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Made in Italy senza paura: le multinazionali tascabili crescono ancora


di
Dario Di Vico

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Il tradizionale rapporto di Mediobanca sulle medie imprese: il 68,2% sta cercando mercati alternativi agli Usa. Focus su innovazione e sviluppo prodotti. Cosa le impensierisce? La concorrenza sleale dei cinesi sui prezzi

La tradizionale e prestigiosa indagine di Mediobanca sulle medie imprese italiane quest’anno si apre con un’affermazione impegnativa: sospendete il de profundis perché le nostre multinazionali tascabili non solo non stanno affondando ma si stanno dimostrando più che resilienti. Il campione di Mediobanca riguarda aziende manifatturiere a prevalente contributo familiare e accanto ai dati 2024 si giova di survey congiunturali realizzate tra marzo e aprile dell’anno in corso. Ma andiamo con ordine. Le nostre medie imprese hanno chiuso il 2024 con un limitato + 0,6% molto condizionato da un export (vivace) assestatosi a quota +3,3%. E il 2025?

Secondo le indagini di cui sopra la previsione delle vendite per l’anno che stiamo vivendo parla di un incoraggiante + 3%, composto da un + 2% sul mercato interno e di un +4% sull’export. Tutti dati che fanno dire a Gabriele Barbaresco, direttore Area Studi di Mediobanca che «le imprese del quarto capitalismo italiano restano con i piedi per terra, rimangono moderatamente ottimiste e ci danno una bella lezione di pragmatismo imprenditoriale».
Il pragmatismo lo si misura soprattutto nelle risposte alle domande che chiedono di dare una gerarchia alle sfide del nostro tempo e, a quelle che investono, l’andamento delle aziende. Non sono i dazi trumpiani, contro ogni attesa, a preoccupare maggiormente gli imprenditori delle multinazionali tascabili. Al primo posto, infatti, c’è la concorrenza di prezzo segnalata da più di due terzi del campione (67,8%), seguita ovviamente dal tormentato contesto geopolitico (53,4%) e subito dopo dai rincari energetici (49,3%). È interessante sottolineare come solo il 14,3% esprima timori per la qualità delle produzioni. Mettendo assieme tutti questi input se ne può facilmente dedurre che il nemico numero uno siano i cinesi e le loro prevedibili politiche di dumping finalizzate a riversare sui mercati europei (e non solo) i loro prodotti. 




















































La sfida di nuovi mercati

Ma è anche vero che il quarto capitalismo, nel riconoscimento soggettivo dei suoi protagonisti, ha saputo posizionarsi in alto nella scala del valore al punto da non temere più di tanto sia i dazi sia la concorrenza intellettuale. Il made in Italy, insomma, nell’auto-percezione degli imprenditori non dovrebbe veder eroso il suo vantaggio competitivo almeno per ciò che concerne la sua qualità e l’eventualità di una contraffazione.
Ma in questa situazione cosa devono fare le imprese per fronteggiare le novità che vengono dagli Stati Uniti e rischiano comunque di compromettere uno dei principali mercati di sbocco delle merci italiane? La risposta che le medie imprese di Mediobanca danno è propositiva: cercare nuovi mercati. Lo pensa il 68,2% superando coloro, altrettanto motivati, che sostengono la priorità dell’innovazione tecnologica (56,1%) o dei nuovi prodotti (54,1%). Anche questa è una dimostrazione di resilienza e indica comunque come il quarto capitalismo eviti di chiudersi a difesa delle sue postazioni ma guardi in avanti, a quelle che vengono considerate le nuove sfide. 

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Il valore aggiunto di un socio

Con una eccezione però: solo il 3,6% pensa che in questa fase sia utile o prioritario aprire il capitale a soggetti terzi. Infatti il 77% per investire conta sull’autofinanziamento e comunque il 70% dichiara di non avere problemi di accesso al credito. Sottolineano da Mediobanca come «aprire nuovi mercati» non voglia dire solo aumentare la penetrazione commerciale e rafforzare la rete puntando a nuove geografie, ma anche decidere di produrre in loco per essere più vicini al mercato finale e magari tagliare i tempi. Perché ovviamente, tra aggredire nuove geografie e insediarsi davvero, possono passare anche degli anni a causa anche di vincoli burocratici che i Paesi ospitanti (persino europei) continuano a utilizzare.

Gli altri dati

Fin qui Mediobanca. Ma i risultati del tradizionale report di piazzetta Cuccia sono spiazzanti o invece risultano condivisi dalla comunità degli osservatori dell’economia reale? La prima considerazione che si sente fare sembrerebbe in linea con quanto esce dall’indagine ed è anch’essa una considerazione pragmatica. Lo stock di liquidità che le imprese non finanziarie hanno depositato nel sistema bancario ammonta a 417 miliardi (a cui vanno aggiunti altri circa 100 miliardi da parte di famiglie produttrici dell’artigianato e del commercio) e sicuramente non è cifra da poco e che ci dice qualcosa di più sullo stato di relativa salute almeno di queste aziende. Sapendo che la dimensione, pur dentro il solo basket delle medie imprese, conta molto: nel campione più si va in alto in direzione delle medio-grandi più la liquidità, le performance e i giudizi risultano essere positivi. Il dato degli oltre 400 miliardi si sposa con la sensazione che la redditività delle medio-imprese resti comunque sostenuta, che la qualità del credito sia buona e che il numero degli Npl non sia segnalato in crescita. Qualche osservatore più spregiudicato sostiene che «tutto questo malessere delle imprese in fondo non c’è» grazie alla diversificazione dei mercati e alle vendite anticipate prima che scatti la tagliola dei dazi. Ma anche i più ottimisti aggiungono due caveat: mancano gli investimenti, almeno nelle dimensioni che servirebbero; conta la posizione che occupi nella filiera, se sei un subfornitore di un marchio sconosciuto è molto facile che tu vada in difficoltà.

Il fattore Cina

L’attenzione sui timori di concorrenza sleale asiatica, contenuti nel report, è sottolineata dall’economista Franco Mosconi, docente a Parma e studioso del modello emiliano, che riporta una testimonianza. «Mi ha colpito di recente come anche Sonia Bonfiglioli, presidente di una multinazionale tascabile, abbia sottolineato come il vero rischio per la nostra manifattura venga dai cinesi. Che hanno studiato un meccanismo per disarticolare la filiera industriale europea dall’interno: acquisire Pmi di lavorazioni meccaniche da qualche decina di milioni di euro per entrare nella filiera, usare fonderie cinesi, dichiarare prezzi sottocosto in dogana e rivendere in Europa con margini altissimi».

L’orizzonte indiano

Anche in chiave sociologica le valutazioni di Mediobanca trovano un ascolto attento. Sostiene il sociologo Aldo Bonomi, gran conoscitore dell’economia di territorio, che l’unico errore da evitare è di usare quei dati «in chiave consolatoria». Detto questo, esiste una fenomenologia della resilienza che cautamente prende il posto dell’indignazione per i dazi voluti da Donald Trump. «Trovo molti leader d’impresa che stanno ragionando su un nuovo posizionamento geopolitico. Sento parlare, ad esempio, molto di India. Certo, poi bisogna vedere quanto questo dinamismo riesce a produrre in tempi brevi dei veri flussi di commercio». Ma comunque si registra grande frenesia e basterebbe testarlo analizzando il cambio di prenotazioni dei voli da Malpensa, sostiene Bonomi.
Quanta India, per l’appunto, e quanto Dubai. E quest’orientamento coinvolge non solo le medie imprese ma anche gli artigiani più innovativi. «Si conferma il Dna dei nostri imprenditori, la loro capacità adattiva, sono agili a spostarsi».
Più in grande si può dire che «le nostre imprese stanno ridisegnando il loro spazio dentro una globalizzazione a pezzi e infatti hanno assorbito con capacità il venir meno del mercato russo».
Poi ovviamente contano tanto le variabili geopolitiche e secondo Bonomi senza un grande accordo Trump-Xi Jinping non si potrà uscire dalla stagione della Grande Incertezza.

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10 giugno 2025

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