Secondo l’Istat, in Italia ci sono un milione di posti di lavoro in più rispetto a 20 anni fa, creati o favoriti dal Jobs act. Prendendo in considerazione gli effetti della riforma al suo stato “naturale”, ovvero senza i correttivi introdotti decreto “Dignità” e dalle sentenze dalla Corte costituzionale (tutte nella direzione di una maggiore tutela dei lavoratori), i posti di lavoro in Italia, sempre secondo l’Istat, sarebbero cresciuti di circa un milione.
Tuttavia, va chiarito che secondo l’Istituto “occupati” e “posti di lavoro” non sono sinonimi, laddove la categoria degli occupati risulta essere molto più ampia. Inoltre, questo tipo di analisi non si presenta scevra da ambiguità, in quanto il problema principale è la difficoltà nello stabilire un rapporto di causa-effetto tra l’introduzione (o l’abrogazione) di una misura e l’aumento (o la diminuzione) di indicatori economici, come in questo caso il numero degli occupati (per leggere gli altri articoli sui referendum, clicca qui).
Qual è stato il reale impatto del Jobs act in italia?
Per comprendere davvero l’impatto che il Jobs act ha avuto sugli occupati in Italia è necessario senza dubbio uno studio più accurato. Ci affidiamo a tre di essi per avere un quadro il più oggettivo possibile.
Il più noto stato pubblicato nel 2019 dagli economisti Pietro Garibaldi e Tito Boeri, quest’ultimo presidente dell’Inps al tempo dell’approvazione del Jobs act. I due studiosi hanno confrontato gli effetti del Jobs act sulla dinamica occupazionale tra le imprese con più di 15 dipendenti e quelle con meno di 15 dipendenti. Il risultato dello studio mostra che il Jobs act ha aumentato il numero di contratti a tempo determinato del 60%.
Secondo il giornale online Pagella Politica, uno studio specifico compiuto nel 2018 sulla regione Veneto da Paolo Sestito ed Eliana Viviano, economisti della Banca d’Italia, mostra che il Jobs act ha avuto un impatto significativo sulla crescita occupazionale, sia grazie al contratto a tutele crescenti sia grazie alla decontribuzione, ma questo a fronte di una minor selezione dei lavoratori, concentrata per lo più in specifici settori produttivi a bassa specializzazione. In generale gli studi sono concordi nel ritenere che il Jobs act abbia avuto, sì, un impatto positivo sull’occupazione, limitato però in alcuni ambiti.
Uno studio del Fondo monetario internazionale e della Banca d’Italia ha preso in esame gli effetti delle riforme del mercato del lavoro nel periodo 1985-2016, giudicando addirittura “sconcertante” la debole crescita italiana della produttività del lavoro. La responsabilità sarebbe da attribuire alla diffusione di lavori atipici e precari, che riducono la spinta delle imprese a investire sulla formazione, soprattutto dei giovani, con conseguente “riduzione dell’accumulazione di capitale umano”, come ha ribadito anche il nuovo governatore Panetta a Palazzo Koch.
Verso il lavoro stabile. La precarietà e un’Italia che cambia
La sfida dell’Italia nella concorrenza europea adesso appare tutta lì. Infatti, Confindustria e i centri studi di grandi agenzie interinali come l’olandese Randstadt mettono in evidenza la necessità di maggiore fiducia tra dipendente e azienda, di maggiori investimenti nella formazione, nel “reskilling” o “upskilling”. Spiegano che la difficoltà nel reperimento della manodopera, soprattutto per quanto riguarda i profili tecnici, passa per la capacità delle aziende di essere attrattive con lavori stabili, meglio retribuiti, welfare aziendale, orari flessibili e ridotti a parità di salario e possibilità di smart working.
In conclusione?
Gli incentivi economici e i voucher hanno funzionato per un tempo limitato, specie in quei contesti territoriali del Paese particolarmente favorevoli, con un’elevata densità di piccole-medie aziende (centro-nord, nord-ovest e nord-est), ma tutto questo non ha prodotto a medio-lungo termine per il sistema Paese né ricchezza occupazionale, né economica.
Anzi, anche laddove si è avuto l’aumento dell’occupazione stabile, tramite l’aumento del numero di contratti a tempo indeterminato, è avvenuto in concomitanza con lo sgravio fiscale del 2015, che prevedeva oltre il 30% di sgravi nel primo dei tre anni. Pertanto, a diminuire il lavoro precario è stata la riduzione del costo del lavoro più che il contratto a tutele crescenti). L’Istituto nazionale politiche pubbliche (Inapp), ha dimostrato che «la drastica riduzione del costo del lavoro dovuto all’esonero contributivo ha certamente giocato un ruolo decisivo», ma una volta finiti gli effetti di questo sgravio fiscale, le aziende hanno ricominciato ad assumere lavoratori con contratti a termine, a discapito del contratto a tempo indeterminato e di quello a tutele crescenti. Senza un incentivo monetario, sempre secondo gli studi, il contratto a tutele crescenti non sarebbe riuscito a garantire di per sé un’occupazione stabile.
Ne è valsa la pena?
Sin qui effetti e controeffetti, pesi e contrappesi, su tutele dei lavoratori e boccate d’ossigeno per le aziende. La realtà ci pone davanti a diversi quesiti: è valsa la pena di produrre un aumento della precarietà, distribuendo sussidi pubblici alle imprese per le assunzioni? Ancora, si può affermare che “le mosse del cavallo”, avanzate in questo meccanismo, abbiano contribuito a dare scacco all’attuale situazione economica del nostro Paese? Infine, la domanda delle domande: più che fallimento del Jobs act possiamo affermare, serenamente, che siamo di fronte anche a nuove esigenze perché il ciclo economico è cambiato e la precarietà non per scelta ma in un certo senso imposta e subita, che ha contraddistinto l’Italia soprattutto nell’ultimo decennio, oltre che ingiusta, non è nemmeno più funzionale né alle imprese, né alla vita delle lavoratrici, dei lavoratori e delle loro famiglie?
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