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Incontro con tech leader: Giuseppe Di Franco, CEO Lutech



Se deve definirsi, non ha dubbi: “La mia qualità migliore è la visione: vedo le aziende per come dovrebbero essere, non per come sono”. Il suo limite? “Voglio vedere progressi continui, sono ansioso di vedere risultati, mi piace decidere, non sopporto l’immobilismo”.

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È questo mix fra visione e azione ad aver segnato il percorso di Giuseppe Di Franco da consulente a imprenditore, fino al lancio nel 2023 di quell’azienda che si chiama Lutech, che ora naviga verso il miliardo di fatturato e punta all’espansione internazionale. 

Vale la pena partire dall’inizio per capire come si arriva alla creazione di nasce una tech company di rilievo, passando da una multinazionale e spingendo la palla sempre avanti. E lo facciamo con Di Franco che di Lutech è CEO e azionista.

“Ho iniziato come consulente nell’area Strategic Services di quella che allora si chiamava Andersen Consulting, poi diventata Accenture. È stata un’esperienza lunga, una vera scuola: 12 anni intensi che mi hanno introdotto in modo profondo all’Information Technology e al digitale. Ho imparato molto, ma col tempo ho iniziato a sentirmi parte di un meccanismo troppo grande, dove il mio contributo, pur significativo, mi sembrava disperso. Sentivo il bisogno di qualcosa di diverso, qualcosa che mi permettesse di incidere davvero, di costruire.

Giuseppe Di Franco, il primo progetto imprenditoriale

D. Quando arriva l’occasione per fare qualcosa di diverso?

R. Arriva con il progetto E-Utile. Siemens stava lavorando con A2A, che allora si chiamava ancora AEM, per uno spin-off dei servizi IT con l’obiettivo di razionalizzare e tagliare i costi. Io ho seguito l’operazione inizialmente da consulente, poi sono stato assunto da Siemens per gestirla. Sono diventato direttore commerciale, poi CEO. E lì ho capito che non volevo limitarmi all’outsourcing: ho visto la possibilità di costruire un vero player di servizi digitali per il settore energy. Contro il parere di tanti esperti e consulenti, ho creduto nella trasformazione di questa società. E i risultati sono arrivati: da 8 milioni del primo bilancio agli 80 quando è stata incorporata in Atos. È stata un’esperienza determinante per me, perché lì ho potuto sperimentare lo spirito imprenditoriale in un contesto ibrido, tra pubblico e privato, tra struttura tradizionale e innovazione.

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L’imprenditorialità dentro una multinazionale

D. Con E-Utile acquisita da Atos ti sei ritrovato dentro una società di servizi IT franco-tedesca con oltre 100mila dipendenti e 10 miliardi di fatturato. Si può esprimere lo spirito imprenditoriale anche dentro una multinazionale?

R. Assolutamente sì. Quando Siemens ha deciso di uscire da E-Utile, sono stato io a proporre ad Atos di acquisire la società. Non è stato facile: ho dovuto mediare tra tre visioni diverse – quella di Siemens, quella di AEM e quella di Atos – nessuna delle quali coincideva con la mia. Ma alla fine ce l’ho fatta: la società è entrata in Atos e io sono diventato CEO di Atos Italia. Ho rilanciato la presenza italiana del gruppo, in un momento in cui la componente Siemens era in difficoltà. Atos Italia ha quadruplicato il fatturato e moltiplicato per 30 la profittabilità.

D. Un risultato notevole, che ti ha permesso ci crescere a livello internazionale…

R. Dopo il rilancio di Atos Italia, ho assunto la guida di una region con 13 Paesi: Europa dell’Est, Svizzera, Austria… Poi sono entrato nell’Executive Committee globale con responsabilità su 77 Paesi nei settori energy, retail e trasporti. È stato il punto apicale del mio percorso all’interno di Atos. Ma nonostante la dimensione e la complessità, ho sempre mantenuto un approccio imprenditoriale: visione, rapidità, responsabilità. Non volevo che la struttura soffocasse l’azione.

La grande scommessa: lo spin-off e la nascita della nuova Lutech

D. È arrivato, però, il momento di cambiare di nuovo. Che cosa ti ha spinto?

R. È stata l’uscita dal gruppo del mio capo storico. Ho subito avuto chiaro che la nuova gestione non stava andando nella direzione giusta per i nostri clienti e per i dipendenti in Italia. Allora ho fatto qualcosa di radicale: ho progettato su quattro fogli il piano per lo spin-off di Atos Italia. L’ho presentato al CEO a Parigi. La sua reazione? Freddissima. Mi ha detto che non avevo capito il piano strategico. Ma io l’avevo capito fin troppo bene. E ho previsto – come poi è accaduto – che il gruppo si sarebbe scontrato con le sue stesse debolezze.

D. Quindi non ti sei arreso?

R. No, per nulla. Ho parlato con altri membri del board, ho trovato cinque fondi di private equity interessati e alla fine ho ottenuto il via libera per lo spin-off. È stato lì che è entrata in gioco Apax, che aveva appena acquisito Lutech. Abbiamo unito Atos Italia e Lutech, creando la realtà che oggi conosciamo, un’azienda da quasi un miliardo di fatturato.

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Lutech, una piattaforma per il digitale italiano

D. Oggi come descriveresti Lutech?

R. È il digitale italiano. Una piattaforma in grado di trasformare i processi dei clienti in modo completo: dalla visione strategica all’integrazione tecnologica. Lavoriamo con la pubblica amministrazione, il manifatturiero, le telco e il mondo energy &utility. Venti delle 20 top utility italiane usano Lutech per i processi core. E poi siamo rapidi: in 15 giorni abbiamo ridisegnato il go-to-market, in sei mesi abbiamo chiuso l’integrazione tra due aziende da migliaia di persone. Non abbiamo avuto la “valle” tipica delle fusioni: i clienti non si sono nemmeno accorti del cambiamento.

Il sogno europeo e la massa critica

D. La tua parola d’ordine in questa primavera 2025?

Giuseppe Di Franco: Internazionalizzazione. Siamo già in Spagna, con 200 persone, grazie anche alla presenza di grandi clienti comuni con l’Italia, come Enel. Il prossimo obiettivo è la Germania. Il mio sogno è costruire una piattaforma europea: 1,5 miliardi in Italia, 1 miliardo fra Spagna e Germania. Un player da 2,5 miliardi. Apax è quasi a fine ciclo, quindi serve un nuovo investitore. Ma la visione è chiara

L’AI come nuova frontiera del made in Italy

D. Dici spesso che l’AI rappresenta l’evoluzione naturale del made in Italy. Che cosa intendi esattamente?

R. Il made in Italy è talento, cura, personalizzazione. Ma oggi queste qualità devono incontrare la potenza trasformativa dell’AI. C’è un’opportunità enorme, ma anche una minaccia: molte PMI non hanno consapevolezza del cambiamento. L’AI sta accelerando a velocità impressionante: il report di Stanford 2025 mostra un aumento di adozione dal 55% al 78% in un anno, con riduzione dei costi e dei consumi. L’Italia e l’Europa stanno rispondendo con leggi, non con visioni industriali. È un errore gravissimo.

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I giovani e il Sud: servono persone che vogliono costruire

D. Che cosa chiedi ai giovani che entrano in azienda?

R. Fame. Lo dico sempre: servono persone che vogliono costruire, non solo gestire. Oggi tanti giovani cercano rassicurazioni. Ma per fare la differenza bisogna affrontare l’incertezza. Nel 2023 abbiamo assunto 800 persone, altrettante nel 2024, saranno mille nel 2025. Abbiamo investito molto nel Sud: ottime università, grande motivazione, persone che vogliono restare e crescere. Da Napoli, ad esempio, gestiamo il ciclo attivo di EDF in Francia. Il talento non ha confini geografici.

Autoritratto di un tech leader

D. Chiudiamo con un veloce autoritratto. Qual è la tua principale qualità?

R. La visione. Riesco a vedere l’azienda per quello che può diventare. E poi la tenacia: non mi fermo finché quella visione non prende forma. Il valore di un’idea sta nella sua realizzazione.

D. E il tuo limite?

R. Sono ansioso. Voglio vedere progresso continuo. Delego molto, ma divento impaziente se vedo immobilismo. Questo mi porta a creare pressione, ma è anche il motivo per cui abbiamo fatto un’integrazione tra due colossi in sei mesi. Non potevo permettere che si perdesse il valore generato.

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D. Come ti ricarichi?

R. Viaggio e poi sto con le mie due figlie, ancora teenager: sono la principale fonte di soddisfazioni e stimoli nella mia vita. Ma nei viaggi non cerco l’avventura. Arrivo troppo stanco: voglio comfort. Ho un sogno ancora irrealizzato: andare in Africa, dove sono nati i miei genitori – mio padre in Eritrea, mia madre in Libia. Non ci sono mai stato, per le condizioni politiche di quei due Paesi. Avrei voluto andarci con mio padre. Non ci siamo riusciti. Ma è un viaggio che un giorno farò.



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