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UE contro USA. Quale futuro per la guerra commerciale? L’impatto sull’Italia


La guerra dei dazi che Trump ha scatenato contro il mondo, senza risparmiare UE e Italia, continua a seminare incertezza nel commercio globale. Le dinamiche cambiano quasi ogni giorno, tra minacce di nuove tariffe, toni aspri e poi improvvisi passi indietro più concilianti dalla Casa Bianca.

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L’ultima novità in arrivo dagli USA riguarda una diatriba giuridica: un tribunale commerciale statunitense ha bloccato la maggior parte dei dazi imposti da Trump con una sentenza storica, secondo la quale il presidente ha oltrepassato i limiti del suo potere, imponendo tariffe generalizzate sulle importazioni che solo il Congresso ha la facoltà di stabilire. Poi, però, un corte d’appello federale ha sospeso questo provvedimento ripristinando temporaneamente i dazi. Il clima è caotico.

Mentre investitori, analisti e imprese di tutto il mondo attendono altri colpi di scena, il contesto economico appare già copromesso da questa ondata di misure tariffarie introdotte ad aprile. Paesi in cerca di nuove rotte commerciali, aziende in preda a incertezza sul prossimo futuro, prospettive economiche offuscate da potenziali aumenti dei prezzi e diminuzione degli scambi: questi sono soltanto alcuni dei riflessi dello tsunami dazi.

Un accordo solido e funzionale alle imprese è davvero possibile tra USA e UE? Quale effetto sul sistema economico e produttivo italiano delle tariffe in corso e di quelle future? Queste sono soltanto due delle tante domanda che ci si pone in questa delicata fase economica per l’Europa e per il nostro Paese.

Per avere una bussola e orientarsi in un contesto così complesso e incerto, Money.it ha chiesto a Lucia Iannuzzi e Paolo Massari – consulenti doganali e co-fondatori delle società C-Trade e Overy – di fare il punto e offrire un’analisi sull’attuale guerra dei dazi.

L’Italia e le imprese dinanzi ai dazi: l’impatto in numeri

L’Italia è pienamente coinvolta nella guerra dei dazi di Trump, considerando innanzitutto che il 10% circa di export italiano è diretto negli USA. Ma come si traduce questo in termini di impatto economico?

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I due esperti Iannuzzi e Massari fanno notare innanzitutto che, secondo gli ultimi dati pubblicati all’inizio del mese dall’Italian Trade Agency di New York, nel 2024 le esportazioni italiane verso gli USA possono essere valutate in 76 miliardi di dollari, con una crescita del 17,86% rispetto all’anno precedente. Poiché le importazioni dagli Stati Uniti, nel medesimo periodo, si sono attestate a 32 miliardi di dollari, la bilancia commerciale sugli scambi di beni è a noi favorevole per circa 44 miliardi di dollari.

Gli USA sono il secondo mercato di destinazione dei nostri beni, dopo la Germania e la nostra presenza sul suolo statunitense vale circa il 2,3% di quel mercato con cinque i settori principali: meccanica, chimica e

farmaceutica (il cui volume di esportazioni è cresciuto di oltre il 31% rispetto all’anno precedente), moda e accessori (in leggero calo), agroalimentare e bevande, trasporti, sottolineano i consulenti.

E ancora: le regioni italiane maggiormente votate al mercato americano sono Lombardia. Emilia-Romagna, Toscana. I dati aggregati UE, pubblicati dalla Commissione europea, parlano di rapporti commerciali, nel mercato dei beni, che hanno raggiunto, sempre nel 2024, 865 miliardi di euro. La UE ha esportato 531,6 miliardi di euro di beni nel mercato statunitense, importandone per 333,4 miliardi, con un surplus a proprio vantaggio di 198,2 miliardi di euro.

“I numeri non sono tutto, ma mostrano molto”, commentano Iannuzzi e Massari. “Mostrano che gli USA sono, per l’Italia come per tutti gli altri Paesi maggiormente industrializzati, uno sbocco importante e privilegiato: il Presidente Trump lo sa molto bene e usa questa posizione di vantaggio come arma nelle minacce e nelle trattive commerciali”.

E mostrano anche che la politica daziaria costituisce un serio pericolo, in assenza di un mercato disposto ad assorbire, almeno in parte, l’impatto della tassazione sulle importazioni, su questo sono chiari gli esperti: “A inizio anno si parlava degli effetti dell’introduzione di un dazio del 10% quantificabili in un aggravio, per le imprese italiane, compreso tra 4 e 7,5 miliardi di euro; il che determinerebbe una contrazione delle vendite difficilmente sopportabile, in assenza di valide alternative”.

Le sfide per l’export del Made in Italy

Iannuzzi e Massari si soffermano con una lucida analisi sul destino dell’export italiano in questo mutato contesto.

Da ricordare, innanzitutto, che il 21 marzo scorso il Ministro per gli affari esteri e la cooperazione internazionale e Vicepresidente del Consiglio, on. Tajani, ha presentato a Roma il “Piano d’azione per l’export italiano nei mercati extra-UE ad alto potenziale”, suggerendo, per il Made in Italy, una diversificazione necessaria per sopravvivere alla possibile perdita di competitività sul mercato statunitense.

Nel documento si afferma, spiegano i due esperti, che occorre rafforzare ulteriormente i rapporti economici con gli Stati Uniti, anche in un’ottica di riequilibrio del surplus della bilancia commerciale: è possibile una “strategia transattiva”, con accordi su gas (GNL) e difesa, anche sotto il profilo degli acquisti.

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“È importante preservare la presenza delle nostre imprese nel mercato americano, perché se le nostre imprese uscissero dal mercato USA i costi di rientro sarebbero molto alti.

Ma, proprio per sottrarsi al giogo delle bizze incontrollate del Presidente Trump, si suggeriscono una serie di mercati alternativi ed emergenti ad alto potenziale: Turchia, Cina, Emirati Arabi Uniti, Messico, Arabia Saudita, Brasile, India, Sudafrica, Algeria” , sottolineano Massari e Iannuzzi .

Il ruolo dell’UE nella guerra dei dazi

A questo punto, i riflettori non possono che accendersi sulla capacità negoziale dell’UE.

I consulenti sono chiari al riguardo: “ragionando in termini di espansione dei mercati, attore principale di tale politica non può che essere la UE: la politica commerciale, così come quella doganale, sono materie di competenza esclusiva di Bruxelles, dalla cui capacità di concludere accordi commerciali vantaggiosi dipende buona parte della propensione all’esportazione delle aziende europee”.

Secondo Iannuzzi e Massarim quindi, allargare la rete di contatti normati con il maggior numero di Paesi è l’arma per contrastare il protezionismo statunitense: anche le recenti aperture cinesi lo confermano.

“Parliamo di accordi veri, win-win per entrambe le parti, non di intese finte, chiamate a mascherare interessi particolari, come il recente accordo USA-UK, clamorosamente sbilanciato a favore della parte statunitense, come ampiamente riconosciuto anche dai commentatori britannici”, aggiungono.

La reazione a catena dei dazi

Da esperti di dogana e di commercio estero, Iannuzzi e Massari hanno competenza per spiegare che il primo impatto di una nuova misura daziaria è sulle politiche di prezzo, ad accordi conclusi, è difficile che un cliente accetti una revisione del prezzo pattuito, pur a seguito di un evento indipendente dalla volontà del venditore.

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Il ragionamento è ampio:

Assorbire un dazio del 10% è già complicato, figuriamoci se dovesse avverarsi la nefasta previsione del Presidente Trump di una imposizione all’importazione del 50%.

Ma attenzione, non limitiamoci a considerare i dai sulle merci di origine UE. Le aziende acquistano beni finiti e semilavorati da molti Paesi, Cina compresa e, quindi, occorrerà verificare l’impatto di tali acquisti sulla vendita dei prodotti finiti negli USA: rideterminare la catena di approvvigionamento potrebbe modificare l’entità dell’imposizione daziaria, così come riportare nel nostro Paese una serie di lavorazioni, ora delocalizzate, se i costi di questo reshoring fossero inferiori ai danni economici e di immagine, che l’introduzione di nuovi dazi potrebbe comportare.”

I dazi, infine, non provocano effetti solo di natura economica. Bisogna considerare anche l’impossibilità di portare a conclusione attività contrattualmente previste, la perdita di clienti, le difficoltà di accesso a un mercato importante come quello USA che potrebbe provocare a catena danni reputazionali e difficoltà a chiudere affari anche con i propri fornitori secondo gi esperti.

Imprese italiane e dazi: cosa puà succedere?

C’è una distinzione importante spiegata da Iannuzzi e Massari quando si parla di impatto concreto dei dazi sulle nostre imprese: da una parte occorre considerare gli impatti negativi economici e di immagine, diretta conseguenza di un esborso economico imprevisto e non assorbibile nel prezzo di vendita dei beni o di acquisto delle materie prime e dalll’altra gli impatti negativi possibili, forse probabili, frutto di affermazioni, smentite, anticipazioni e revirement, espressione di un modo di fare politica ed economia

tipicamente trumpiano.

Anche l’idea di trasferire produzioni o parti di produzioni negli USA, desiderata del Presidente Trump, benchè possibile, non è scelta scevra da rischi, spiegano i due esperti.

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“Tempi lunghi e costi elevati sono il primo problema; poi, ricordiamo che, comunque, anche una volta avviata una produzione USA, o si comprano materie prime e componenti lì o in Paesi che hanno particolari accordi commerciali con gli Stati Uniti o i dazi su questi beni si pagheranno ugualmente”.

Il peso dell’incertezza sulle imprese

Se c’è una cosa certa in questo contesto caotico della guerra dei dazi è l’imprevedibilità. E anche questa ha un prezzo.

L’incertezza è la principale nemica delle volontà di investimento; nell’incertezza le aziende si fermano, attendono gli eventi, aspettano chiarimenti, una situazione stabile, che le aiuti a decidere per il meglio nel medio-lungo periodo”, spiegano i consulenti.

E, in questo, l’attuale situazione americana non aiuta: “pensiamo al trasferimento della produzione. Costi e rischi non sono bilanciati da uno scenario chiaro, le decisioni cambiano quotidianamente, decide il Presidente, non il sistema legislativo e il principale canale di comunicazione è Truth: l’investimento di oggi potrebbe rivelarsi inutile, tra qualche mese.”

Quanto alla strategia caotica, diremmo che è pur sempre una strategia e, forse, non così caotica, ma un esempio del modo di intendere il potere, politico e commerciale, del presidente Trump: minacciare per

ridurre il nemico a più miti consigli
, accordarsi solo se conviene, evidenziano Iannuzzi e Massari.

Tregua fino al 9 luglio, e poi?

I dati economici statunitensi del primo trimestre hanno rivelato un andamento negativo e imprevisto

(ma non troppo) dovuto alla corsa alle importazioni da parte delle aziende americane, spaventate anch’esse dalla politica daziaria; ed è immaginabile che tale comportamento si prolungherà fino al 9 luglio.

Dopo questa data, analizzano gli esperti, gli USA potrebbero rallentare gli acquisti, laddove possibile (ma in settori importanti per noi italiani, come food & beverage, fashion e luxury), con una conseguente riduzione delle entrate dovute ai dazi rispetto a quelle preventivate dall’amministrazione Trump: ai danni alle aziende esportatrici non corrisponderebbe un egual vantaggio economico per gli USA, effetto perverso di una politica sbagliata.

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“Il 9 luglio non è così lontano, i tempi per chiudere accordi commerciali sono, normalmente, molto più lunghi, lavorare a scadenza significa, sostanzialmente, accettare le condizioni del più forte, esattamente ciò che gli USA vogliono”, avvertono i consulenti.

Diversi quesiti, al momento, rimangono senza chiare risposte: limitatamente alla situazione UE, cosa accadrà il 10 luglio? Quale dazio applicheranno gli USA ai prodotti unionali importati? Il 20% proclamato al mondo il Liberation Day o il 50% minacciato via Truth, ma, al momento, privo di dignità giuridica? E le merci cinesi pagheranno il 34%, l’84% o il 145%?

Le imprese unionali stanno aspettando, dicono gli esperti, e confidano in una soluzione diplomatica, ma non possono attendere all’infinito: meritano rispetto e risposte.

Europa latitante e autolesionista?

In conclusione, Iannuzzi e Massari volgono lo sguardo a Bruxelles: “ciò che più preoccupa, è proprio questa latitanza dell’Europa, eterna indecisa, che vive in uno stato di sospensione e non comprende come questo stato di incertezza, riprendendo ciò che dicevamo prima, nuoce più di un dazio, perchè mina quella poca fiducia ancora riposta nelle istituzioni unionali”.

E dà nuova linfa, invece, a chi, come il Presidente Trump, vorrebbe separare l’Europa unita, ritornare a una situazione pre-Maastricht, a una piena autonomia nazionale, alla libertà di decidere, in campo commerciale, con chi e in quali modi collaborare: “è un autolesionismo che non giova a nessuno”, questa l’amara conslusione e l’accorato richiamo dei consulenti.



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