Sei macrotemi e una serie di verità distorte. Sono stati tredici giorni complicati per il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. L’incendio che ha messo fuori uso l’altoforno 1 è stato un guaio per il governo alle prese con una complicata cessione degli impianti dell’Ilva. Il più classico degli imprevisti che ha fatto emergere una serie di problemi già esistenti mandando in tilt un piano di rilancio debole, intricato e già in ritardo. Ma allo stesso tempo è diventato anche l’alibi perfetto al quale addossare un eventuale fallimento che trascinerebbe nel baratro il siderurgico, Taranto e un’intera filiera produttiva italiana che conta sull’acciaio della fabbrica pugliese. Riavvolgendo il nastro e tornando alla mattina del 7 maggio, quando dentro l’Afo 1 è scoppiato l’incendio, il quadro apparirà più chiaro.
Lo scontro con la procura
La procura di Taranto ha messo sotto sequestro l’altoforno senza facoltà d’uso. Ha in sostanza fermato l’impianto in attesa di comprendere dinamica e cause dell’incidente. Secondo Urso e Acciaierie d’Italia, gestore e in amministrazione straordinaria, i magistrati non avrebbero autorizzato velocemente gli interventi per salvaguardarlo, così ora risulterebbe “compromesso”. Per questo si è arrivati a uno scontro frontale con gli inquirenti, accusati di aver detto “falsità” quando hanno spiegato che quella attività – il “colaggio dei fusi”, cioè di ciò che era rimasto nell’impianto quando è scoppiato l’incendio – non è mai stata richiesta. In realtà, nelle premesse delle attività da autorizzare, Acciaierie d’Italia aveva scritto: “Se la stessa fermata dovesse superare un periodo temporale di alcuni giorni tali da determinare un raffreddamento significativo dei fusi presenti nel crogiolo, il riavvio potrebbe risultare estremamente difficoltoso se non addirittura non possibile”. Quindi si elencavano tutte le attività per “salvare” l’Afo1, tra le quali non compariva il colaggio dei fusi. Quando AdI ha indicato un arco temporale definitivo (“entro le 48 ore”), il magistrato ha risposto dando il via libera a quasi tutti gli interventi appena 22 ore dopo.
Un incidente che “spesso può capitare”
Secondo il ministro, tra l’altro, l’incendio non è stato straordinariamente grave: “C’è stato un incidente, come spesso può capitare, in uno degli altoforni della siderurgia di Taranto…”, ha detto il 15 maggio. Cinque giorni dopo a Repubblica: “Un incidente che non ha coinvolto dipendenti e che sarebbe stato facilmente risolto in poche ore”. I fatti e le immagini raccontano tutt’altro: cinque operai hanno riportato lievi ustioni ed escoriazioni, dovendo fare ricorso alle cure nell’infermeria del siderurgico, e i vigili del fuoco hanno impiegato ben 6 ore per spegnere le fiamme. A smentire il ridimensionamento del ministro ci sono poi i video registrati dalle telecamere interne dell’Ilva, pubblicate da La Gazzetta del Mezzogiorno: basta guardarle per comprendere la gravità dell’accaduto.
La colpa? Degli operai
Sempre nell’intervista a Repubblica, Urso si è sbilanciato sulle responsabilità dell’incidente: “Da quanto mi riferiscono, sembrerebbe trattarsi di errore umano”, ha detto. Si tratta della stessa tesi che – a quanto risulta a Ilfattoquotidiano.it – sarebbe stata formulata in ambienti aziendali, che hanno dato incarico alla società Paul Wurth di fornire una spiegazione tecnica dell’incidente. La procura di Taranto, invece, finora non si è sbilanciata in ricostruzioni, nemmeno nel decreto di sequestro dell’altoforno 1. Il ministro, insomma, ha addossato la colpa agli operai sulla base di una teoria di parte pur premettendo di attendere che gli “organi competenti effettuino i dovuti riscontri”.
“Meno acciaio e più Cigs per l’incendio”. Ma non è vero
Alla luce dell’incidente, l’equazione del ministro è semplice e semplicistica: verrà prodotto meno acciaio, quindi sarà necessario fare ricorso a maggiore cassa integrazione con cui i dipendenti Ilva convivono ormai da 12 anni. La questione, tuttavia, è un po’ più complicata. In questo momento l’Ilva ha un solo altoforno attivo, il numero 4, e non per colpa dell’incidente. Come raccontato da Il Fatto Quotidiano, nell’accordo firmato tra l’azienda e i sindacati a luglio 2024 era previsto che in questo periodo dovessero marciarne due: il 4 e il numero 2. L’Afo 1, quello nel quale si è verificato l’incidente, avrebbe dovuto essere spento lo scorso febbraio, sostituito dall’Afo 2. Ma la riaccensione di quest’ultimo è slittata, come comunicato verbalmente dai manager di AdI ai sindacati a marzo perché ci sono dei problemi con il riavvio. Ricapitolando: se il cronoprogramma dei commissari straordinari scelti da Urso fosse stato rispettato, l’altoforno 1 sarebbe stato spento e l’altoforno 2 sarebbe stato attivo. La produzione, insomma, non si sarebbe dimezzata. I ritardi nel mettere a terra la strategia impostata dai vertici dell’azienda, invece, ha portato alla situazione attuale e a richiedere il raddoppio della cassa integrazione.
La trattativa lenta con Baku Steel
La realtà è più complessa anche riguardo al negoziato con Baku Steel, gli azeri con i quali si sta discutendo la vendita. Per Urso un eventuale fallimento della cessione è strettamente collegato all’incendio e al successivo sequestro senza facoltà d’uso. Invece la trattativa era già in stallo, al punto che ben prima dell’incendio, risulta al Fatto, al ministero si parlava di un viaggio in Azerbaigian del capo di gabinetto Federico Eichberg per provare a sbloccare la situazione. Il viaggio è poi effettivamente avvenuto nei giorni immediatamente successivi all’incidente. Gli azeri hanno posto molte condizioni, tra cui un forte sostegno pubblico, ma non avrebbero dato garanzie sulle risorse per sostenere la gestione ordinaria, in perdita fino a quando Ilva non arriverà ai 6 milioni di tonnellate annue necessarie per stare in piedi. Tra gli intoppi tecnici c’è anche la nuova Autorizzazione integrata ambientale che deve rilasciare il ministero dell’Ambiente: l’iter è complesso, procede lento ed è già stato contestato dai commissari per le circa 700 prescrizioni richieste (la spesa si aggirerebbe sul miliardo in 12 anni). Per l’azienda renderebbero di fatto inattuabile l’attività. Il governo contava di chiudere la partita entro l’estate per non dover sostenere ancora la continuità produttiva dopo i 400 milioni stanziati a marzo saccheggiando il “patrimonio destinato” della vecchia Ilva in As per le bonifiche. Ora il rischio è che si debba ripartire da zero se non si trova il modo di convincere gli azeri.
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