“Navigazioni – mappe, strumenti, esperienze con giovani a rischio devianza o autori di reati, famiglie, comunità”, lo abbiamo raccontato in questo articolo “Basta minori in carcere: il progetto “Navigazioni” ci insegna che si può fare”, è un progetto nato dal network di imprese sociali del Consorzio Sociale il Sestante di Savona, grazie al supporto del bando Cambio Rotta nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, promosso dall’Impresa Sociale con i Bambini. Dopo tre anni di attività in Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto, lo scorso 20 maggio a Savona sono stati presentati i risultati raggiunti. L’iniziativa ha sperimentato con successo un modello innovativo per il recupero di minori autori di reato in quattro regioni italiane. Attraverso percorsi individualizzati, coinvolgimento familiare e della comunità, mira a ridurre la recidiva e offrire nuove opportunità ai giovani. Un vero momento di incontro e scambio per dimostrare che un’altra strada, un’altra “rotta”, è una cosa possibile: lo dobbiamo, prima di tutto, ai giovani. «Quando c’è qualcuno, che insieme a quei ragazzi, immagina e definisce un “progetto di vita” diverso da quello cui sembrano destinati, la probabilità per loro di rientrare nel circuito penale è molto, molto più bass», dice Mauro Baldascino, responsabile dell’armonizzazione dei protocolli di collaborazione e scalabilità a livello nazionale del Consorzio Idee in Rete.
Cosa avete imparato da Navigazioni?
Che si può fare! È possibile costruire percorsi educativi efficaci per i minori coinvolti in reati, che vogliono mettersi alla prova, avere una seconda chance. Ognuno di quei ragazzi ha contesti, storie personali e bisogni diversi. Richiede interventi personalizzati, flessibili, olistici che gli diano opportunità reali di cambiamento positivo. E quando c’è qualcuno, che insieme a quei ragazzi, immagina e definisce un “progetto di vita” diverso da quello cui sembrano destinati, la probabilità per loro di rientrare nel circuito penale è molto, molto più bassa. Abbiamo imparato che dare una seconda opportunità ad un minore è molto di più che estinguere il reato commesso, perché può diventare per il ragazzo l’occasione di pensare e costruire un’alternativa e per le comunità locali un investimento in prevenzione, cittadinanza e giustizia sociale. Inoltre, come rete di imprese sociali – quale è il Consorzio Nazionale Idee in Rete – abbiamo fatto esperienza che dentro ogni cooperativa sociale vive un patrimonio straordinario di competenze, passione e visione. Ogni giorno, queste realtà costruiscono legami, generano fiducia, accendono possibilità. Con delicatezza e tenacia, si prendono cura delle persone e dei territori, affinché le risorse delle comunità non restino dormienti, ma si attivino, si connettano, si mettano in gioco. È così che nascono percorsi capaci di trasformare il bisogno in opportunità, la fragilità in forza, mettendo sempre al centro il bene più prezioso: la persona. Tutto questo merita di essere valorizzato, messo a beneficio di tutti, esteso – con le dovute differenti declinazioni – ad altri territori. Questo è uno dei compiti e delle missioni principali del nostro network: comunicare, diffondere, partecipare con tutta la rete questo immenso capitale.
Cosa l’ha più colpita nelle testimonianze che hanno partecipato al progetto che sono state condivise durante l’incontro a Savona?
Il bagno di umanità di quelle storie, che ci ha inondati tutti di emozioni, al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni. Le storie di Luca, Mattia, Aaaìron, Davide, Youssef, raccontano non solo il cambio di rotta dei circa 300 ragazzi presi in carico dal progetto, grazie alla qualità delle relazioni intessute dagli operatori, ma anche come un approccio innovativo possa costruire altre navigazioni per questi minori. Quelle testimonianze ci hanno confermato un’evidenza che viene dalla strada: una giustizia minorile intelligente, non punisce, ma rieduca ed include, per ridurre la recidiva e rendere le comunità più sicure.
Cosa ha restituito il convegno di Savona?
Abbiamo imparato quanto l’efficace collaborazione tra enti pubblici, Terzo settore e comunità locali, possa determinare altre navigazioni. Che la sinergia tra questi attori diventa utile se il ruolo del terzo settore è valorizzato nel definire e realizzare occasioni personalizzate per i minori di apprendimento, espressività, comunicazione, formazione, lavoro, socialità.
Ci siamo convinti della bontà del modello di comunità educante, che si stringe attorno ai ragazzi per favorirne il recupero con percorsi educativi individualizzati, che tengono conto della loro personalità, della famiglia (ove presente) e del tessuto sociale di riferimento. Abbiamo capito che forse è utile guardare ad un altro tipo di welfare, non solo quello dei servizi, ma quello generativo di comunità, nel quale le politiche sociali puntano a coinvolgere attivamente cittadini, famiglie, enti del Terzo settore, imprese e istituzioni nella co-produzione di benessere. Abbiamo imparato che i Servizi pubblici (Ussm – Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni e servizi sociali comunali), coinvolti nel progetto attraverso le risorse economiche delle fondazioni bancarie messe a disposizione dall’Impresa Sociale Con i Bambini, fanno ancora fatica o non sono in grado di riconvertire la loro spesa pubblica verso modalità più appropriate e flessibili. Abbiamo capito che questo è un grande problema, perché la sicurezza di domani si costruisce dando oggi a un minore una strada diversa dal crimine. Abbiamo anche imparato, attraverso gli interventi del presidente del Consorzio Marco Gargiulo e del professore professore ordinario di sociologia giuridica e della devianza presso l’Università degli Studi di Torino, Franco Prina, che la cooperazione sociale – il Terzo settore – deve ritrovare una propria visione politica unitaria, saperla esprimere e promuoverla efficacemente all’interno delle istituzioni, perché le parole che non diciamo rischiano di perdersi, e con esse anche il senso del nostro agire. E in quel silenzio, altri parleranno al nostro posto, ridefinendo realtà, bisogni e diritti con sguardi che non ci appartengono.
Quali sono i punti su cui lavorare ora?
La principale proposta emersa affronta la questione cruciale di come gli attori pubblici coinvolti nel Sistema della Giustizia minorile possano riprodurre le buone pratiche sperimentate. Questo ha significato riflettere su quali aspetti tecnico-amministrativi possono rendere sistematico e duraturo il rapporto di cooperazione e di complementarietà tra servizi pubblici e Terzo settore, oggi improntato alla delega e alla occasionalità della collaborazione; sulle modalità di collaborazione efficaci della presa in carico (gli aspetti qualificanti l’interazione tra Ussm, Servizi degli Enti Locali, Scuola, Aziende Sanitarie e Terzo Settore); su come facilitare le risposte ai bisogni eterogenei dei minori, con strumenti tecnici per innovare le pratiche di rieducazione e reinserimento sociale e lavorativo dei ragazzi coinvolti in reati. Ne è nata una proposta articolata, che si fonda sul modello di intervento che abbiamo denominato “Dote educativa”, che si basa sulla collaborazione tra Enti pubblici, Terzo settore e comunità locale, per favorire il recupero dei ragazzi attraverso percorsi educativi personalizzati e la valorizzazione delle risorse comunitarie. Il minore è al centro del processo educativo, considerato protagonista del proprio percorso di recupero e riabilitazione. Nella nostra proposta, che mettiamo a disposizione della pubblica amministrazione, abbiamo individuato gli “elementi qualificanti”, che devono tutti coesistere per poter definire la Dote educativa, e gli “elementi attuativi” con l’indicazione di percorsi e strumenti amministrativi adeguati. Due ambiti che devono andare di pari passo. Tra gli elementi attuativi vi è la Co-programmazione. Riteniamo indispensabile che gli Ussm, gli Enti Locali, gli Istituti scolastici e il Terzo settore condividano una co-programmazione, per sostenere i progetti educativi dei minori con Dote educativa. Nella co-programmazione vanno definite le strategie e le modalità per la progettazione personalizzata col terzo settore degli interventi per i minori. La coprogettazione, infatti, è un elemento chiave del modello e prevede il coinvolgimento attivo del Terzo settore nell’immaginare e realizzare gli interventi attraverso la costruzione delle opportunità di recupero per i ragazzi. Lo strumento d’integrazione organizzativa per la formulazione di Progetti educativi personalizzati è il Crossing team o Hub della legalità. E’ una Unità di valutazione integrata che esegue una valutazione multidisciplinare e multidimensionale con strumenti condivisi e concordati, assegna responsabilità precise e scadenze di verifica con il coinvolgimento del minore e delle famiglie (ove presenti).
La rete è davvero fondamentale: come la coltiviamo? Nonostante la natura diversa e a volte anche i temi diversi.
L’approccio di rete è un valore. Permette di realizzare risultati che i singoli non potrebbero mai attuare. Deve tradursi in una reale capacità di lavorare insieme, per questo occorrono i luoghi e le tecnologie (metodi, tecniche, procedimenti, ecc.) che lo permettano e lo traducano in pratiche. Serve una cultura che valorizzi questo approccio, servono strumenti d’integrazione organizzativa, strumenti di valutazione multidisciplinare e multidimensionale condivisi, indicatori di qualità dei percorsi, regole di rendicontazione.
Può indicare un’azione chiave per ognuno degli attori coinvolti?
Le azioni che devono svolgere gli attori pubblici sono scritti in leggi e circolari, che in molti casi sono abbastanza chiare ed avanzate, per adesso. L’attività di sostegno e controllo degli Ussm, ad esempio, deve essere svolta in collaborazione con gli altri servizi della giustizia minorile, con gli enti locali e con le altre risorse del territorio, per garantire l’efficacia dei percorsi individualizzati socioeducativi e di responsabilizzazione. Quello che, invece, andrebbe ripensato è la modalità d’ingaggio del Terzo settore. Il ruolo innovativo che questo può svolgere e la sua attitudine a creare ed alimentare capitale sociale, richiede di ripensare il modo tradizionale del suo coinvolgimento. Nella modalità relazionale che proponiamo, i servizi pubblici dovrebbero vedere nel Terzo settore un partner per la costruzione/rimodulazione condivisa dei contesti, per intervenire su quei determinanti che hanno portato alla devianza del minore. Al partner Terzo settore, si dovrebbe chiedere non la gestione di strutture più o meno protette o la produzione di un rigido (anche se articolato) set di prestazioni, ma la realizzazione di occasioni di apprendimento, espressività, comunicazione, formazione, lavoro, socialità, casa, habitat sociale, ossia di promozione e garanzia dei diritti di cittadinanza.
Il valore aggiunto della dote educativa e delle figure del case manager?
La “Doti educative” è un investimento economico che rappresenta la quantità di risorse necessarie per sostenere un progetto educativo personalizzato per il minore, che può essere di tre livelli di intensità. Essa aiuta a fornire un contesto di apprendimento, socializzazione e reinserimento sociale e lavorativo, puntando su quattro aree fondamentali: apprendimento, espressività e comunicazione (attività per lo sviluppo delle competenze non cognitive, cognitive e creative); formazione e lavoro (percorsi di formazione professionale e inserimento nel mondo del lavoro); socialità e affettività (supporto nelle relazioni sociali e affettive); casa e habitat sociale (soluzioni abitative in forma singola o associata, anche attraverso il riutilizzo di beni confiscati alla criminalità organizzata). Investire in percorsi personalizzati significa trasformare un costo immediato in un investimento per un futuro migliore per tutti. Ogni progetto è supervisionato da un case manager, una sorta di regista della personalizzazione, che si occupa di coordinare le azioni e monitorare il progresso del ragazzo. L’équipe multidisciplinare, insieme al case manager, valuta i progressi e i risultati, garantendo che il minore partecipi attivamente. Ogni minore coinvolto in un reato rappresenta una doppia sfida: un danno da riparare e un futuro da costruire. Le politiche orientate alla rieducazione e all’inclusione non sono un “privilegio”, ma l’unico approccio che riduce concretamente la recidiva. Per questo, serve finanziare non solo strutture protette o punitive, ma i progetti educativi. Investire in percorsi personalizzati significa trasformare un costo immediato in un risparmio sociale di lungo termine. Va costruita una giustizia minorile che misuri il successo non per reati puniti, ma per le vite riconquistate, perché la vera sicurezza nasce da comunità che sanno dare opportunità, non solo condanne.
Credit foto apertura Pixabay
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