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La micro impresa per la salvaguardia della bio-diversità nel capitalismo


Nel 1945, in pieno sviluppo del paradigma fordista di produzione, Joseph Stendl, un economista che fondeva l’analisi marxiana con quella keynesiana, in “Small and big business” enunciò il principio di “asimmetria dimensionale” delle imprese sostenendo la superiorità delle grandi imprese, che potevano comunque avvantaggiarsi di economia di scala precluse a quelle di minore dimensione, mentre potevano utilizzare tutti i vantaggi tipici delle piccole imprese. Di conseguenza i tassi di profitto delle grandi imprese sarebbero stati sempre superiori a quelle delle piccole e in progresso di tempo questo avrebbe portato a una marginalizzazione delle imprese di minori dimensioni e all’aumento della concentrazione industriale.

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Dopo ottanta anni constatiamo che le previsioni dell’economista austriaco, peraltro corrette successivamente da lui stesso, non si sono verificate e assistiamo ancora oggi alla compresenza di imprese di diverse dimensioni: nella maggior parte dei paesi europei, le micro-imprese con meno di dieci addetti, sono la stragrande maggioranza. Solo in Svizzera, Germania e Lussemburgo le micro-aziende sono al disotto del … 90%!


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Indubbiamente le micro imprese di oggi sono radicalmente diverse da quelle esistenti quanto Stendl scriveva, sono passate attraverso varie fasi, con l’affermazione di modelli di specializzazione flessibile di produzione, un processo di ammodernamento sostenuto anche dall’upgrading dei circuiti di subfornitura, e in tanti casi anche dalla capacità di sfruttare le diverse ondate di innovazione, specialmente quella elettronica.

Non c’è stata la scomparsa delle piccole imprese (anzi!) ma sotto molti versi le previsioni di Stendl non si sono dimostrate errate dal punto di vista della concentrazione produttiva. L’epoca della digitalizzazione, con i suoi confini indefinibili di applicazione in continua evoluzione (pensiamo agli sviluppi dell’intelligenza artificiale) se da un lato ha aumentato l’accessibilità in alcuni aspetti (pensiamo al commercio elettronico) dall’altro però sta finendo per favorire lo sviluppo di concentrazioni oligopolistiche che creano nuove asimmetrie tra classi dimensionali.

Negli anni ‘50 e ‘60 del secolo scorso guidavano le cosiddette “economie di scala tecniche”, dovute alla dimensione degli impianti, oggi il punto è di acquisire “economie di scala dinamiche e trasformative” direttamente collegate all’impiego di fattori immateriali, ossia ai cosiddetti intangible asset e sempre più alle indefinibili applicazioni di intelligenza artificiale.

Da decenni gli economisti sottolineano il contributo dei processi di apprendimento per la crescita della produttività, l’importanza del capitale umano anche per creare degli spillover conoscitivi che si diffondono all’esterno dell’impresa e quindi influiscono sui più complessivi processi di sviluppo.

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Tuttavia la digitalizzazione crea un intreccio inestricabile tra utilizzo e sviluppo dell’innovazione tecnologica e abilità umane nel rendere coerenti l’adeguamento di questi sviluppi ai processi produttivi.

Il fattore abilitante, rappresentato dalla possibilità di utilizzare un capitale umano sempre più “pregiato”, viene guidato dalla richiesta di professionalità da parte delle grandi imprese che sempre di più competono (anche tra di loro) per l’acquisizione delle relative competenze.

Perciò oggi il principio di asimmetria si esplica non per la dotazione di capitale fisico, o anche di capitale digitale, ma rispetto all’acquisizione del capitale umano e in particolare di quello organizzativo/tecnologico.

Le piccole imprese, e in particolare le micro, hanno crescenti difficoltà ad attrarre professionalità per le criticità connesse agli aspetti retributivi e più in generale anche ai percorsi di carriera, di conseguenza buona parte degli intangible asset sono inaccessibili per le piccole imprese e (a volte) sono razionati anche per le grandi.

Ce lo dicono i dati sulle difficoltà nel reperire nuove risorse. Le microimprese (fino a 9 dipendenti) stentano a trovare professionalità qualificate nel 53% dei casi, contro il 42% di quelle sopra i 50 dipendenti (e a valori presumibilmente inferiori di quelle ancora maggiori). Tutto questo si riflette anche sui margini di profitto che per le micro-imprese sono in media tra il 2 e il 4% mentre per le grandi imprese (più di 250 addetti) si collocano nel range 8-12%. Di conseguenza aumentano le difficoltà dei più piccoli e questa situazione rischia di avvitarsi e crescere nel prossimo futuro.

Ma non è solo un aspetto di preoccupazione di natura economica e occupazionale (da noi le micro-imprese fanno più del 42% degli occupati): si pone una questione che possiamo definire di “biodiversità di una società capitalistica”, come scriveva diversi anni fa Giacomo Becattini: “la stabilità sociale del capitalismo si reggerebbe sul fatto che la sua classe dirigente economica è continuamente rinsanguata dagli elementi più intraprendenti delle altre classi sociali”, attraverso un processo di stabilità sociale che si basa su di una certa “capacità ascensionale”.

La micro imprenditorialità spesso, quando orientata allo sfruttamento di opportunità di mercato, si è dimostrata un attore importante di questa mobilità verso l’alto. L’affermazione di oligopoli condizionanti e le connesse difficolta strutturali delle micro-imprese, rappresentano non solo un problema economico, ma riguardano anche la tenuta di un regime capitalistico, con implicazioni nefaste per i modelli di partecipazione sociale e democratica.

Ecco perché temperare per quanto possibile il principio di asimmetria tecnologico-innovativa non è solo un aspetto che riguarda la policy per le imprese, ma anche un elemento che contribuisce a sostenere una forma capitalistica liberale e democratica, che poi è quella che ha assicurato, pur con tutti di difetti del caso e con la necessità di molti temperamenti, una sostenuta, e anche abbastanza diffusa, crescita economico-sociale.

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