Ha iniziato il suo mandato alla guida di Confindustria Brescia in piena emergenza Covid, quattro anni dopo lo chiude con i dazi di Trump che stanno mettendo a rischio le esportazioni anche delle imprese bresciane. Con il trascorrere del tempo la presidenza di Franco Gussalli Beretta ha assunto contorni da «Mission impossible»: lasciata alle spalle la pandemia, che rischiava di minare l’efficienza del sistema imprenditoriale, è arrivata la crisi energetica innescata dalla guerra in Ucraina con rincari insostenibili per l’economia, specie in una provincia energivora imperniata sulla produzione siderurgica, infine alla vigilia del passaggio del testimone al nuovo presidente Paolo Streparava è scoppiata la guerra dei dazi. Ma in questi 1.742 giorni di presidenza non sono mancate anche nuove sfide per il Sistema Brescia: dallo sviluppo del digitale all’idea della Cittadella dell’innovazione, fino al progetto strategico della piattaforma manifatturiera Brescia-Bergamo nato sull’onda delle assemblee congiunte.
Sono stati quattro anni impegnativi e intensi quelli del terzo Beretta (il prozio Pier Giuseppe dal 1954 al 1963, il padre Ugo Gussalli Beretta dal 1997 al 2001) al vertice di Confindustria Brescia. Anni in cui il sistema industriale ha dovuto reinventarsi, reagire e rilanciare.
Presidente Franco Gussalli Beretta, ora che il suo mandato si chiude cosa ha significato guidare l’associazione in uno dei momenti più complessi per il tessuto produttivo italiano?
«Quando sono stato eletto, ed è stata la prima volta con una votazione on-line per la nostra associazione, perchè all’epoca la parola d’ordine era “evitare gli assembramenti“, molti dei miei colleghi imprenditori mi dissero che ero fortunato, perchè peggio di così non poteva andare. Eravamo nella fase discendente dei contagi, si vedeva una luce in fondo al tunnel anche se c’era ancora tanta paura».
Nemmeno il tempo di riprendersi ed è arrivata la crisi energetica…
«Uno scoglio ancora più arduo da superare per un comparto industriale come quello di Brescia. I rincari e le difficoltà di approvvigionamento hanno avuto un impatto tragico sulle nostre aziende e lo hanno ancora. Ma i nostri imprenditori sono forti, con grandi risorse, e danno sempre prova di reggere a ogni difficoltà. Questo fronte, comunque, mi ha impegnato molto e spero che si possa arrivare a una soluzione perché per tutta l’industria manifatturiera è condizione di esistenza, specie per il comparto sider-metallurgico».
Ma perchè non si trova la soluzione?
«L’aspetto più grave è che non riusciamo a far passare il concetto tra i nostri governanti: si dovrebbe ragionare di una politica industriale per fare in modo che almeno all’interno del continente europeo ci sia la possibilità di restare competitivi. Non chiediamo privilegi, ma ci spiace che il governo non condivida le nostre richieste perché dicono “quello che abbiamo potuto fare l’abbiamo fatto”. L’accesso finanziariamente sostenibile all’energia è fondamentale per il comparto industriale, che è la colonna portante del sistema economico e quindi anche sociale italiano. Come hanno fatto altri Paesi, è necessario arrivare pure da noi al disaccoppiamento tra il prezzo del gas e quello dell’energia elettrica. Purtroppo l’Italia è condizionata dallo strapotere delle Partecipazioni statali, che garantiscono un gettito consistente al governo, ma contestualmente mettono in difficoltà il comparto manifatturiero».
Dalla crisi energetica alla transizione ecologica: il manifatturiero italiano è di fronte a sfide cruciali. Il comparto può restare competitivo?
«Sì, se lo si mette nelle condizioni di esserlo. Dobbiamo smettere di guardare al settore industriale come a qualcosa di superato. L’industria è evoluta, investe in tecnologia, innovazione, sostenibilità. Però serve una politica industriale coerente, che premi chi innova davvero, che riconosca il valore della manifattura. E che garantisca energia a costi competitivi, altrimenti si rischia la delocalizzazione».
In questo senso, la neutralità tecnologica è un concetto chiave?
«Assolutamente. È fondamentale. Imporre un’unica strada, ad esempio sull’automotive o sull’energia, rischia di bloccare lo sviluppo. Il Green Deal va nella direzione giusta, ma va attuato lasciando libertà di scelta tecnologica. Abbiamo tanti imprenditori che vorrebbero realizzare impianti fotovoltaici, ma si scontrano con cavilli burocratici. E intanto il sistema energetico resta instabile, come dimostrano i blackout in Spagna. Le rinnovabili sono fondamentali, però non bastano: serve anche il nucleare green. E ricordo che le imprese bresciane sono leader nella costruzione di centrali nucleari all’estero. Dunque, perché non anche qui?».
Nel suo mandato ha puntato molto sul valore della formazione, sull’investimento sul capitale umano, ma la distanza tra domanda e offerta di competenze resta alta.
«È un problema strutturale. C’è una carenza enorme di tecnici specializzati. E questo gap non si colma con i convegni. Servono investimenti veri sulla formazione. L’ITS, ad esempio, è uno strumento straordinario. Ma è sottoutilizzato. Dobbiamo smettere di pensare che solo il liceo e l’università classica siano percorsi “nobili”. Anche diventare un tecnico esperto, lavorare in un’industria avanzata, è una scelta dignitosa, appassionante, ben retribuita. Bisogna dirlo chiaramente ai ragazzi e alle famiglie».
Ma il mondo della formazione e quello delle imprese dialogano davvero?
«Fanno fatica. È come se fossero due binari paralleli che non si incontrano. Eppure, nei Paesi dove l’innovazione funziona – penso agli Stati Uniti ma anche alla Corea del Sud – la convergenza tra ricerca, università e impresa è naturale. Da noi serve ancora un cambio di mentalità, anche da parte degli imprenditori».
E il Pnrr? Doveva rilanciare il Paese. Ma a Brescia è arrivato poco. Perché?
«Lo dico con grande amarezza. Quando è stato presentato, ci era stato detto da tutte le istituzioni: “È il piano di rilancio economico del Paese”. Bene. Ma un territorio come Brescia ha ricevuto poco. Nulla sulla formazione, nulla sulle infrastrutture, salvo la Tav. Lo ripeto sempre ai politici: se non volete farlo per le imprese, almeno fatelo per i ragazzi e le ragazze. Date loro la possibilità di intraprendere percorsi formativi moderni, dentro strutture adeguate. Quante volte abbiamo letto che gli edifici scolastici non sono più a norma?».
Cosa è andato storto? Una questione di progettazione?
«Mi si dice spesso: “Il territorio non ha saputo fare rete, non ha saputo presentare progetti”. Ma l’ITS lo abbiamo presentato eccome, con il protocollo d’intesa firmato da tutti. Non c’è stato un ministro, sottosegretario o funzionario che non abbia detto: “Questo deve diventare il progetto pilota per l’Italia”. E allora? Perché non è stato finanziato? C’era sempre un vincolo, un’interpretazione da chiarire, un’ultima verifica. È dal 2022 che lo portiamo avanti. Due settimane fa ero ancora a discuterne. Ma a vuoto…».
E intanto risorse sono state spese altrove.
«Il Pnrr doveva essere il piano industriale dell’Italia. Ma non ha raggiunto davvero l’impresa. E nel frattempo la competitività del nostro territorio resta indietro».
Guardando fuori dai confini, i rapporti tra USA e UE sembrano destinati a irrigidirsi per la guerra dei dazi…
«È uno scenario possibile, ma anche pericoloso. Gli Stati Uniti vivono un momento complesso. Trump rappresenta l’America profonda, quella che ha sofferto per la deindustrializzazione. Ma tornare a produrre tutto in America non è realistico: non ci sono più le competenze, né la cultura della fabbrica. Anche i produttori americani dipendono da componenti esteri. Tassare le importazioni significa aumentare i prezzi al consumo. E questo, per la famosa “pancia dell’America”, non è sostenibile. Bisogna trovare un compromesso. Io resto ottimista».
Altro tema caldo è quello del costo del lavoro. Cuneo fiscale, produttività, salario minimo: dove intervenire davvero per rendere più competitivo il sistema?
«Parto da un punto: un cuneo fiscale alleggerito, almeno nella parte incrementale o premiale, sarebbe di beneficio per tutti. Più soldi nelle tasche dei lavoratori significano più consumi, quindi un’economia che gira meglio. Per un sistema come quello italiano è una leva fondamentale. Quanto ai salari minimi, come Confindustria lo abbiamo detto chiaramente: i nostri contratti non mettono in discussione il salario verso il basso. Il problema non è l’industria strutturata, semmai è l’economia sommersa. Ma il nostro sistema di contrattazione ha dimostrato di funzionare».
A Brescia si dice spesso che gli industriali non fanno squadra e non hanno peso a Roma. È davvero così?
«Sono temi che conosco bene. E sono convinto che fare sistema sia l’unico modo per incidere. Per questo, fin dall’inizio del mio mandato, ho lavorato per rafforzare l’associazionismo. Ma non solo tra imprenditori: anche con il territorio, con le istituzioni, con tutte le componenti economiche. Certo, il difetto dell’individualismo a Brescia esiste ma abbiamo cercato di superarlo. Qualcuno mi ha detto che sono riuscito a tenere insieme la squadra degli imprenditori bresciani: ne sono fiero. Ma non basta. Dobbiamo fare squadra anche a livello nazionale, perché il nostro peso a Roma è marginale. E ancora di più a Bruxelles, dove ormai si decide il 70%, se non l’80%, della normativa economica. Se non si conta in Europa, si resta ai margini».
Quali passi concreti avete fatto in questa direzione?
«Confindustria Brescia ha promosso e coordinato il tavolo dei presidenti delle 14 realtà economiche del territorio: agricoltura, commercio, industria, turismo, servizi. Abbiamo cercato di presentare una voce unitaria ai parlamentari, italiani ed europei. Perché tutti – non importa in quale settore si operi – affrontiamo le stesse sfide: capitale umano, innovazione, sostenibilità. E se il territorio ha delle prerogative, bisogna saperle valorizzare. Abbiamo promosso incontri istituzionali, e devo dire che molti parlamentari, anche di orientamenti diversi, hanno risposto con disponibilità. Ma serve continuità. E occorre che anche la politica capisca che certe battaglie si combattono insieme, oltre le ideologie».
È il più internazionale dei nostri imprenditori, quello più aperto al mondo, con attività in tutti i continenti. Ora quattro anni di brescianità cosa le lasciano?
«Come famiglia siamo anche i più… anziani, visto che la nostra azienda presto festeggerà i 500 anni di attività! Scherzi a parte, lasciano sicuramente un segno. So che chi non mi conosceva mi vedeva un po’ distaccato, ma non per giustificarmi: chi mi conosce, chi sa che sono cresciuto qui, che ho fatto le scuole qui, che i miei amici sono qui, sa anche che il mio legame con il territorio c’era e c’è. Questo ruolo mi ha fatto crescere, perché mi ha dato la possibilità di conoscere settori diversi, non solo quello industriale. Grazie a Confindustria, e al dialogo continuo con tutte le altre categorie economiche, ho capito molto meglio cos’è davvero Brescia. Io sono cresciuto in una famiglia industriale dove Confindustria era sempre presente: mio pro-zio, mio padre… Quindi, sapevo bene che l’industria è un asse portante del sistema economico bresciano e italiano. Però, che l’agricoltura e il turismo fossero altrettanto importanti, l’ho capito solo in questi anni, entrando a contatto diretto con il territorio. Un territorio forte, dinamico e – se gestito bene – con grandi prospettive».
Quindi, si può dire che questa esperienza ha rafforzato la sua brescianità?
«Sì, assolutamente. Ora quelli che mi conoscono fuori da Brescia mi fanno spesso una critica: “Franco, basta, parli solo di Brescia! Pensi che sia il centro del mondo?”. E io rispondo: “Sì!”. Io sono sempre stato convinto della mia brescianità e del mio attaccamento a questo territorio. Ho vissuto tanti anni in America, ma mia moglie è bresciana e quando nostro figlio Carlo ha iniziato le elementari siamo tornati in Italia: Gardone Valtrompia è la casa della nostra famiglia, Brescia la nostra città».
Cosa c’è nell’agenda che lascia al suo successore?
«Premetto che, vista proprio anche la mia esperienza alla guida di Confindustria Brescia, di questi tempi è sempre difficile fare previsioni: gli scenari cambiano velocemente. Tenere la barra dritta in questi 4 anni è stata la nostra bussola. Quando si affrontano strettoie così anguste – prima la pandemia, poi la crisi energetica, le tensioni geopolitiche, la trasformazione digitale – bisogna rimanere concentrati sull’essenziale: aiutare le imprese a resistere, a evolvere, a investire. Sul tavolo ci sono progetti strategici per fare sistema e il documento che abbiamo fatto con l’Università Cattolica sulla demografia, sull’immigrazione e sull’intelligenza artificiale va in questa direzione. È uno snodo chiave assieme alla Cittadella dell’innovazione. Il passaggio di testimone è nel segno della continuità: Paolo Streparava è stato il mio vice e con lui ho condiviso tutte le scelte. Nel cedergli la presidenza gli auguro buon lavoro indicandogli due parole da tener sempre ben presenti: pazienza e determinazione».
E se dovesse riassumere questi 4 anni in una parola, quale sceglierebbe?
«Responsabilità. Nei momenti difficili, l’unica via è assumersi la responsabilità delle scelte, ascoltare il territorio, unire le forze e lavorare. Questo abbiamo cercato di fare. Da bresciani. E ora guardo avanti con fiducia, perchè chiudo un’esperienza per me molto interessante e torno a fare l’imprenditore a tempo pieno, lasciando Confindustria Brescia nelle mani di una squadra affiatata e affidabile che porterà entusiasmo e nuove idee».
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