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SCENARIO CRISI/ “L’alternativa dell’Italia all’austerità per far ripartire imprese, salari e Ue”


Mentre cade il Governo in Olanda e in Polonia le presidenziali hanno visto il candidato filoeuropeista Rafal Trzaskowski sconfitto dal sovranista Karol Nawrocki, l’economia mondiale, secondo le previsioni dell’Ocse, è destinata a rallentare ancora, sfiorando mediamente il 3%: un livello da cui l’Eurozona (+1% quest’anno) appare molto lontana. E non certo per un caso.

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Come spiega Gustavo Piga, professore di Economia politica all’Università di Roma Tor Vergata, «dopo il voto in Romania, nell’Ue ci si era illusi che fosse tutto a posto, ma da uno Stato membro più importante è arrivato un segnale chiaro su quanto il progetto europeo si stia distaccando dalle necessità dei cittadini, specialmente i più deboli e dimenticati dalle iniziative di Bruxelles, come gli artigiani, i piccoli imprenditori, i disoccupati che, tramite un voto, come quello che ha premiato Nawrocki, esprimono un bisogno che in questo momento non viene tenuto da conto da istituzioni poco rappresentative come quelle dell’Ue. E questa situazione è pericolosa per tutto il continente».



Cosa intende dire?

Provo a spiegarmi con un’immagine che mi è venuta in mente in questi giorni guardando il cielo: si possono notare tante rondini, ma ci sono anche i rondoni, che non si posano mai a terra, perché la loro conformazione – ali lunghe e zampe corte – rende impossibile spiccare il volo da terra. Anche l’Europa, dal secondo dopoguerra in poi, come un rondone ha volato alto, ma ora rischia di finire a terra, come ricordano le stime dell’Ocse, e non riprendersi più. Un rischio che corre anche il nostro Paese leggendo il Rapporto stilato dal Fondo monetario internazionale al termine della missione ex articolo IV del suo Statuto e diffuso a fine maggio.

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Cosa c’è scritto in quel Rapporto?

Che nel 2024 l’Italia ha ottenuto il ritorno all’avanzo primario e dovrebbe continuare su questa strada, considerata essenziale per riportare il rapporto debito/Pil su una traiettoria discendente. Mi fa specie che il Fmi, che dovrebbe cavarsela bene coi numeri, sostenga questa tesi quando dal 2023 al 2024 il rapporto debito/Pil italiano è cresciuto dal 134,6% al 135,3%, anziché diminuire in virtù dell’avanzo primario conseguito. E non è tutto.

Cosa c’è d’altro?

Il Fmi sostiene che dovremmo arrivare a un avanzo primario pari al 3% del Pil nel 2027, con uno sforzo persino superiore a quello indicato nel Piano strutturale di bilancio approvato lo scorso anno. Possiamo immaginare che politiche restrittive andrebbero messe in atto per ottenere un risultato del genere, soprattutto considerando che il Fmi ritiene che qualsiasi aumento della spesa per la difesa dovrebbe essere interamente compensato da risparmi su altre voci di bilancio. Di fatto questo è un programma per una rivoluzione sociale nelle piazze.

Quale può essere l’alternativa alle raccomandazioni del Fmi?

Ci sono almeno due alternative, che la scorsa settimana abbiamo visto ben rappresentate dalle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia e dalle parole del Presidente di Confindustria nel corso dell’Assemblea annuale.

Cominciamo dall’alternativa rappresentata dalle Considerazioni finali della Banca d’Italia.

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Il Governatore Panetta ha in parte ripreso le argomentazioni del Fmi. Ha detto, infatti, che “le nuove regole europee hanno restituito alla politica di bilancio un orizzonte di medio periodo, contribuendo ad ancorare le aspettative degli investitori. Il Piano strutturale di bilancio di medio termine, pubblicato lo scorso autunno, delinea un percorso del debito coerente con questo nuovo impianto. Il Documento di finanza pubblica 2025, approvato in aprile, ha confermato che si procede lungo quella traiettoria”.

Dal suo punto di vista, “è fondamentale assicurare la continuità di questo cammino anche in caso di indebolimento del quadro macroeconomico”. Non so se sia sadismo o masochismo, sta di fatto che è una frase estremamente grave.

Dov’è che la posizione di Bankitalia rappresenta un’alternativa allo scenario delineato dal Fmi?

Per via Nazionale bisogna sì continuare a perseguire gli avanzi primari di bilancio, ma occorre anche “emettere debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei”. La Banca d’Italia si schiera, quindi, nel partito di coloro che vedono nelle soluzioni provenienti da Bruxelles il toccasana per evitare la crisi, tramite una cessione di sostanziale potere decisionale alla Commissione europea rispetto all’allocazione delle risorse. C’è, però, un problema.

Quale?

sappiamo bene che ci sono delle resistenze nazionali, come dimostra il voto polacco, a cedere sovranità. E vediamo anche che Stati più importanti, come la Germania, usano la loro autonomia per spendere come meglio credono. Al momento, quindi, progetti come il debito comune, che potranno essere importanti un giorno in cui potranno essere realizzati perché l’aggregazione politica lo consentirà, hanno come unico effetto un totale immobilismo: si resta in attesa di scelte che nessuno vuole realmente compiere e questo non fa altro che rafforzare il sentimento anti-europeo tra i cittadini in difficoltà.

Passiamo ora alla seconda alternativa, rappresentata dalle parole del Presidente di Confindustria.

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Nel suo discorso all’Assemblea annuale, la politica fiscale europea viene chiaramente identificata come il colpevole principale della situazione di debolezza in cui si trova l’Italia, come del resto tutta l’Ue. Parla, infatti, dell’attuale configurazione del Patto di stabilità e crescita appena riformato come di “un patto per il declino dell’Europa”.

Orsini ha parlato della necessità di un piano industriale straordinario europeo.

Dal suo punto di vista occorre che il Patto di stabilità consenta “un grande piano di sostegno agli investimenti dell’industria, in ogni Paese europeo”. Oltretutto ha ricordato che “dobbiamo darci un obiettivo di crescita ambizioso: raggiungere almeno il 2% di crescita del Pil nel prossimo triennio, da consolidare e aumentare nel tempo. Una crescita da raggiungere investendo in spesa pubblica produttiva, a partire dalle infrastrutture”.

Dunque, la proposta è quella di una politica fiscale espansiva in ogni singolo Paese dell’Ue e immediata. Ha detto, infatti, che “dobbiamo partire subito; in attesa di un possibile New Generation EU per l’industria, dobbiamo trovare le risorse per iniziare”.

In questo senso ha parlato della necessità di un piano di sostegno agli investimenti da 8 miliardi l’anno per almeno tre anni. Una cifra non semplice da trovare…

In realtà, c’è una riforma che consentirebbe di trovare le risorse che occorrono, una riforma che il Fmi non cita nel suo Rapporto nonostante quasi un terzo di quella spesa pubblica che generiamo ogni anno e che vale il 50% del Pil sia legata agli appalti. Tutta la nostra attenzione dovrebbe essere dedicata a rendere la capacità di spesa per appalti efficiente ed efficace: bisogna riorganizzare le stazioni appaltanti e investire sulla loro competenza con migliori dipendenti pubblici.

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Dunque, l’alternativa ideale alla ricetta del Fmi è quella delineata da Confindustria?

Il messaggio di Confindustria è quello giusto, non si scontra con l’immobilismo sul debito comune europeo e non è nemmeno corporativo dal momento che c’è un richiamo a una possibile alleanza con i sindacati. Infatti, per aumentare la competitività si può scegliere di comprimere i salari o di aumentare la produttività. La stessa Confindustria riconosce che il livello del potere d’acquisto delle retribuzioni italiane “è un problema nazionale”, quindi occorre alzarle agendo sulla produttività, che non è una parola vuota.

Cosa significa concretamente?

Vuol dire investire per permettere ai lavoratori di produrre di più avendo accanto macchine, conoscenze, capitale umano per lavorare meglio. È possibile arrivare a un patto per la produttività tra sindacati e imprese per accordarsi su questo tipo di investimenti, per i quali è essenziale un terzo attore al tavolo: lo Stato che effettua investimenti pubblici, segue con ottimismo l’investimento privato che genera produttività, in modo che si possano poi aumentare i salari e non solo i profitti derivanti dalla maggiore competitività. Il tutto porta a una crescita dell’economia che, a differenza delle ricette sbagliate del Fmi, può realmente abbattere il rapporto debito/Pil.

Confindustria punta, però, a un sostegno dello Stato agli investimenti delle imprese…

Non soltanto. Il Presidente Orsini ha parlato della necessità di una spesa pubblica produttiva, a partire dalle infrastrutture, di cui le imprese hanno bisogno per arrivare meglio e più velocemente ai mercati di sbocco, per accedere a tecnologie che possono migliorare le loro performance o per avere energia a prezzi più bassi.

A livello europeo basterebbe avere la possibilità di sforare i parametri per quel tipo di investimenti?

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Giustamente il Presidente di Confindustria ha detto che “non è possibile che l’unica eccezione per sforare il Patto di stabilità sia relativa alla spesa per la difesa”. Dunque, occorre poter sforare su altri capitoli. Del resto non si può avere un’industria forte senza una sanità forte, un’istruzione forte, una sicurezza forte: dovremmo poter investire di più in ogni comparto della Pubblica amministrazione.

Il contesto di potere relativo dell’Italia rispetto a quando ha scelleratamente dato il via libera alle nuove regole del Patto di stabilità è cambiato: il nostro Paese appare più forte sullo scenario internazionale sia per la sua alleanza con gli Stati Uniti, sia perché altrove in Europa ormai il populismo dilaga.

L’Italia dovrebbe, quindi, proporre un cambiamento delle regole fiscali europee?

L’Italia non deve creare un tavolo europeo dove discutere di tutto questo, non c’è tempo: deve procedere quanto prima. La Meloni dovrebbe contribuire a dar vita a un patto straordinario per la produttività tra Stato, imprese e sindacati e ancorare la politica fiscale espansiva destinata agli investimenti pubblici a una qualità della spesa che farà da garante della bontà del risultato finale.

Nessuno avrà da ridire? Nemmeno la Germania?

Difficilmente i tedeschi potranno impedire l’attuazione di questo piano. In primo luogo, perché sono politicamente deboli. Inoltre, loro stessi si sono mossi autonomamente, consapevoli che non mettono in difficoltà le finanze pubbliche se effettuano investimenti pubblici, perché la crescita che ne deriverà aiuterà a diminuire il rapporto debito/Pil. La Francia, invece, è estremamente debole in questo momento. Oggi che abbiamo bisogno di una propositività diversa da quella tecnocratica di Bruxelles, l’Italia può diventare diventare un benchmark per fornire indicazioni su come fare in modo che il rondone Ue continui a volare.

(Lorenzo Torrisi)

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