Recentemente è salita agli onori della cronaca il caso di una coppia condannata per aver simulato una separazione coniugale con l’esclusivo fine di sottrarsi ai debiti fiscali. La vicenda è rimbalzata sulle testate giornalistiche nazionali destando non poco scalpore tra i lettori; eppure, negli ultimi anni, il fenomeno della finta separazione ha assunto proporzioni preoccupanti, attirando l’attenzione di creditori, Autorità fiscali e giudiziarie.
Questa pratica, che può apparire come una mera strategia di riorganizzazione familiare, in realtà viene utilizzata sempre più spesso per scopi ben diversi e più precisamente come escamotage per eludere il Fisco o per depauperare apparentemente il proprio patrimonio a danno dei creditori, anche erariali. La pratica è quella di simulare una separazione pur continuando a vivere insieme come una normale famiglia, dichiarando di essere separati, al solo fine di ottenere vantaggi fiscali o, come innanzi detto, per sottrarre i beni di uno dei coniugi all’azione esecutiva dei creditori. In casi del genere i soggetti coinvolti orchestrano un vero e proprio piano criminale che si compone di una serie di manovre fraudolente collegate tra loro da un unico fine ovvero quello di far sembrare reale una situazione che reale non è. Questo disallineamento tra realtà e apparenza, qualora sia generato da un accordo di separazione nel quale si prevedono trasferimenti patrimoniali volti a sottrarre uno dei 2 coniugi dalle pretese creditorie, dà luogo al perfezionarsi di un vero e proprio reato di natura fiscale conosciuto come reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte il cui testo è previsto dall’articolo 11, D.Lgs. 74/2000. È la stessa Corte di Cassazione a ribadirlo con la sentenza n. 8259/2025, sentenza che risulta di particolare interesse non solo perché i Supremi giudici, nel ricondurre la separazione fittizia nell’alveo del reato di sottrazione fraudolenta, hanno precisato che “gli atti hanno natura fraudolenta quando sono connotati da elementi di artificio, inganno o menzogna, tali da rappresentare a terzi una riduzione del patrimonio non corrispondente al vero, così mettendo a repentaglio la procedura di riscossione coattiva ”ma anche perché in questa vicenda gli Ermellini hanno riconosciuto ai social network un ruolo fondamentale conferendogli valore di prova decisiva. In particolare, immagini, commenti su Facebook e Instagram hanno smascherato la finta separazione, dimostrando che i coniugi continuavano a convivere e a condividere esperienze comuni come viaggi, cene e vacanze.
Il caso
Oggetto della pronuncia n. 8259/2025 emessa dalla III sezione penale della Corte di Cassazione è stato il ricorso di un imputato contro una sentenza della Corte d’Appello di Torino con la quale i giudici di seconde cure avevano confermato la decisione del Tribunale della medesima città, che aveva condannato una coppia di coniugi per il delitto di cui all’articolo 11, D.Lgs. 74/2000 poiché, al fine di evitare il pagamento di imposte sui redditi e Iva e di interessi e sanzioni amministrative avevano compiuto atti simulati e fraudolenti, idonei, tra l’altro, a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. L’Agenzia delle entrate aveva notificato un primo avviso di accertamento all’imputato, richiedendo il pagamento di 473.559 euro e un secondo avviso per un importo pari a 213.339 euro, il tutto per un totale di 700.000 euro. A distanza di un mese dalla notifica dell’atto gli imputati avevano promosso un procedimento di separazione personale e il marito aveva affittato un appartamento come nuova abitazione per dare prova dell’avvenuto divorzio. L’imputato dopo aver ricevuto il primo avviso, nonostante fosse titolare di un cospicuo patrimonio mobiliare e immobiliare, con il quale avrebbe potuto far fronte al pagamento almeno del primo debito erariale, si spogliava di tutti i suoi beni: intestava la sua Porsche Cayenne alla suocera e tra le condizioni della separazione, si impegnava a trasferire alla moglie il 100% di un immobile a titolo di contributo una tantum al mantenimento. Altresì, corrispondeva in contanti una certa somma nell’ambito della compravendita di un’autovettura acquistata a nome della moglie. Sottoposto il caso al vaglio del Supremo Consesso, la Corte non ha potuto fare altro che confermare la sentenza di II grado sottolineando, in particolare, la sussistenza di una pluralità di indizi gravi, precisi e concordanti che provavano senza alcun dubbio i fatti in contestazione e, in particolare, la natura fraudolenta della separazione e del successivo divorzio tra i coniugi imputati. A parere degli Ermellini, la Corte d’Appello aveva ben evidenziato tutti quegli elementi da cui si evinceva palesemente la persistenza di una comunione di vita e di interessi tra i coniugi, contrariamente a quanto accade nel caso di una reale separazione coniugale. Diversi gli elementi che avevano destato perplessità negli inquirenti: il ricorso per la separazione tra gli imputati iscritto a ruolo dopo poco più di un mese dalla notifica di un avviso di accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria al marito, la funzione di referente svolta da quest’ultimo durante le trattative nell’ambito dell’acquisto dell’abitazione da parte della moglie, il normale mantenimento di comuni relazioni con amici e familiari e ancora i viaggi, le cene e le vacanze della coppia, dopo la separazione, tutte documentate sulle pagine dei social. Tutte queste circostanze hanno fatto sì che i giudici d’appello prima e di cassazione poi, ritenessero di fatto ancora sussistente l’unione tra gli imputati e che la loro separazione fosse solo un tentativo per sottrarsi alla procedura di riscossione coattiva. Vani i tentavi della difesa di sottrarsi a una condanna penale nonostante i molteplici e articolati motivi di diritto formulati in ricorso.
Finte alienazioni e reato di sottrazione fraudolenta
Tra le doglianze della difesa quella che merita un approfondimento per una lettura più consapevole della decisione in esame vi è sicuramente la contestata natura fraudolenta della separazione e l’impossibilità conseguenziale, a dire degli imputati, di far rientrare la condotta oggetto di giudizio nel raggio di azione dell’articolo 11, D.Lgs. 74/2000. Per comprendere come e perché la Corte ha disatteso l’eccezione sollevata dai ricorrenti risulta necessario un approfondimento degli elementi essenziali del reato che non può prescindere da una preliminare e attenta lettura della norma in esame. Ai sensi dell’articolo 11, comma 1, D.Lgs. 74/2000 è punito “con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”. Fondamentale nell’analisi della disposizione risulta l’individuazione del bene giuridico tutelato che, nel caso di specie, coincide con l’integrità della garanzia del pagamento dei debiti tributari, garanzia costituita dai beni di proprietà del contribuente. Sebbene nella norma venga utilizzato il termine “chiunque”, quello in esame è un reato proprio, ossia un reato che può essere commesso solo da determinati soggetti quali i contribuenti obbligati al pagamento delle imposte unici a poter agire con il dolo specifico di sottrarsi all’adempimento dell’obbligazione tributaria. A differenza di quanto accadeva in passato, oggi il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è considerato reato di pericolo e non più di danno in quanto la disposizione che lo prevede non richiede più che la condotta dell’agente abbia cagionato un danno effettivo in capo all’Erario ma ritiene sia sufficiente l’idoneità di tale condotta a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Questa precisazione risulta particolarmente importante in quanto l’attività di indagine dovrà tener conto delle circostanze esistenti al momento in cui la condotta è stata posta in essere valutando se nelle condizioni all’epoca esistenti l’attività compiuta abbia effettivamente messo in pericolo il buon esito della procedura esecutiva. In altre parole, così come più volte affermato dagli Ermellini, il giudizio di idoneità dovrà essere formulato effettuando una valutazione ex ante, ovvero calibrata sulla situazione e sulle pretese conoscenze del contribuente al momento nel quale ha posto in essere le attività contestate.
Fondamentale risulta poi la corretta individuazione del concetto di “atti fraudolenti” da effettuarsi in un’ottica di omogeneità sistematica che porta l’interprete a riferirsi con tale termine a tutti quegli atti capaci di creare un disallineamento tra la situazione giuridica apparente e quella reale, disallineamento che a sua volta dev’essere idoneo a pregiudicare il buon esito della procedura esecutiva. Questa dilatazione della categoria ha fatto sì che la tendenza interpretativa attuale consideri fraudolento anche l’utilizzo di strumenti giuridici che, pur essendo in sé astrattamente legittimi, sono in realtà concretamente utilizzati in maniera abusiva, ossia con lo specifico scopo di compromettere la garanzia patrimoniale su cui l’Erario fa affidamento per soddisfare le proprie pretese.
Ovviamente, affinché ci sia un intento fraudolento è necessaria, da parte del soggetto agente, la consapevolezza di una sua posizione debitoria ed è per questo che il reato in parola può dirsi integrato solo se le condotte di cui sopra siano state tenute in un momento in cui l’obbligazione tributaria era già sorta. È altresì prevista una soglia di punibilità: il debito nei confronti dell’Erario deve superare l’ammontare di 50.000 euro: al di sotto di tale soglia, dunque, la condotta del contribuente, anche se in ipotesi conforme al modello descritto dalla norma incriminatrice, non è punibile. L’unico importo che rileva è quello del debito tributario; è invece irrilevante il valore del bene oggetto dell’atto simulato o fraudolento, purché si tratti di un bene la cui fuoriuscita dal patrimonio del debitore rischi di pregiudicare il soddisfacimento della pretesa erariale. In linea con questo nuovo approccio interpretativo della norma in esame i giudici di legittimità più volte hanno così affermato che possano rientrare nell’ambito applicativo della disposizione in esame operazioni societarie straordinarie come, cessioni di crediti, affitti o cessioni di azienda e non solo.
Con specifico riferimento al caso in esame, infatti, proprio la Corte di Cassazione con la ormai nota sentenza n. 32504/2018 ha esplicitato che anche la “separazione simulata” può integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, se i trasferimenti di patrimonio sono realizzati al fine di eludere la normativa tributaria.
Anche in quell’occasione, la vicenda sulla quale la Corte di Cassazione fu chiamata a pronunciarsi riguardava un contribuente che nell’ambito di un accordo di separazione aveva trasferito un immobile di sua proprietà alle figlie minori a titolo di contributo del loro mantenimento e anche in quel caso l’Agenzia delle entrate sostenne che la separazione era stata simulata al fine di sottrarre i beni per il recupero delle imposte. Gli Ermellini investiti della questione sancirono che nell’alienazione simulata rientrano anche i trasferimenti a titolo gratuito chiarendo, così, che il reato di sottrazione fraudolenta può essere integrato con ogni atto di disposizione del patrimonio. Per i giudici del Palazzaccio il presupposto della fraudolenza era riconducibile all’evidente dissociazione tra la realtà documentata, rappresentata dalla separazione e quella effettiva in cui persisteva l’unione dei coniugi. Da tale principio ne derivava la logica conseguenza che nel novero del reato di sottrazione fraudolenta oltre al fondo patrimoniale, la scissione societaria e la cessione di azienda, vi doveva rientrare anche la separazione consensuale. Orbene, anche nel caso oggetto di questa disamina, è apparso subito evidente che la separazione giudiziale intercorsa tra i 2 coniugi e il connesso trasferimento dell’immobile alla moglie fossero caratterizzati da uno schema fraudolento finalizzato a pregiudicare la garanzia patrimoniale dell’Erario. Infatti, la lesione del bene giuridico protetto dalla norma si è protratta dalla commissione del reato di cui all’articolo 11, D.Lgs. 74/2000 alla cessione dell’immobile, oltre che alla persistenza della convivenza more uxorio tra i 2 coniugi, nonostante l’intervenuto scioglimento del vincolo matrimoniale. La presenza, poi, dell’elemento soggettivo del reato, rappresentato dal dolo specifico, si è chiaramente palesata anche nella condotta della moglie la quale, non solo si era resa parte di una finta separazione e di un finto divorzio, oltre che intestataria di diversi beni del marito, ma ha addirittura coinvolto la propria madre. Il ruolo attivo della donna ha pertanto spinto i Supremi giudici a condannare per il medesimo reato sia il marito, quale debitore di imposta, sia la moglie in qualità di concorrente.
Il valore probatorio dei social
In vicende come quella che qui ci occupa, qualora ci siano profili di dubbia legalità, le Autorità preposte al controllo fiscale e ai sussidi sociali hanno sviluppato diversi metodi per individuare i casi di divorzio finto e di separazione consensuale simulata. Gli strumenti utilizzati per raggiungere la prova dell’illecito sono le indagini patrimoniali e fiscali attraverso le quali l’Agenzia delle entrate e la G. di F. possono verificare i flussi finanziari tra ex coniugi e controllare anomalie nei conti bancari, i controlli incrociati utilizzati per confrontare le informazioni sui nuclei familiari con i dati delle dichiarazioni dei redditi e delle residenze anagrafiche ma anche le indagini sui social che spesso e volentieri diventano lo specchio delle nostre vite. A questi strumenti hanno fatto ricorso gli inquirenti per stabilire se nella vicenda esaminata si potessero ravvisare o meno gli elementi del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Al di là di alcune circostanze sospette quali le tempistiche con cui la separazione ha seguito immediatamente la notifica di uno degli avvisi di accertamento, l’attenzione dei giudici in questo caso si è concentrata sullo stile di vita dei coniugi dopo la separazione.
La routine quotidiana, la frequentazione degli stessi amici e parenti, l’invariata condivisione delle spese, hanno ovviamente destato non pochi dubbi sulla reale situazione coniugale ma la conferma che la coppia aveva inscenato una finta separazione per sottrarsi ai propri obblighi erariali è giunta proprio dai social e in particolare da Facebook.
Non è la prima volta che i giudici si avvalgono dei social come prove su cui fondare le proprie decisioni; la produzione in giudizio di fotografie e informazioni personali tratte dai profili sul noto social network è una evenienza sempre più frequente proprio nei giudizi di separazione e divorzio nonché in quelli per la modifica delle condizioni già stabilite, in cui dette allegazioni sono chiaramente funzionali a fornire al Tribunale ulteriori elementi indiziari relativamente a condotte di infedeltà coniugale o contrarie ai doveri matrimoniali, o ancora all’effettivo tenore di vita dell’altro coniuge o, come in questo caso, a finte separazioni coniugali. Contrariamente a quanto potrebbe inizialmente ritenersi, dette risultanze non sono considerate come prove atipiche, bensì vere e proprie prove documentali sussumibili nell’alveo applicativo dell’articolo 2712, cod. civ. quali riproduzioni o rappresentazioni su supporto cartaceo o informatico di fatti e di cose capaci, sempre più spesso, di provare in modo inconfutabile elementi e circostanze fondamentali per le decisioni. Questo è proprio quanto accaduto con la sentenza n. 8259/2025 laddove le foto, i post, e i commenti sui social network hanno giocato un ruolo importantissimo nella decisione dimostrando in modo inconfutabile la prosecuzione della vita coniugale tra gli imputati e quindi la condotta fraudolenta tenuta dalla coppia a danno dei creditori.
Conclusioni
La giurisprudenza italiana sta diventando sempre più severa nel punire comportamenti che, pur travestiti da legittimità, celano intenti illeciti; in quest’ottica la sentenza in commento rappresenta un monito della Corte per tutti coloro che, in cerca di scorciatoie fiscali, ritengono di poter ingannare l’Erario attraverso l’utilizzo di strumenti legittimi quale può essere la separazione coniugale o anche un fondo patrimoniale.
Il confine tra pianificazione fiscale lecita e frode è molto labile, pertanto, prima di intraprendere qualsiasi azione legale o fiscale, i contribuenti devono valutare attentamente le motivazioni alla base di ogni loro scelta tenendo ben presente che le operazioni di questo tipo, mettono a rischio non soltanto il patrimonio del contribuente, ma anche la sua libertà personale.
Infatti, la simulazione di atti civilistici, come nel caso di una separazione fittizia, può determinare importanti e gravi conseguenze legali compresa la possibilità di affrontare un processo penale. Il trasferimento di beni a familiari, specialmente in contesti di separazione o divorzio, deve sempre essere giustificato da motivazioni valide e concrete; in caso contrario il rischio è quello di incorrere in accertamenti penali coinvolgendo anche soggetti diversi dal contribuente. Sarà, inoltre fondamentale, tener ben presente che, come evidenziato dalla sentenza n. 8259/2025, sebbene il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte sia un reato proprio questo non esclude che vi sia anche il coinvolgimento di terzi a titolo di concorso. Ciò significa che laddove venga accertata, come nel caso di specie, la consapevolezza nonché la volontà dell’extraneus di agire in frode alla legge, sarà inutile fare appello alla natura propria del reato in questione. Infine, a conclusione di siffatta disamina, va aggiunto che se nel caso in esame il terzo complice alla realizzazione del reato è stato il coniuge non di rado la realizzazione della condotta criminosa riconducibile all’articolo 11, D.Lgs. 74/2000 viene realizzata con altri strumenti e con l’intervento di professionisti che per far fronte a momenti di difficoltà del cliente elaborano assieme a quest’ultimo soluzioni volte a svuotare il patrimonio per eludere le pretese creditorie. In questi casi a rischiare con il contribuente ci sono i professionisti del settore, come avvocati, commercialisti e consulenti che hanno una responsabilità cruciale. Il loro compito, infatti, consiste nell’operare con la massima attenzione e diligenza, valutando la coerenza tra gli atti giuridici e le reali intenzioni delle parti coinvolte; diversamente, l’ideazione e la realizzazione di un vero e proprio piano elusivo farà sì che il professionista si renda complice del reato. La vigilanza professionale, dunque, si rivela essenziale per garantire che le pratiche fiscali siano eseguite in conformità con la legge, evitando di cadere nelle trappole dell’elusione.
La decisione n. 8259/2025 ci introduce, però, anche nella delicata problematica riguardante il corretto utilizzo di strumenti come Facebook o Instagram.
E invero, per quanto riguarda i social network e il loro valore probatorio, la giurisprudenza di merito ha valutato che, sebbene l’accesso ai contenuti sui social sia limitato secondo le impostazioni date dal singolo utente, si deve ritenere che ciò che viene pubblicato non possa essere considerato riservato in quanto destinato a essere conosciuto da terzi, anche se limitatamente alla cerchia delle amicizie.
Diversamente vale per il servizio di messaggistica quali le c.d. chat private, che sono equiparabili alle forme di corrispondenza privata. La sentenza in commento induce a riflettere su come la digitalizzazione ha rivoluzionato ogni aspetto della nostra vita quotidiana; gli strumenti digitali sono utilizzati ovunque e lo stesso processo, concepito come strumento per accertare fatti e responsabilità, si è adeguato a una nuova realtà. I predetti mezzi digitali sono ormai inevitabilmente utilizzati anche nei contenziosi, soprattutto in quelli familiari, per dare prova dei fatti e delle circostanze poste a fondamento delle richieste delle parti. Fotografie e informazioni pubblicate sul profilo personale del social network sono quindi utilizzabili come prove documentali ma con particolari cautele. Le risultanze prodotte in giudizio dovranno, infatti, essere apportate nella misura minima necessaria, essere pertinenti e commisurate al diritto invocato; sono dunque da evitare produzioni di dati personali irrilevanti e/o sovrabbondanti rispetto all’oggetto del giudizio. In tale ottica è consigliabile evitare fotografie, laddove irrilevanti, ritraenti minori o terzi non di interesse ai fini del giudizio, magari avendo cura di oscurarne il volto o il nominativo laddove trascritto. Alla luce di tali precisazioni, pertanto, in un’ottica processuale, sarà opportuno che la difesa in giudizio sia particolarmente attenta affinché vengano rispettati i doveri di pertinenza, rilevanza, misura e correttezza da valutarsi sulla base di un costante bilanciamento di prevalenza tra l’esigenza difensiva e l’interesse alla riservatezza.
Si segnala che l’articolo è tratto da “Accertamento e contenzioso”.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link