16, l’impresa sociale destina eventuali utili ed avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio.”

Nel comunicato stampa del Governo, diffuso dopo l’approvazione del DL Fiscale il 12 giugno, si legge:

“Per dare seguito alla comfort letter notificata dalla Direzione generale della Concorrenza (COMP) della Commissione europea in cui si è affermato che le misure fiscali del Terzo Settore e per le imprese sociali non sono selettive (ai fini degli aiuti di Stato), si rimuove il riferimento all’autorizzazione da parte della Commissione.

ONLUS nel terzo settore: una decisione da prendere entro il 30 marzo 2026

A causa della diffusa incertezza data dalla claudicante entrata in vigore del codice del terzo settore, dovuta prima al ritardo di pubblicazione della piattaforma del RUNTS poi all’attesa estenuante dell’approvazione della Commissione Europea, molte associazioni sono ancora in un limbo, tante infatti non hanno deciso se acquisire la qualifica di enti del terzo settore o se invece restarne al di fuori.

Una menzione speciale è necessario farla per le ONLUS, associazioni che hanno acquisito tale qualifica fiscale e che l’hanno mantenuta fino ad oggi.

Dal 1° gennaio 2026 smetterà ufficialmente di esistere tale qualifica e tutti gli enti ad oggi ancora beneficiari delle particolari condizioni previste per la stessa, e che ancora non hanno fatto il passaggio al Terzo settore, dovranno prendere una decisione.

Tali enti avranno infatti tempo al massimo fino al 30 marzo 2026 per modificare il proprio statuto e richiedere l’iscrizione al RUNTS, altrimenti saranno costretti a devolvere il patrimonio acquisito a partire dal momento in cui è stata loro attribuita la qualifica di ONLUS ad una associazione di simili intenti, che svolge quindi attività nel loro stesso settore.

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