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L’imprenditore cattolico che scende in campo: la fede come scudo, il sociale come leva


C’è una figura sempre più presente nelle cronache locali e nei retroscena politici italiani: l’imprenditore cattolico tra rosari e cene di beneficenza che “scende in campo”, con in tasca qualche coop, una fondazione, una onlus, un pedigree da benefattore e una narrazione confezionata a misura di santino elettorale. Uomo (quasi sempre uomo) della provvidenza, del fare, del sociale. Uno che “crea lavoro”, che “non si tira indietro davanti al bisogno”, che ha costruito un piccolo impero assistenziale tra disabili, minori, migranti, portatori di handicap e anziani. E che ad un certo punto, guarda caso, si candida. Perché “vuole restituire”, “vuole mettersi a disposizione”. Un copione già visto, sempre uguale, spesso efficace. Ma dietro la facciata devota, c’è spesso molto più calcolo che vocazione. Non è solo il profilo dell’uomo “buono”, è l’immagine strategica di chi ha saputo costruire un potere silenzioso ma profondo. La sua forza non sta nei voti presunti o dichiarati, ma nella rete invisibile di dipendenze che ha saputo generare nel tempo. Ogni progetto, ogni struttura aperta, ogni sportello attivato, ogni mensa sono capitali politici in attesa di essere convertiti. Ogni famiglia aiutata è un legame, ogni giovane assunto è un investimento. E non è un caso che la “discesa in politica” arrivi spesso dopo decenni di attività, quando il nome è già sinonimo di fiducia, quando l’immagine pubblica è già blindata da anni di “bene”. È allora che il benefattore diventa candidato. E a quel punto, chi può metterlo in discussione? Questa figura si muove in una zona grigia, tra carità e business. Le imprese sociali di ispirazione cattolica sono spesso realtà solide, capaci di attrarre fondi pubblici e privati, di vincere bandi a più zeri, di creare occupazione. Ma dietro l’etichetta del servizio al prossimo, si celano logiche imprenditoriali di ferro, a volte spietate. E l’identità cattolica, quasi sempre, funziona come un lasciapassare: chi osa criticare un imprenditore che accoglie i migranti? Chi si permette di fare domande su bilanci e affidamenti a un uomo che si occupa di disabili? Il risultato è un potere moralmente inattaccabile, ma politicamente attivissimo. Questo imprenditore non ha bisogno di alzare la voce. Gli basta sussurrare al momento giusto. Non deve promettere, ha già dato. Non deve convincere, ha già aiutato. Il suo capitale politico non si costruisce sui programmi, ma sui bisogni concreti che ha saputo intercettare e risolvere prima degli altri. Ogni intervento è un credito che prima o poi sarà incassato. La religione, in tutto questo, non è solo uno stampo identitario: è un dispositivo. Serve a costruire fiducia, a dare un’aura di rettitudine, a blindare l’immagine pubblica. Ma è anche un codice di appartenenza che apre porte, genera alleanze, legittima rapporti con parrocchie, diocesi, movimenti. È la tessera invisibile che permette di essere ovunque senza mai sembrare invasivi. Che consente a un imprenditore di trasformarsi in “fratello maggiore” della comunità. E quando decide di candidarsi, non lo fa come uomo d’affari, ma come “servo della comunità”. Il fatto che gestisca milioni in appalti, che abbia centinaia di dipendenti, che controlli territori interi attraverso il welfare, diventa un dettaglio secondario. In realtà, la discesa in politica è la prosecuzione o la difesa del controllo per altre vie. Ma perché, a un certo punto questi imprenditori della fede si candidano? Perché decidono di cambiare l’abito da benefattore con la giacca da candidato? La prima spinta è quella della sopravvivenza. Dopo anni di espansione, l’impresa sociale potrebbe diventare pachidermica, spesso ingestibile. I finanziamenti non arrivano più con la regolarità di un tempo, le dinamiche cambiano. Il sistema si incrina. I conti iniziano a zoppicare. I giornali cominciano a fare troppe domande. E allora cosa fare? Semplice: entrare in politica per restare in piedi, trasformando la campagna elettorale in una manovra di salvataggio che potrebbe dare i suoi risultati. Meglio provare a mettersi al tavolo delle decisioni che restare fuori e subire i cambiamenti. La seconda motivazione è più sottile e più cinica: il desiderio di capitalizzare il bene fatto ad orologeria. Per anni si è coltivato con cura il proprio brand morale: foto con i bambini, premi ricevuti da fondazioni, articoli su riviste amiche. Non è beneficenza, è marketing reputazionale. Ora che il capitale simbolico è maturo, va incassato. Ma non in termini economici: in termini elettorali. La discesa in politica è il passo naturale di una narrazione studiata. Non si scende “per servire”, ma per convertire anni di esposizione mediatica in voti. La terza via è la più ambiziosa e la più inquietante: entrare in politica per scrivere direttamente le regole del gioco. Non basta più vincere un bando. Si vuole decidere come sarà scritto il prossimo. Non basta ottenere una convenzione: si vuole definire i criteri, scegliere i parametri, indirizzare le priorità di spesa. È il passaggio dalla gestione al potere legislativo, dalla richiesta alla regia. E non lo si fa per visione collettiva, ma per cristallizzare un sistema di potere personale. Si prova ad entrare in consiglio comunale, in una giunta regionale, magari in Parlamento, con la stessa logica con cui un tempo si entrava in un CdA: per contare. Per proteggere interessi. Per orientare flussi. E così, il cerchio si chiude. Il modello, apparentemente etico, si rivela perfettamente politico. Ma non nel senso più nobile del termine. È un potere che nasce non dalla partecipazione, ma dalla gestione del bisogno. Un potere che vive non di idee, ma di relazioni e concessioni. Il punto più insidioso è che ogni tentativo di critica viene immediatamente disinnescato dal peso della morale. La figura dell’imprenditore cattolico prestato alla politica è il simbolo di un sistema che ha saputo trasformare la solidarietà in potere. Che ha saputo leggere i bisogni non solo come emergenze da affrontare, ma come leve da gestire. È l’evoluzione moderna del notabile, del “signore buono” che controlla perché aiuta. Ma la domanda, allora, è una sola: siamo disposti ad accettare che il bisogno diventi moneta di scambio? Che la fede diventi marketing?

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