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Enti sportivi: i compensi agli amministratori devono essere proporzionati


Le Asd e le Ssd destinano eventuali utili e avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o all’incremento del proprio patrimonio. A tali soggetti è vietata tra l’altro, la distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati, a soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori e altri componenti degli organi sociali. In ordine all’individuazione di queste fattispecie, l’articolo 8, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. 36/2021, rinvia alla disciplina dell’impresa sociale, e in particolare all’articolo 3, comma 2, ultimo periodo e comma 2-bis, D.Lgs. 112/2017. Verifichiamo, quindi, come la sproporzione dei compensi agli amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali, possa incidere sullo status di ente sportivo dilettantistico, una volta che i verificatori fiscali contestino l’assenza di congruità.

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Il dettato normativo

L’articolo 8, D.Lgs. 36/2021, come modificato dall’articolo 3, D.Lgs. 163/2022[1], in vigore dal 17 novembre 2022, prevede che le Asd e le Ssd destinano eventuali utili e avanzi di gestione allo svolgimento dell’attività statutaria o all’incremento del proprio patrimonio[2].

Il successivo comma 2, articolo 8, D.Lgs. 36/2021, ai fini di cui sopra, e fatto salvo quanto previsto dai commi 3[3] e 4-bis[4], vieta la distribuzione, anche indiretta, di utili e avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominati, a soci o associati, lavoratori e collaboratori, amministratori e altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di qualsiasi altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto. La norma rinvia all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, ultimo periodo, e comma 2-bis, D.Lgs. 112/2017.

In particolare, l’articolo 3, comma 2, ultimo periodo, D.Lgs. 112/2017, considera in ogni caso distribuzione indiretta di utili:

a) la corresponsione ad amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali di compensi individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competenze o comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni;

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b) la corresponsione ai lavoratori subordinati o autonomi di retribuzioni o compensi superiori del 40% rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche, dai contratti collettivi di cui all’articolo 51, D.Lgs. 81/2015, salvo comprovate esigenze attinenti alla necessità di acquisire specifiche competenze ai fini dello svolgimento delle attività di interesse generale di cui all’articolo 2, comma 1, D.Lgs. 112/2017;

c) la remunerazione degli strumenti finanziari diversi dalle azioni o quote, a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, in misura superiore a 2 punti rispetto al limite massimo previsto per la distribuzione di dividendi dal comma 3, lettera a), articolo 3, D.Lgs. 112/2017;

d) l’acquisto di beni o servizi per corrispettivi che, senza valide ragioni economiche, siano superiori al loro valore normale;

e) le cessioni di beni e le prestazioni di servizi, a condizioni più favorevoli di quelle di mercato, a soci, associati o partecipanti, ai fondatori, ai componenti gli organi amministrativi e di controllo, a coloro che a qualsiasi titolo operino per l’organizzazione o ne facciano parte, ai soggetti che effettuano erogazioni liberali a favore dell’organizzazione, ai loro parenti entro il terzo grado e ai loro affini entro il secondo grado, nonché alle società da questi direttamente o indirettamente controllate o collegate, esclusivamente in ragione della loro qualità, salvo che tali cessioni o prestazioni non costituiscano l’oggetto dell’attività di interesse generale di cui all’articolo 2, D.Lgs. 112/2017;

f) la corresponsione a soggetti diversi dalle banche e dagli intermediari finanziari autorizzati, di interessi passivi, in dipendenza di prestiti di ogni specie, superiori di 4 punti al tasso annuo di riferimento. Il predetto limite può essere aggiornato con Decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Mef.

Ai fini di cui ai commi 1 e 2, articolo 3, D.Lgs. 112/2017, non si considera distribuzione, neanche indiretta, di utili e avanzi di gestione la ripartizione ai soci di ristorni correlati ad attività di interesse generale di cui all’articolo 2, D.Lgs. 112/2017, effettuata ai sensi dell’articolo 2545-sexies, cod. civ., e nel rispetto di condizioni e limiti stabiliti dalla Legge o dallo statuto, da imprese sociali costituite in forma di società cooperativa, a condizione che lo statuto o l’atto costitutivo indichi i criteri di ripartizione dei ristorni ai soci proporzionalmente alla quantità e alla qualità degli scambi mutualistici e che si registri un avanzo della gestione mutualistica.

Come si vede, in via di principio, tutto ciò che è sproporzionato costituisce distribuzione indiretta di utili.

Soffermiamoci, quindi, sulla corresponsione ad amministratori, sindaci e a chiunque rivesta cariche sociali di compensi individuali non proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competenze o comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni, partendo dai concetti di inerenza e antieconomicità.

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Il punto sull’inerenza e sull’antieconomicità

Come è noto, la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 450/2018[5], ha riallineato la nozione fiscale di inerenza al fenomeno economico peculiare all’esercizio dell’attività d’impresa, affermando che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale”, esclusa ogni valutazione in termini di utilità (anche solo potenziale o indiretta) o congruità “perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo”.

Indirizzo riconfermato con l’ordinanza n. 3170/2018[6], che ha precisato che esula ai fini del giudizio qualitativo di inerenza un “apprezzamento del costo in termini di congruità o antieconomicità”, parametri che non sono espressione dell’inerenza ma “costituiscono meri indici sintomatici dell’inesistenza di tale requisito, ossia dell’esclusione del costo dall’ambito dell’attività d’impresa”.

La stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18904/2018, si è soffermata a tutto campo sul principio di inerenza, fornendo una serie di indicazioni utili[7], che ci sembra opportuno evidenziare. Per la Corte, resta fermo che, in tema di imposte dirette, gli uffici, nel negare l’inerenza di un costo per mancanza, insufficienza o inadeguatezza degli elementi dedotti dal contribuente ovvero a fronte di circostanze di fatto tali da inficiarne la validità o la rilevanza, possono:

contestare l’incongruità e l’antieconomicità della spesa, che assumono rilievo, sul piano probatorio, come indici sintomatici della carenza di inerenza pur non identificandosi in essa; in tal caso è onere del contribuente dimostrare la regolarità delle operazioni in relazione allo svolgimento dell’attività d’impresa e alle scelte imprenditoriali”.

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in tema di Iva, l’inerenza del costo non può essere esclusa in base ad un giudizio di congruità della spesa, salvo che l’Amministrazione finanziaria ne dimostri la macroscopica antieconomicità ed essa rilevi quale indizio dell’assenza di connessione tra costo ed l’attività d’impresa”.

Secondo i giudici di Piazza Cavour, il giudizio quantitativo o di congruità si colloca su un diverso piano logico e strutturale, intrecciandosi con il profilo dell’onere della prova dell’inerenza del costo:

l’inerenza è …. un giudizio; la prova, dunque, deve investire i fatti costitutivi del costo, sicché, per quanto riguarda il contribuente, il suo onere è, per così dire, “originario”. L’oggetto del giudizio di congruità è, invece, “un giudizio sulla proporzionalità tra il quantum corrisposto ed il vantaggio conseguito[8].

Tra inerenza e congruità:

è configurabile un nesso tra i due giudizi su un piano strettamente probatorio: la dimostrata sproporzione assume valore sintomatico, di indice rivelatore, in ordine al fatto che il rapporto in cui il costo si inserisce è diverso ed estraneo all’attività d’impresa, ossia che l’atto, in realtà, non è correlato alla produzione ma assolve ad altre finalità e, pertanto, il requisito dell’inerenza è inesistente[9].

Resta fermo che l’antieconomicità o la non congruità non assumono rilevanza ai fini penali[10]. Tant’è che in questi giorni è stato riconfermato[11] quel filone giurisprudenziale[12] che esclude che gli acquisti di beni effettivamente utilizzati per l’attività d’impresa a prezzi incongrui ma veramente corrisposti costituiscano operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte. Invero, gli acquisti effettuati in riferimento a beni utilizzati per l’attività d’impresa non possono ritenersi “operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte” solo perché i prezzi corrisposti sono superiori, “eventualmente anche di moltissimo”, a quelli di mercato. Per i giudici di Piazza Cavour – sentenza n. 26520/2024 – le fatture emesse in relazione a una operazione nella quale i beni o i servizi indicati corrispondono a quelli ceduti o forniti e il prezzo è sì incongruo, ma effettivamente corrisposto, non sono in alcun modo riconducibili alle figure della “inesistenza relativa” e della “sovrafatturazione”. Precisamente, l’ipotesi di “inesistenza relativa” si verifica quando l’operazione vi sia stata, ma per quantitativi inferiori a quelli indicati in fattura, mentre l’ipotesi di sovrafatturazione, definita anche “sovrafatturazione qualitativa”, si caratterizza per l’indicazione in fattura di un importo superiore a quello effettivamente corrisposto[13]. Per le caratteristiche appena descritte, le fatture emesse nei casi di “inesistenza relativa” dell’operazione e di “sovrafatturazione” danno luogo a una “divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”, e, proprio per questa ragione, rientrano nell’ambito delle “fatture per operazioni inesistenti”, di cui all’articolo 1, comma 1, lettera a), D.Lgs. 74/2000[14]. Diversamente:

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le fatture relative ad operazioni nelle quali i beni o i servizi indicati corrispondono a quelli ceduti o forniti e il prezzo è sì incongruo, ma effettivamente versato, invece, descrivono in modo corrispondente alla realtà l’operazione eseguita, e, quindi, non implicano alcuna divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”.

 

La valutazione di congruità dei compensi

Il tema della valutazione di congruità dei compensi agli amministratori in genere non può che prendere le mosse, a livello di prassi, dalla risoluzione n. 113/E/2012, dove è stato affermato che

l’amministrazione finanziaria può disconoscere totalmente o parzialmente la deducibilità dei componenti negativi di cui si tratta in tutte le ipotesi in cui i compensi appaiano insoliti, sproporzionati ovvero strumentali all’ottenimento di indebiti vantaggi”.

Il dibattito giurisprudenziale era già vivo da diversi anni e ha visto la Corte di Cassazione chiamata più volte in campo. In sede di legittimità, infatti, numerose sono nel tempo le prese di posizione registrate. Già con la sentenza n. 12813/2000, la Corte di Cassazione ha ritenuto il compenso soggetto alla valutazione di “congruità”, in rapporto alle dimensioni dell’impresa. Per i giudici supremi, la riconosciuta deducibilità fiscale “non significa che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in deliberazioni sociali o contratti, e ciò a prescindere dall’invalidità di tali atti sotto il profilo civilistico”, in presenza di elementi certi, precisi e concordanti, e non mere presunzioni semplici, tali da permettere all’ufficio “un sindacato di legittimità”.

Successivamente, la stessa Corte di Cassazione – sentenza n. 13478/2001 -, ha riconfermato il proprio pensiero:

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“l’amministrazione finanziaria ben può valutare la congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni e procedere a rettifica di queste ultime, anche se non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi degli atti giuridici compiuti nell’esercizio dell’impresa, e di conseguenza negare la deducibilità di parte di un costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa”.

Tale principio è stato poi costantemente ribadito nell’ultimo decennio, potendo richiamare tra le altre:

  • l’ordinanza n. 3243/2013, con cui la Corte di Cassazione ha ancora una volta affermato che la deducibilità dei compensi degli amministratori “non implica che gli uffici finanziari siano vincolati alla misura indicata in delibere sociali o contratti … rientrando nei normali poteri dell’ufficio la verifica dell’attendibilità economica delle rappresentazioni esposte nel bilancio e nella dichiarazione[15];
  • la sentenza n. 24379/2016, con cui la Suprema Corte ha autorizzato il Fisco a sindacare l’importo dei compensi corrisposti agli amministratori, dando continuità alla prevalente e precedente giurisprudenza;
  • l’ordinanza della Cassazione 31607/2018, confermativa del principio secondo cui rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni dei redditi, anche se non ricorrono irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa.

 

Brevi osservazioni finali

In ordine ai limiti entro cui i compensi agli amministratori sono considerati ammessi, in quanto non costituenti una distribuzione indiretta di utili, il Legislatore ha individuato sostanzialmente dei parametri aperti. I compensi devono essere proporzionati all’attività svolta, alle responsabilità assunte e alle specifiche competenze o comunque superiori a quelli previsti in enti che operano nei medesimi o analoghi settori e condizioni.

Se certamente parametri numerici puntuali, ancorati ai volumi d’affari, per esempio, avrebbero di fatto chiuso la questione, i criteri quadro fissati lasciano aperte le porte alle rettifiche del Fisco, che potranno e saranno diverse caso per caso.

Gli abusi, che continuano a esistere, possono essere contrastati solo con interventi legislativi, evitando, talaltro, il c.d. “turismo fiscale”, dal momento che, legittimamente, per alcuni uffici la non congruità potrebbe essere pari a 40, per altri potrebbe essere pari a 70, o per altri il compenso dedotto potrebbe essere congruo.

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A nostro parere, la soluzione legislativa potrebbe essere quella di ancorare, “a priori”, sulla base di una scala parametrica, i compensi degli amministratori, al volume d’affari dell’associazione. Naturalmente, come tutte le scelte forfetarie, tale soluzione presenta dei limiti, evitando, però, di costringere la Corte di Cassazione “ad emettere giudizi di equità che non le competono e a riempire vuoti che solo la legge potrebbe riempire in funzione antielusiva”[16]. Ma agli svantaggi del forfait fa riscontro, da una parte la semplicità della norma, da tutti auspicata e spesso poi poco attuata, e dall’altra la certezza per il contribuente che tale costo non possa essere sottoposto al “vaglio di congruità” di nessun verificatore[17].

Anche perché, eventuali contestazioni fiscali potrebbero determinare il disconoscimento del carattere non lucrativo dell’attività svolta, con perdita dello status di ente sportivo dilettantistico e delle relative agevolazioni fiscali.

 

[1] Ulteriori modifiche sono state apportate al D.Lgs. 36/2021 dal D.Lgs. 120/2023.

[2] Il comma 4, articolo 8, D.Lgs. 36/2021, dispone che negli enti dilettantistici che assumono le forme di società di capitali e cooperative di cui al Libro V, Titoli V e VI, cod. civ., è ammesso il rimborso al socio del capitale effettivamente versato ed eventualmente rivalutato o aumentato nei limiti di cui al comma 3.

[3] Principio della c.d. lucratività attenuata. Se costituiti nelle forme di società di capitali e cooperative di cui al Libro V, Titoli V e VI, cod. civ., gli enti dilettantistici possono destinare una quota inferiore al 50% degli utili e degli avanzi di gestione annuali, dedotte eventuali perdite maturate negli esercizi precedenti, ad aumento gratuito del capitale sociale sottoscritto e versato dai soci, nei limiti delle variazioni dell’indice nazionale generale annuo dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e di impiegati, calcolate dall’Istat per il periodo corrispondente a quello dell’esercizio sociale in cui gli utili e gli avanzi di gestione sono stati prodotti, oppure alla distribuzione, anche mediante aumento gratuito del capitale sociale o l’emissione di strumenti finanziari, di dividendi ai soci, in misura comunque non superiore all’interesse massimo dei buoni postali fruttiferi, aumentato di 2 punti e mezzo rispetto al capitale effettivamente versato. Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano agli enti costituiti nelle forme delle società cooperative a mutualità prevalente di cui all’articolo 2512, cod. civ..

[4] Al fine di incoraggiare l’attività di avviamento e di promozione dello sport e delle attività motorie, la quota del 50% è aumentata fino all’80% per gli enti dilettantistici di cui al comma 3, articolo 8, D.Lgs. 36/2021, diversi dalle società cooperative a mutualità prevalente di cui all’articolo 2512, cod. civ. che gestiscono piscine, palestre o impianti sportivi in qualità di proprietari, conduttori o concessionari. L’efficacia di tale misura è subordinata, ai sensi dell’articolo 108, § 3, Tfue, all’autorizzazione della Commissione Europea.

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[5] Il principio dell’inerenza non discende dal vecchio articolo 75, comma 5, Tuir (oggi, articolo 109, comma 5, Tuir), “che si riferisce invece al diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l’inerenza), cioè alla correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili”.

[6] Resta fermo che “in tema di determinazione del reddito d’impresa, per la valutazione a fini fiscali delle varie prestazioni che costituiscono le componenti attive e passive del reddito, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art. 9 del d.P.R. n. 917 del 1986, che non ha soltanto valore contabile, e che impone quale criterio valutativo il riferimento al normale valore di mercato (art. 9, terzo comma, cit.) per i corrispettivi, proventi, spese ed oneri in natura presi in considerazione dal contribuente” (Cassazione n. 10802/2002, n. 869/2009).

[7] La controversia è approdata davanti alla Suprema Corte di Cassazione, per effetto del ricorso proposto dal contribuente avverso la sentenza della CTR, contro il rilievo dell’Amministrazione finanziaria che aveva recuperato a tassazione il premio concesso al cliente in quanto ritenuto sproporzionato (oltre 400.000 euro a fronte di una commessa di poco superiore a 800.000 euro).

[8] Cfr. anche Cassazione, sentenza n. 26185/2018, con la quale i massimi giudici hanno affermato che “il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito di impresa. Esso infatti esprime la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass. 11 gennaio 2018 n.450). Infatti, in tema di IVA, il principio di inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa ed esprime una correlazione tra costi ed attività in concreto esercitata, traducendosi in un giudizio di carattere qualitativo, che prescinde, in sé, da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo (Cass. 17 luglio 2018 n.18904)”.

[9] E ancora Cassazione ordinanza n. 20113/2018, secondo cui “può darsi concretamente il caso di un certo costo che – valutato in relazione alle dimensioni dell’impresa – risulti solo in parte inerente e, come tale, deducibile, perché al contempo coerente con l’attività d’impresa ed esorbitante rispetto al suo volume d’affari e all’utilità che essa persegue”.

[10] Salvo nelle ipotesi di contestazione di dichiarazione infedele, ex articolo 4, D.Lgs. 74/2000, dove il giudice tributario può ritenere presente il reato, nonostante l’assoluzione in sede penale, in quanto i presupposti per la sussistenza di un illecito fiscale sono ben diversi da quelli propri della responsabilità penale. Così, C. Santoriello, “Rapporti fra processo penale e giudizio tributario; verso un punto di equilibrio?”, in Il fisco, n. 15/2024, pag. 1391.

[11] Cassazione, n. 26520/2024.

[12] Cassazione n. 1998/2019, n. 28352/2013 e n. 1996/2007.

[13] Cfr., Cassazione n. 28352/2013 e n. 1998/2019.

[14] Cfr. per questo rilievo: Cassazione n. 1998/2019, cit., n. 28352/2013 e n. 1996/2007.

[15] E con l’ordinanza n. 9036/2013 la Corte di Cassazione ha confermato l’indeducibilità dei compensi elevati dati agli amministratori. La controversia trae origine dal rilievo operato dall’Amministrazione finanziaria che aveva ritenuto il compenso corrisposto all’amministratore unico sproporzionato, non avendo peraltro la contribuente né dedotto né fornito prova dell’esistenza di ragioni economiche giustificative.

[16] E. De Mita, in Il Sole 24 ore, 13 novembre 2001, pag. 25.

[17] In tal senso sembra esprimersi pure la Corte di Cassazione nella sentenza n. 6599/2002, secondo cui “il costo è inerente se serve a produrre ricavi; una volta accertata questa qualità del costo, è abbastanza difficile potere dire (senza scivolare in una zona grigia, tendenzialmente molto discrezionale) in quale misura esso è deducibile o meno, tranne che non vi sia una indicazione normativa specifica, che ponga un tetto alle spese”.

Si segnala che l’articolo è tratto da “Associazioni e sport”.



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