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Donati (Ance Giovani): “Necessario prevedere l’imprevedibile”


L’incertezza è diventata la nuova normalità. Eppure, proprio in uno scenario segnato da crisi sovrapposte – sanitarie, economiche, geopolitiche – il settore delle costruzioni ha saputo reagire con resilienza, adattabilità e visione. Lo racconta a Pambianco Real Estate Angelica Krystle Donati, presidente di Ance Giovani. Dalla necessità di un Piano Industriale di settore alla richiesta di regole stabili e strumenti adatti alle pmi, Donati analizza le contraddizioni di un comparto che resta centrale per il sistema Paese, ma ancora troppo spesso lasciato privo di una rotta chiara. Eppure, proprio le imprese più piccole – agili, familiari, radicate nel territorio – si sono rivelate protagoniste della ripartenza post-pandemica, investendo in innovazione, sostenibilità e digitalizzazione. Oggi, però, è tempo di consolidare i risultati ottenuti. Perché se la sostenibilità ambientale non è più una scelta ma una responsabilità – anche finanziaria – e se l’efficienza digitale è la condizione per competere a livello internazionale, allora il Paese ha il dovere di accompagnare questa trasformazione. Il futuro dell’edilizia non può essere affidato solo alla resilienza individuale, ma deve poggiare su una strategia collettiva: fare sistema, rafforzare le reti, fornire accesso a tecnologie, formazione e credito.

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Viviamo un momento complesso e delicato. In questo scenario, con quale spirito il mondo delle costruzioni guarda da qui alla fine dell’anno?
“Posso fare una battuta? L’incertezza è ormai l’ordine del giorno. È diventata la costante delle nostre vite. Le problematiche specifiche cambiano, ma la sensazione di camminare su un terreno instabile rimane. Noi giovani, e io che appartengo alla generazione dei millennial, siamo cresciuti a pane e crisi: economica, ambientale, pandemica, geopolitica. Abbiamo sviluppato una forma mentis che ci ha allenati a ‘prevedere l’imprevedibile’, non perché possiamo farlo davvero – se potessimo saremmo miliardari – ma perché abbiamo capito che l’unico modo per sopravvivere e progredire è attraverso la flessibilità e la resilienza. Questo vale a maggior ragione per un settore come quello delle costruzioni, che in Italia ha attraversato un tunnel durato oltre un decennio, dal 2008 al 2020. Poi, tra pandemia, superbonus, crisi delle materie prime, inflazione, guerra, incertezze geopolitiche… è stato un saliscendi continuo. Eppure, proprio in questo caos, l’impresa italiana ha dimostrato di avere le spalle larghe, grazie anche alla sua struttura fortemente radicata nel tessuto delle piccole e medie imprese familiari. Realtà che, nel momento più buio, hanno retto grazie a una gestione prudente, a investimenti interni, al reinvestimento del patrimonio”.

Eppure il contesto normativo italiano, frammentato e complesso, non aiuta tra temi fiscali, difficoltà di accedere ai mercati regolamentati…
“Qui tocchiamo un tema centrale: l’Italia è un Paese dove programmare è difficile. La non uniformità normativa, l’instabilità delle regole del gioco e la burocrazia rallentano ogni progettualità. E questo ci porta direttamente a una delle grandi richieste che come comparto edilizio portiamo avanti da anni: serve un Piano industriale dell’edilizia, un orizzonte di medio-lungo termine, almeno a 5 anni. Non dico 30, come in Cina, ma almeno un minimo sindacale per poter fare delle scelte strutturate. Il nostro essere ‘piccoli’ non è un difetto in sé: è una risposta adattativa all’ecosistema incerto in cui ci muoviamo. Le pmi hanno mostrato flessibilità e capacità di resistenza proprio perché più agili. Ma questo stesso ‘nanismo’ imprenditoriale è figlio delle condizioni ambientali e politiche. Il sistema di accesso al credito, per esempio, penalizza le imprese del comparto edile a prescindere, solo per il fatto di appartenere al settore. È come se fossimo bonsai cresciuti in un vaso troppo piccolo, a dispetto della nostra volontà di svilupparci”.

Nonostante tutto, siete stati il motore della ripartenza. In questi anni le imprese del settore sono cresciute, hanno investito in innovazione e sostenibilità.
“Assolutamente sì. Ogni euro speso in edilizia genera un ritorno sull’indotto pari a tre volte e mezzo. Siamo un volano incredibile. Il nostro settore ha un impatto diretto o indiretto con il 90% dei comparti industriali italiani. Siamo il motore nascosto di tanti altri processi economici, anche se spesso non ce lo riconoscono abbastanza. E questa forza nasce proprio da quelle stesse pmi tanto criticate: snelle, radicate, familiari, ma capaci di tenere duro, di investire nel momento giusto, di scommettere sul territorio”.

Si assiste a una battuta d’arresto sui temi della sostenibilità. Ma molti analisti evidenziano che il settore ha già scelto la sua direzione. La sostenibilità non è più solo un’opzione. È così?
“Non ho dubbi: sì, è così. E dico di più: noi vogliamo fare le cose sul serio, non per moda o greenwashing. La sostenibilità per noi non è un badge da esibire, ma una responsabilità reale, quotidiana. Come giovani imprenditori, come cittadini globali, sappiamo che le costruzioni sono responsabili di un terzo dei rifiuti prodotti in Europa e che le emissioni di CO₂ nel ciclo vita degli edifici avvengono soprattutto prima e dopo il cantiere, cioè nella produzione dei materiali e nella gestione dell’asset.Il nostro compito, allora, è essere efficienti nel nostro segmento, e agire da volano virtuoso su tutta la filiera. E la finanza, come dicevi, ha già scelto: i progetti sostenibili vengono premiati, attirano investimenti, aumentano il rating ESG. Il mondo va in quella direzione e noi vogliamo esserci”.

A che punto siamo invece, in Italia, sul tema dell’efficientamento dei processi e della digitalizzazione? Parliamo di progettazione, cantiere, filiera. Il confronto con altri Paesi – Australia, Francia, Germania – è ancora duro?
“L’Italia è indietro, su questo non ci sono dubbi. Ma non per mancanza di visione, piuttosto per mancanza di strumenti. Il nostro ecosistema di innovazione è debole: mancano investimenti in startup, mancano canali strutturati per accompagnare la trasformazione digitale delle pmi.
Paesi come l’Inghilterra o la Germania sono più avanti perché hanno strutture imprenditoriali più grandi e più concentrate, e quindi scalano meglio. Per questo, il ruolo delle associazioni come l’Ance è diventato fondamentale. Per esempio, sul tema della decarbonizzazione, abbiamo realizzato una piattaforma pensata proprio per le pmi, per aiutarle a calcolare e monitorare le emissioni. Perché se non misuri, non migliori. Stiamo anche collaborando con Bocconi per costruire un modello di valutazione ESG delle imprese edili, in linea con le richieste europee. E infine, sull’intelligenza artificiale, abbiamo avviato un percorso per studiare soluzioni concrete, accessibili e replicabili”.

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Quindi ‘piccolo’ non è né bello né brutto: è una condizione che può diventare una risorsa, se accompagnata da strumenti adeguati?
“Esattamente. Il punto non è essere piccoli o grandi. È essere solidi, efficienti e capaci di pianificare. Se una pmi ha gli strumenti per crescere, lo farà. Se resta piccola per strategia, ben venga. Il nostro compito, come associazione e come sistema Paese, è creare le condizioni affinché anche le piccole aziende possano fare rete, accedere a tecnologie, finanziamenti, formazione. Perché nessuno possa dire che è rimasto piccolo perché non ha avuto scelta”.



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