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L’eolico offshore italiano è in ritardo per colpa del governo


Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Che siano installate su piattaforme galleggianti o ancorate ai fondali, le pale eoliche in mare – situate a decine di chilometri dalle coste, dunque a prova di Nimby (Not in my back yard) – rischiano di rientrare nella lunga lista italiana delle occasioni perse. Non solo in termini di lotta al cambiamento climatico. 

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La crisi dell’automotive è uno dei tanti campanelli d’allarme di un’Italia che si sta trasformando in un’ex potenza industriale. La nostra economia rallenta, i salari sono stagnanti, i costi dell’energia risultano proibitivi per molte aziende (anche a causa della nostra dipendenza dal gas) e manca una visione di lungo periodo che consenta di avviare una riconversione industriale sostenibile a tutti i livelli.

Le alternative per invertire la tendenza, però, esistono. Una filiera nazionale dedicata all’energia eolica offshore può permettere al nostro Paese di ricoprire un ruolo nella partita della transizione ecologica. Abbiamo a disposizione settemila chilometri di coste, una buona ventosità (anche se non paragonabile a quella del mare del Nord) e un’industria marittima già competitiva. Secondo il Global Wind Energy, l’Italia ha i mezzi per imporsi come terzo mercato mondiale nell’eolico offshore galleggiante. Ma servono chiarezza normativa e tanto supporto politico.

«C’è stato un rallentamento nei decreti dedicati al settore. In Italia manca qualcuno che governi questo processo industriale gigantesco. Grazie all’eolico offshore si possono riconvertire interi asset del siderurgico, ma non solo. Molti lavoratori dell’automotive, che è in grande sofferenza, possono essere dirottati verso questa filiera grazie a corsi di formazione sull’assemblaggio delle piattaforme galleggianti nei porti. Al governo non hanno capito che dietro un incentivo – che può anche essere considerato alto rispetto al costo attuale dell’energia – c’è un ritorno economico il doppio o forse il triplo più alto dei costi iniziali: merito delle opportunità occupazionali e dei risparmi in bolletta dovuti alle rinnovabili». 

A parlare è Fulvio Mamone Capria, presidente di Aero, l’Associazione italiana delle energie rinnovabili offshore. Ci siamo conosciuti nel novembre 2023, durante il Festival de Linkiesta (qui, dal minuto 0.15 a 24.29, potete recuperare la nostra chiacchierata sul palco del Teatro Franco Parenti). Ai tempi l’atmosfera era diversa. L’associazione era nata da poco, il ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica (Mase) mostrava segnali di apertura e diversi progetti stavano per sbocciare. Ora, però, qualcosa sta iniziando a scricchiolare, principalmente per due motivi: la mancanza di incentivi governativi e i ritardi nella pubblicazione del decreto sui porti dove costruire e assemblare le infrastrutture alla base dell’eolico offshore. 

Il primo motivo è legato all’esclusione dell’eolico offshore dalla seconda procedura di aste del Decreto Fer2, che promuove e incentiva la realizzazione di impianti a fonti rinnovabili innovativi o molto costosi. Un fatto che Aero ha più volte definito «incomprensibile» oltre che dannoso dal punto di vista climatico.  

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Continuando a fare così tanto affidamento sul gas, l’Italia rischia di inciampare nelle procedure di infrazione dell’Unione europea per non aver tagliato le emissioni del 55 per cento – rispetto ai livelli del 1990 – entro il 2030 (nel 2023, secondo Ispra, eravamo al -26 per cento). Lo stesso vale per il target del net-zero al 2050. Si tratta di obiettivi complessi da raggiungere solo con le rinnovabili a terra, considerando l’incremento della domanda energetica. E il nucleare italiano di nuova generazione è ancora una grande incognita: i tempi di realizzazione sono incompatibili con il target al 2030, ma – visto che partiamo da zero – non esistono certezze nemmeno per il 2050. 

I ritardi nell’avvio delle aste, secondo Fulvio Mamone Capria, «stanno spaventando le società e le imprese che hanno proposto i progetti sull’eolico offshore». L’esclusione di questa fonte energetica dalla procedura di incentivazione del Decreto Fer2, secondo il ministero dell’Ambiente, è dovuta alla carenza di iniziative italiane (tre). In realtà, la spiegazione non è così semplice.  

In Italia, replica il presidente di Aero, «i progetti totali sono 132 per 86 gigawatt di potenziale; 26 di questi, che valgono 16,5 gigawatt, sono in fase di Valutazione di impatto ambientale (Via)». I tre progetti di cui parla il Mase sono quelli di Ravenna, Rimini e Trapani, che assieme raggiungono una potenza di quasi 1,2 gigawatt e hanno – ormai da diversi mesi – superato la fase della Valutazione di impatto ambientale. 

«Ora ne sta per arrivare un quarto, a Barletta, con le pale eoliche installate sulle piattaforme galleggianti. In totale, avremo a breve circa 2,2 gigawatt con le autorizzazioni ambientali. Il Decreto Fer2, che ha un budget incentivante di 3,8 gigawatt, è in grado di coprire una parte di questo percorso. Il Mase dice che i progetti di eolico offshore sono troppo pochi, ma in realtà si può partecipare alle aste del Decreto Fer2 anche solo con le autorizzazioni ambientali. Non credo sia nell’interesse del governo fare una maxi-asta nel 2026, quando magari avremo 3 gigawatt autorizzati: è meglio “spezzettare”, in modo tale da avviare il percorso», prosegue Fulvio Mamone Capria. 

Esistono progetti ormai maturi in stallo di un regolamento incerto. Le aziende, non avendo certezze sugli incentivi del governo, potrebbero manifestare una comprensibile prudenza, ritardando lo sviluppo di una fonte di energia pulita che in diversi Paesi europei (Regno Unito, Germania, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia) è già prolifica o in fase di espansione. 

Alla fine del 2024 la Germania, stando ai dati dell’European wind energy association riportati da Legambiente, aveva più di 8.500 megawatt di capacità installata proveniente dall’eolico offshore; i Paesi Bassi 4.700; la Francia 842; l’Italia 30. Interessante il caso della Spagna, che ha una bassissima capacità installata ma domina la produzione delle torri eoliche offshore (il 74 per cento nel 2022) diffuse nell’Unione europea. Merito di un settore marittimo-portuale avanzato su cui, in teoria, anche l’Italia potrebbe contare. 

Un altro problema, come anticipato sopra, riguarda il cosiddetto “Decreto Porti”, che ha completato l’iter di approvazione ministeriale ma non è ancora stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. La colpa è della mancata “bollinatura” da parte della Ragioneria generale dello Stato, che si occupa di vigilare gli impatti sulla spesa pubblica: «In questo primo decreto non c’è un investimento statale, ma solo una designazione dei porti idonei. Sarà un secondo decreto a stabilire quanti soldi dovranno avere a disposizione i porti individuati. In quel caso, la ragioneria può perdersi un mese o un mese e mezzo per studiare lo scenario economico. Ma il blocco del primo decreto sta causando grandi ritardi», spiega il presidente di Aero. 

In assenza di alternative interne, l’Italia potrebbe comprare le piattaforme galleggianti dal porto francese di Marsiglia. Ma, dice Fulvio Mamone Capria, «sarebbe un fallimento per la nostra filiera industriale», che deve puntare sulla produzione di due materiali fondamentali per l’eolico offshore, l’acciaio e il cemento armato.  

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Il primo, continua il presidente dell’associazione, «si può sviluppare a Taranto anche grazie all’ex Ilva. La stessa cosa vale per il porto di Augusta. Un altro porto interessante, che non ha partecipato al bando del Mase e sta lavorando in autonomia, è quello di Oristano. Lì c’è un consorzio – un nostro socio che si chiama Ocap (Oristano construction & assembly port, ndr) – che vuole realizzare galleggianti in cemento armato: hanno un peso tre volte superiore a quello dell’acciaio ma, oltre a costare meno, sono progettati per resistere alla salinità». 

L’esclusione dalle aste e l’opacità normativa non stanno scoraggiando i soci di Aero, che continuano a studiare nuove soluzioni per rendere l’eolico in mare ancora più efficiente. I casi stranieri dimostrano che ha perfettamente senso puntare su queste tecnologie. Fulvio Mamone Capria ha spiegato che sono stati investiti 170 milioni in scoping, ossia le valutazioni preliminari che – nel caso dell’offshore – danno importanti indicazioni per lo sfruttamento sostenibile dei fondali.

Sono poi in corso ricerche per realizzare galleggianti più leggeri e proteggere i cavidotti dai cyber-attacchi o dagli attentati terroristici, ma anche per introdurre – in collaborazione con le associazioni ambientaliste – radar ancora più precisi per minimizzare l’impatto delle turbine sugli uccelli migratori e i pipistrelli.  

Per fare la differenza, anche in termini climatici, l’eolico offshore italiano non deve accontentarsi dei progetti nazionali, ma guardare all’intera area mediterranea. «Il governo ha fatto il Piano Mattei? Bene, ma ora serve un piano mediterraneo per l’eolico in mare. I porti di Taranto, Oristano, Augusta, Brindisi e Civitavecchia dovrebbero diventare le basi in cui si costruiscono i pezzi da vendere in Marocco, Israele, Turchia, Spagna, Egitto, Libano. Questa visione può creare una filiera industriale. Ma darci il contentino su tre o quattro progetti non è utile anche in ottica Made in Italy, perché dovremmo comprare tutti i pezzi all’estero», conclude Fulvio Mamone Capria.



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