Medico specialista in Gastroenterologia e in Medicina Interna, Nino Cartabellotta è presidente della Fondazione Gimbe, organizzazione indipendente che promuove attività di ricerca e formazione in ambito sanitario, coordinatore scientifico del programma #SalviamoSsn, coordinatore dell’Osservatorio Gimbe per il monitoraggio continuo e indipendente su responsabilità e azioni di tutti gli stakeholder della sanità e autore di oltre 200 pubblicazioni.
Presidente Cartabellotta, da anni si parla di un Servizio sanitario «malato». Qual è l’attuale stato di salute?
Il Servizio sanitario nazionale versa in uno stato critico, segnato da anni di definanziamento progressivo, grave carenza di personale e disuguaglianze regionali sempre più marcate. Tra il 2010 e il 2019, il Ssn ha perso oltre 37 miliardi di euro, tra tagli per il risanamento dei conti pubblici e risorse assegnate inferiori ai livelli programmati. Durante la pandemia (2020-2022), l’aumento del Fondo Sanitario Nazionale di 11,6 miliardi è stato interamente assorbito dall’emergenza Covid-19, mentre nel periodo post-pandemico (2023-2024) l’incremento di 8,6 miliardi è stato in larga misura eroso dall’inflazione e dall’aumento dei costi energetici.
La Legge di Bilancio 2025 ha previsto un aumento di 2,5 miliardi, di cui 1,2 miliardi già stanziati dalla Manovra precedente. E per gli anni successivi gli incrementi saranno minimi, con un tasso di crescita quasi nullo a partire dal 2027. In termini di percentuale di Pil, il Fsn scende dal 6,12% del 2024 al 6,05% nel 2025 e 2026, per poi precipitare al 5,9% nel 2027, al 5,8% nel 2028 e al 5,7% nel 2029. Questo scenario si traduce in una riduzione dell’offerta pubblica di servizi, liste d’attesa sempre più lunghe e un ricorso crescente alla sanità privata da parte dei cittadini. I pronto soccorso sono al collasso, i medici di famiglia hanno troppi assistiti. La mancanza di una programmazione efficace ha reso la sanità pubblica sempre meno accessibile: nel 2023 quasi 4,5 milioni di cittadini hanno rinunciato alle cure per motivi economici o per le lunghe attese. Il rischio concreto è che il diritto alla tutela della salute, sancito dall’art. 32 della Costituzione, si trasformi in un privilegio per chi può permettersi di pagare le cure di tasca propria.
Cosa propone per riformarlo, da dove si potrebbe partire?
Per invertire questa tendenza non servono soluzioni tampone, ma interventi strutturali e una visione di lungo termine. Il primo passo è garantire un finanziamento pubblico adeguato e stabile: senza risorse certe, nessuna riforma può essere credibile. Tuttavia, i fondi da soli non bastano. È indispensabile agire su più fronti, a partire dal rilancio delle politiche per il personale sanitario coerente con una programmazione adeguata.
Basti pensare che entro il 2027 oltre 7.300 medici di famiglia andranno in pensione, ma il numero di giovani formati non è sufficiente a garantire il ricambio generazionale. Inoltre un infermiere su quattro in attività nel nostro Ssn ha già più di 55 anni e ogni anno il sistema perde circa 10mila infermieri tra dimissioni, pensionamenti e abbandoni volontari. Va poi potenziata la sanità territoriale per evitare che l’ospedale resti l’unico punto di riferimento per i cittadini. Proprio su questo fronte, per completare la riforma prevista dal Pnrr servono almeno 20-27mila Infermieri di famiglia e di comunità (Ifec).
L’obiettivo deve essere ridurre l’ospedalizzazione evitabile, puntando su Case della comunità, Ospedali di comunità e su una medicina generale più efficiente, alleggerita da vincoli burocratici che oggi sottraggono tempo prezioso ala cura. Infine, è fondamentale monitorare l’efficacia della spesa sanitaria, ridurre sprechi e inefficienze e garantire più trasparenza nella gestione delle risorse pubbliche.
I cittadini lombardi hanno la spesa sanitaria più alta d’Italia (oltre 1.000 euro l’anno). Cosa ne pensa?
È importante fare una premessa. Le Regioni che raggiungono migliori performance nei Livelli essenziali di assistenza (Lea) tendono ad avere una spesa pro-capite più elevata rispetto alla media nazionale, mentre quelle del Mezzogiorno e/o in Piano di rientro si collocano al di sotto. Questo dato riflette due aspetti fondamentali. Da un lato, il livello di reddito è una determinante chiave della spesa sanitaria out-of pocket: chi ha più disponibilità economica è più propenso – e in grado – di sostenere costi per prestazioni sanitarie. Dall’altro, il valore della spesa sanitaria delle famiglie – al netto del sommerso – non è un indicatore affidabile per misurare l’effettivo grado di mancate tutele pubbliche, perché è condizionato dalla capacità di spesa individuale.
In un recente report Fondazione Gimbe ha parlato di «medici di famiglia a rischio estinzione»: i partecipanti al concorso nazionale sono inferiori rispetto ai posti a disposizione (-45% in Lombardia nel 2024), nella nostra regione i medici di base hanno in media oltre 1.500 assistiti e nel Bresciano ne mancherebbero oltre cento. Come si potrebbe migliorare le cose?
Il problema dei medici di famiglia in Lombardia è particolarmente grave. Il 74% dei medici ha già superato il massimale di 1.500 assistiti, rispetto al 51,7% della media nazionale. In questo contesto, le soluzioni adottate finora si sono rivelate insufficienti, perché non affrontano il nodo strutturale della carenza. L’innalzamento dell’età pensionabile a 72 anni, le deroghe sull’aumento del massimale e la possibilità per gli iscritti al Corso di formazione in Medicina generale di acquisire sino a mille assistiti sono misure tampone, non certo strategie risolutive. La vera priorità è rendere la professione più attrattiva.
Oggi la medicina generale è percepita come poco conveniente rispetto ad altre specializzazioni: la burocrazia è opprimente, il carico di lavoro è elevato, il ruolo non adeguatamente valorizzato. La politica propone di passare alla dipendenza come soluzione strutturale, ma per attuare l’ambiziosa riforma dell’assistenza territoriale prevista dal Pnrr (Case di comunità, Ospedali di comunità, assistenza domiciliare, telemedicina) e colmare la carenza di medici di famiglia si punta su un cambiamento tanto radicale quanto poco realistico.
Una riforma così complessa, oltre a richiedere un’accurata valutazione d’impatto, necessita di un coinvolgimento diretto delle parti in causa. Nel frattempo, se la professione di medici di medicina generale continuerà a perdere appeal, il rischio concreto è lasciare milioni di persone senza medico di famiglia, peggiorare la qualità dell’assistenza territoriale e compromettere la salute delle persone, soprattutto dei più anziani e fragili.
Il test di Medicina è stato abolito, ma rimane il numero programmato. Cosa ne pensa?
Quello che ho esposto in Audizione in Commissione Cultura: la nuova norma espone il sistema a rischi concreti, aggravando problemi già esistenti e introducendone di nuovi. Il primo paradosso è evidente: pur proclamando l’abolizione del numero chiuso, la riforma introduce una selezione ancora più incerta e logorante alla fine del cosiddetto «semestre filtro». Un meccanismo che rischia di alimentare – anziché ridurre – il mercato privato dei corsi di preparazione: non più focalizzati sui test «a crocette», ma su strategie per superare il semestre di sbarramento.
In secondo luogo, le Facoltà di Medicina potrebbero trovarsi sommerse da un numero di iscritti ingestibile, con il rischio concreto di sovraffollamento, qualità della formazione compromessa e aumento delle disuguaglianze territoriali. C’è poi un tema culturale e sistemico: rafforzare il mito dell’accesso alla professione medica come unica via nobile rischia di svalutare tutte le altre professioni sanitarie. L’infermieristica e le altre lauree sanitarie rischiano di diventare il «piano B» per chi non supera il filtro, alimentando una visione medico-centrica che va nella direzione opposta a quella di un Ssn realmente multidisciplinare. Infine, se non si interviene per rendere di nuovo attrattivo il Ssn e valorizzare le specialità mediche oggi disertate, come la medicina generale, rischiamo di usare denaro pubblico per «sfornare» più medici che, con questo livello di disaffezione per la sanità pubblica, andranno a lavorare nel privato o all’estero o si dedicheranno alla libera professione.
In termini di migrazione sanitaria la Lombardia è la regione più attrattiva, perché? Cosa significa questo per i lombardi?
La Lombardia è da anni un polo sanitario di riferimento a livello nazionale, grazie alla presenza di strutture ospedaliere di alta specializzazione che attraggono pazienti da tutto il Paese. Nel 2022, la Regione ha registrato un saldo positivo nella mobilità sanitaria, confermandosi la principale destinazione per chi si sposta in cerca di cure più rapide o di servizi di eccellenza. Tuttavia, questo modello presenta criticità rilevanti. Anzitutto quasi 3 euro su 4 spesi dai pazienti provenienti da altre Regioni per ricoveri e prestazioni specialistiche in Lombardia finiscono nelle casse della sanità privata accreditata. Un dato che evidenzia il peso crescente del settore privato all’interno del sistema sanitario regionale, che beneficia in modo significativo della mobilità sanitaria attiva. Inoltre, nonostante l’attrattività della sanità lombarda, la mobilità passiva è tutt’altro che trascurabile: oltre 400 milioni di euro sono stati spesi dai cittadini lombardi per curarsi in altre Regioni. Questo significa che, se da un lato la Lombardia attira pazienti, dall’altro molti suoi residenti non trovano risposte adeguate ai propri bisogni di salute nella regione e scelgono di rivolgersi altrove.
Si parla tanto di digitalizzazione, ma nella nostra regione il sistema informatico (Siss) indispensabile per dematerializzare le ricette almeno una volta alla settimana si blocca. Cosa ne pensa?
La digitalizzazione della sanità è uno strumento fondamentale per migliorare l’efficienza del sistema, semplificare il lavoro degli operatori sanitari e garantire ai cittadini un accesso più rapido ai servizi. Tuttavia, per essere realmente efficace, è indispensabile che le infrastrutture tecnologiche siano affidabili e costantemente aggiornate. Per garantire un sistema digitale efficiente, è necessario investire non solo nell’implementazione di nuove tecnologie, ma anche nella loro manutenzione e sicurezza, evitando interruzioni che possono compromettere la continuità assistenziale. La digitalizzazione non deve essere un ostacolo, ma un valore aggiunto per il Ssn.
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