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Referendum contratti a termine, cosa cambia per i lavoratori


Questo articolo fa parte di un ciclo dedicato al referendum 2025, che ha l’obiettivo di illustrare in modo chiaro e documentato le posizioni a favore e contro i quesiti, nonché gli scenari in caso di raggiungimento del quorum. QuiFinanza mantiene una linea editoriale imparziale e si impegna a fornire un’informazione completa e obiettiva, senza sostenere alcuna posizione politica o ideologica.

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Con la scheda grigia, uno dei quattro referendum sul lavoro dell’8 e 9 giugno prossimi riguarda la disciplina dei contratti a termine, la relativa causale e come le regole vigenti potrebbero cambiare. I promotori del “Sì” mirano ad garantire maggiori diritti ai lavoratori, mentre i chi sostiene le ragioni del “No” difende la flessibilità di contratti che talvolta aprono la strada all’indeterminato, scoraggiano il ricorso al lavoro nero e sono una buona opzione per i giovani che intendono fare esperienza.

I contratti a termine hanno una durata massima complessiva di 24 mesi e con il varo del decreto Lavoro nel 2023, in aderenza alle novità a suo tempo introdotte dal Jobs Act, è stato escluso l’obbligo di causale per i rinnovi e le proroghe dei contratti fino a 12 mesi.

Di seguito cerchiamo di capire, con qualche esempio concreto, come il contratto a termine può cambiare, mettendoci nei panni di un lavoratore o di una lavoratrice precaria.

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Un caso concreto e la situazione secondo le regole attuali

Il referendum abrogativo ha come oggetto la possibile cancellazione della regola che non obbliga il datore di lavoro a spiegare il perché del contratto a termine, nei primi dodici mesi dall’assunzione. Oggi, lo ribadiamo, la causale della scelta del contratto a termine diventa obbligatoria solo oltre l’anno.

Ci chiediamo che portata potrebbe avere una eventuale abrogazione delle norme sulla causale e per farlo vediamo un esempio pratico, una classica storia del quotidiano.

Il caso di una commessa con contratto a 9 mesi

Una giovane commessa di un negozio di abbigliamento è stata assunta lo scorso anno con un contratto a tempo determinato della durata di 9 mesi. In esso non compare alcuna motivazione della sua breve durata. Scaduto il contratto, la ragazza viene lasciata a casa, senza aver potuto beneficiare di prospettive di stabilizzazione, ma solo giovandosi della Naspi per un breve periodo.

In una discutibile ottica di rotazione dei lavoratori, di interruzioni fittizie e di cambi mansione, l’azienda ha potuto sostituirla liberamente con un’altra persona, sempre con contratto a termine e sempre senza indicarne il motivo. L’assenza di causale rende infatti libero il datore di non impegnarsi all’assunzione definitiva, pur in settori in cui il lavoro non manca.

I benefici per le aziende dell’assenza di causale

A ben vedere, le ragioni di questa “strategia” sono diverse:

  • la libertà di non dover giustificare nulla;
  • il maggior controllo sul personale;
  • i minori costi indiretti e gestionali;
  • il ricorso al lavoro a termine nei periodi di picco di attività;
  • l’assenza di rischi di contenziosi in caso di interruzione del rapporto alla scadenza e di conseguenti rischi di risarcimento;
  • la mancata maturazione di scatti di anzianità, premi o altri bonus.

Per una commessa, una cassiera, un magazziniere, un addetta call center, un barista o un addetto alle pulizie gli svantaggi sono evidenti, mentre il tempo indeterminato comporta obblighi più rigidi per l’azienda.

Al fine di interrompere il rapporto, in quel caso, serve una giustificazione solida (es. giustificato motivo oggettivo o soggettivo), altrimenti il licenziamento può essere impugnato con successo in tribunale.

Nonostante vari incentivi o sgravi per favorire il contratto a tempo indeterminato, quello a termine – soprattutto breve e senza causale – resta per molti datori lo strumento più comodo, flessibile e “senza pensieri”, anche a costo di dover cambiare continuamente dipendenti.

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Una situazione che limita le aspettative di costruirsi un futuro, specialmente se si è giovani lavoratori alla ricerca di un’occupazione e di uno stabile reddito da lavoro.

Il referendum cerca proprio di limitare questa sorta di malcelato abuso: con la vittoria del SÌ si obbligherebbero le aziende a motivare il ricorso al tempo determinato, fin da subito. Ecco allora che la commessa dell’esempio sopra citato potrebbe essere tutelata dal primo giorno di lavoro, lavorando più serenamente e consapevolmente.

Perché l’obbligo di causale tutela i lavoratori a termine

Nel caso il referendum abrogativo premi le ragioni della cancellazione del divieto di causale, l’azienda potrebbe assumere con contratto a termine soltanto per effettive esigenze temporanee, come ad esempio picchi di lavoro, sostituzioni, progetti specifici, e in caso di abuso, ossia se la causale fosse assente o falsa, il contratto potrebbe essere convertito a tempo indeterminato per decisione del giudice, ovviamente passando prima per una causa in tribunale.

In altre parole, per assumere validamente un lavoratore con un contratto a termine andrà indicata una motivazione tra quelle valide secondo la legge e i contratti collettivi nazionali per i rapporti a termine. Di fatto, le valide causali dei contratti a termine sarebbero in qualche modo circoscritte, agevolando il tempo indeterminato.

Il mutato contesto potrebbe dare più tutela a lavoratori come commesse, cassieri, impiegati e non solo e sarebbe di incentivo per le aziende a offrire contratti stabili e rispettosi dei diritti di ambo le parti.

Il delicato equilibrio tra flessibilità e precarietà

In questo caso resta in vigore la norma del Jobs Act, così come modificata dal decreto Lavoro dell’attuale Governo, e i contratti a termine fino a 12 mesi continueranno a essere stipulati senza causale. I datori di lavoro potrebbero, quindi, continuare ad avere ampia libertà di assumere a termine senza dover giustificare la scelta, riproponendosi le rotazioni di commessi, cassieri e altre tipologie di lavoratori facilmente “rimpiazzabili” perché senza mansioni ad alta specializzazione.

Un esito come questo agevolerebbe le aziende, si pensi ad esempio alla vasta rete della Gdo, ma per i lavoratori a termine ci sarebbe la conferma della precarietà e del ricambio continuo, senza possibilità di stabilizzazione, anche in lavori non in crisi.

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Il rischio sarebbe insomma quello di “collezionare” tre distinti contratti a termine, ciascuno con un datore diverso, pur nello stesso settore lavorativo e senza alcuna prospettiva di consolidamento del rapporto.

D’altro lato, confermare l’elasticità delle condizioni per la firma dei contratti a termine potrebbe favorire future assunzioni stabili, posto che comunque non mancano aziende che valutano che il primo ingresso dei giovani debba passare per uno o più contratti a termine. Non solo. Le imprese possono in effetti creare maggiore occupazione se più “libere” di assumere personale a tempo per esigenze particolari, senza doverle “motivare” rigidamente.

Infine c’è anche da considerare che il legislatore ha tutto sommato circoscritto la portata dei contratti a termine, indicando il limite massimo di durata, il numero di proroghe e/o rinnovi possibili e così via. In questo quadro va preso in considerazione anche il cosiddetto stop and go, l’intervallo temporale obbligatorio tra un contratto a termine e il successivo. Ma il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno, almeno nelle intenzioni, vuole andare oltre domandando ai cittadini se è giusto cambiare nuovamente le regole in materia.





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