L’Unione Europea si dichiara “preoccupata”, il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterrez mette in guardia da un massacro di proporzioni enormi, la Casa Bianca tace. Alla vigilia dell’attacco massiccio che il gabinetto di sicurezza israeliano ha approvato lunedì, per la Striscia e i suoi abitanti quella che si profila è un’espansione delle operazioni volta alla conquista dell’enclave e allo sfollamento coatto della popolazione. La ‘dottrina Smotrich’ – il ministro delle Finanze dell’ultradestra religiosa che nei giorni scorsi aveva affermato che la liberazione degli ostaggi ancora detenuti a Gaza (59 di cui 24 vivi) rappresenta un obiettivo “secondario” rispetto alla distruzione di Hamas e alla rioccupazione della Striscia – sembra aver prevalso. “Finalmente occuperemo la Striscia di Gaza. Smetteremo di avere paura della parola “occupazione” ha dichiarato il ministro. Secondo la stampa israeliana la nuova offensiva dovrebbe iniziare dopo la visita del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in Medio Oriente, prevista dal 13 al 16 maggio. Questo nonostante i ripetuti avvertimenti delle Nazioni Unite sulle “gravi violazioni” del diritto internazionale in corso nell’enclave, dove i raid israeliani hanno già provocato oltre 52mila morti, in maggioranza donne e bambini, in seguito all’attacco di Hamas nel sud di Israele che, il 7 ottobre 2023, aveva causato 1200 morti e la cattura di 251 ostaggi.
Aiuti militarizzati?
Il piano per espandere le operazioni militari a Gaza è stato approvato in parallelo con un altro progetto che prevede la distribuzione di aiuti umanitari ai palestinesi tramite appaltatori privati. Un’iniziativa, maturata in un contesto di tensioni crescenti tra il governo di Benjamin Netanyahu e le Nazioni Unite, osteggiato dalle organizzazioni multilaterali che lo hanno definito “pericoloso e inadeguato”. Il piano arriva dopo due mesi di blocco totale degli aiuti e a distanza di nove settimane dall’ingresso dell’ultimo pacco di provviste alimentari nella Striscia. “A Gaza non entrerà più un chicco di grano” aveva promesso il ministro Smotrich, e ha mantenuto la parola. Medicinali, generi alimentari e di prima necessità, acqua: nulla è stato più distribuito nell’enclave da oltre 60 giorni, in osservanza di un rigido embargo che viola il diritto internazionale e si profila come un crimine di guerra. Ora, il ritorno degli aiuti attraverso aziende private, è tanto più contestato in quanto sarà accompagnato da un’escalation delle operazioni militari in un territorio già allo stremo. Nella Striscia, infatti, le condizioni di fame estrema stanno favorendo episodi di saccheggio repressi nel sangue dagli islamisti al governo. Hamas, a quanto riporta l’agenzia Reuters, ha giustiziato un certo numero di presunti saccheggiatori dopo diversi casi di bande armate all’assalto di negozi alimentari.
Trump troverà un accordo?
Mentre parte del governo israeliano cerca smorzare i toni ribadendo che “non si parla di occupazione” completa della Striscia, l’escalation annunciata dall’esecutivo ha scatenato le ire dei famigliari degli ostaggi che accusano Netanyahu e Smotrich di “rinunciare agli ostaggi e alla sicurezza nazionale di Israele”. Le tensioni sono sfociate in scontri aperti a Gerusalemme fra manifestanti e polizia, sull’onda delle fibrillazioni che scuotono da mesi la politica interna dell’esecutivo più a destra della storia israeliana. Secondo alcuni di loro ormai “Trump è l’ultima e unica speranza degli ostaggi. È lui che ha fatto approvare l’accordo di gennaio. Se decide che è ora di un accordo, è l’unico che può arrivarci in pochi giorni”. Col passare dei giorni, le proteste contro il governo che “abbandona gli ostaggi a Gaza, emette ordini di coscrizione obbligatoria per i soldati della riserva e riduce gli stipendi degli insegnanti” non diminuisce, mentre la tensione sale anche nel confronto militare fuori dal Paese e dalla Striscia. L’esercito israeliano ha moltiplicato gli attacchi in Siria e continua a bombardare il Libano nonostante il cessate il fuoco. Ieri sera raid delle forze armate israeliane si sono verificati anche a Hodeidah, in Yemen, in risposta a quelli dei ribelli Houthi contro l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv.
Guerra per il potere?
A 19 mesi dall’inizio del conflitto, le diverse operazioni militari israeliane sollevano diversi interrogativi sugli obiettivi del paese: la guerra, su diversi fronti, è ormai la più lunga della sua storia e all’interno della società cresce l’opposizione nei confronti di una guerra permanente. Se Israele, come annunciato, invierà le sue truppe in gran parte della Striscia, non sembra altrettanto disposta a cercare una soluzione politica, come invece chiedono i paesi arabi ed europei. Tutto questo alimenta enormi dubbi sulla strategia del governo ebraico, criticato non solo da parte dell’opinione pubblica, ma anche dai vertici militari e da esponenti dell’opposizione. “Questa non è una guerra per la sicurezza, ma per il controllo”, ha dichiarato il leader di opposizione Yair Lapid, accusando Netanyahu di essere disposto a qualsiasi cosa per mantenere il potere: “Anche a costo della vita di ostaggi e soldati israeliani”. Lunedì, tra l’indignazione e l’entusiasmo suscitati dall’approvazione dell’operazione ‘Carri di Gedeone’ è passata quasi inosservata la decisione del gabinetto di sicurezza israeliano di non istituire “in questo momento” una commissione statale d’inchiesta sui fallimenti nella sicurezza che hanno permesso che l’attacco del 7 ottobre avesse luogo. Netanyahu ha ribadito che qualsiasi inchiesta dovrà attendere la fine del conflitto.
Il commento
di Mirjana Spoljaric Egger, Presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR)
“Oggi la situazione a Gaza è sconvolgente per il livello di distruzione: non è rimasto nulla. Le sedi del CICR sono state colpite due volte. Non c’è più sicurezza per il CICR e, cosa ancora peggiore, non arriva nulla, nemmeno per gli ospedali da campo, per molte settimane. Il CICR sta esaurendo tutto. La situazione è al di là di ogni immaginazione, sia per i palestinesi a Gaza che per gli ostaggi e le loro famiglie. È insostenibile. Abbiamo bisogno del ritorno del cessate il fuoco: nient’altro ci aiuterà. Ecco perché abbiamo bisogno che gli alleati influenzino i loro alleati affinché si raggiunga una de-escalation, in modo da poter fornire assistenza umanitaria”.
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