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Addio privatizzazioni, il ritorno del pubblico nelle imprese visto da Zecchini


Lo Stato torna protagonista nell’economia: non per nazionalizzare, ma per colmare i limiti del mercato in settori strategici. L’Italia razionalizza le partecipazioni pubbliche, ne dismette alcune e ne acquisisce di nuove, puntando a efficienza, innovazione e interesse collettivo. Il commento di Salvatore Zecchini

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01/05/2025

In un periodo di grande interventismo dei paesi Ocse nel sistema delle imprese, non si parla più di privatizzare imprese sotto controllo pubblico, ma di come avvalersene per perseguire disegni di politica industriale. L’Italia non è da meno in questa tendenza, che coinvolge diversi paesi in ogni continente, particolarmente in Europa. Non si tratta di nazionalizzare grandi imprese strategiche, o di alterare le condizioni di concorrenza del privato con l’ingresso del pubblico, ma di sviluppare attività in cui gli investitori privati sono poco interessati a impegnare le loro risorse per varie ragioni. Eccesso relativo di rischio in campi altamente innovativi, come nel caso di investimenti in centrali nucleari a fusione, redditività relativamente poco attraente, rendimenti troppo dilazionati nel tempo, difficile reperimento di grandi capitali per l’impegno iniziale, carenze del sistema finanziario, sono tutti fattori che possono configurare il noto “fallimento del mercato” nel permettere di realizzare investimenti strategici e quindi giustificare l’intervento del soggetto pubblico.

Assumere il controllo entrando nella proprietà di un’impresa va visto solo come uno degli strumenti a cui il decisore politico può ricorrere nell’interesse della collettività. Mezzi alternativi sono disponibili, quali l’aiuto diretto all’investitore privato, i benefici fiscali, il finanziamento a tassi favorevoli, le garanzie pubbliche su crediti e investimenti, e l’impiego di normative incentivanti. Le differenze tra il primo e i secondi stanno nel coinvolgimento ravvicinato del soggetto pubblico nelle scelte di investimento e nel monitoraggio della gestione, nonché nell’assunzione di più onerosi rischi d’impresa, che vanno oltre il ripianamento delle perdite.
In Italia, la pervasività della partecipazione pubblica nelle imprese fino agli anni 90 era il retaggio di un processo di lunga data caratterizzato dalla carenza di capitale privato, a cui si sostituiva quello pubblico, formato con l’apporto di risorse prelevate dalla collettività nazionale. Le fallimentari esperienze del passato e la disciplina europea sugli aiuti di Stato hanno costretto a privatizzare con varie modalità le imprese pubbliche e anche altri cespiti patrimoniali. Pur avendo ceduto gran parte delle più importanti partecipazioni al capitale, il soggetto pubblico non ha rinunciato a tenere una quota, anche minoritaria, di controllo in alcune delle stesse società per condizionarne gli indirizzi d’investimento in funzione di interessi collettivi. A queste partecipazioni si affianca una moltitudine di altre in imprese di minori dimensioni, detenute anche dalle amministrazioni decentrate e spesso impegnate nello svolgimento di funzioni di interesse generale.

La galassia di imprese in mano pubblica è diminuita notevolmente dall’inizio del secolo, ma rimane consistente. L’ultima rilevazione dell’Istat appena pubblicata e relativa alla situazione a fine 2022 attesta la partecipazione in 5782 imprese attive nei settori industriali e dei servizi, con un’espansione rispetto al 2021 (1,5%) e una diminuzione dell’occupazione (5,3%). Chiaramente, la strategia del Governo non è un mero arretramento della mano pubblica dalle imprese, ma una riconfigurazione della presenza pubblica, che si articola lungo tre direttrici: dismissioni, razionalizzazioni e nuove acquisizioni.

Gli obiettivi enunciati nella Nadef del 2023, nel Piano Strutturale di Bilancio 2025-2029 e nel recente Documento di Finanza Pubblica consistono in dismissioni patrimoniali nella misura dell’1% del PIL per perseguire più finalità. In particolare, si mira a generare risorse da destinare alla riduzione del peso del debito pubblico sul PIL, a cedere partecipazioni societarie pur mantenendo il controllo delle imprese al fine di valorizzarne le attività, e a realizzare un riassetto delle restanti partecipazioni. L’intento è sollecitare a un impiego efficiente delle risorse, migliorare la gestione aziendale e dismettere le partecipazioni che non rispondono alle esigenze pubbliche. In questa prospettiva viene costruito un sistema di rilevazione annuale dei dati e di monitoraggio sulle imprese partecipate, a cui ancora sfugge una parte dell’insieme. L’interesse preminente non è privatizzare, ma razionalizzare e rilanciare il ruolo dell’impresa pubblica.

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Per valutare l’importanza nell’economia dell’impresa con partecipazione pubblica occorre rapportarla all’insieme del sistema produttivo che opera negli stessi settori. Più dei due terzi del fatturato è generato nelle imprese di grande (46%) e medio-grande dimensione (22%), che contribuiscono per quasi il 14% al totale dei settori manifatturiero e dei servizi. Un’incidenza non trascurabile, che peraltro si ridimensiona nel complesso all’8 del valore aggiunto delle stesse produzioni, con l’eccezione del settore energetico, in cui arriva al 71%, delle utilities al 44% e dei trasporti al 28%. Sono comparti in cui l’interesse collettivo può giustificare una presenza pubblica se mirata all’efficienza e all’innovazione, specialmente laddove si tratti di attività in monopolio. Nei medesimi comparti le partecipate dal pubblico contribuiscono con quote altrettanto importanti di occupati e di costo del lavoro, aspetti che pesano nelle scelte di controllo pubblico.

In termini di produttività per addetto (VA/addetto), i risultati superano nettamente le medie nazionali dei rispettivi settori e in tutte le classi dimensionali d’impresa. Nel manifatturiero il distacco raggiunge il 40% (100,8 mila euro contro 73 mila), supera il triplo nelle costruzioni, mentre si ridimensiona al 13% nel settore energetico e al 10% nel comparto delle utilities territoriali. Distacchi altrettanto notevoli nei comparti dei servizi, con l’unica eccezione nella sanità e assistenza sociale in cui i livelli si equivalgono tra pubblico e privato. Alla luce di questi confronti si direbbe che, contrariamente alla diffusa narrativa, l’impresa pubblica opera meglio di quella in mano privata, ma le due categorie non sono completamente confrontabili, in quanto va tenuto conto delle differenze nella dimensione d’impresa, nel settore produttivo, nelle condizioni della concorrenza di mercato e in altre caratteristiche per trarre una valutazione definitiva. Molte partecipate pubbliche hanno dimensioni maggiori ed operano in mercati con poca concorrenza. I picchi di produttività del lavoro si riscontrano nel comparto energetico e in quello estrattivo, in cui operano grandi società ad alta intensità di capitale.

Il divario di produttività del lavoro ha un parallelo nella disparità di retribuzioni medie lorde. I livelli retributivi nella sfera pubblica in media superano nettamente quelli delle consorelle private, e possono rappresentare un fattore di preferenza nelle scelte d’impiego del lavoratore. In contrasto, in termini di ripartizione del valore aggiunto tra fattore lavoro e il resto, nel settore privato i lavoratori in media riescono a catturare una quota maggiore (di circa 7%) rispetto a quelli impiegati nel pubblico.

Dal patrimonio di imprese il Governo intende ottenere il miglior utilizzo possibile del capitale investito. Pertanto, con un insieme di norme racchiuse in un Testo Unico emanato nel 2016 sono stati fissati una serie di vincoli di performance, razionalizzazione e monitoraggio delle partecipazioni societarie e non societarie. L’ultimo monitoraggio, che si riferisce ai dati del 2022, traccia un quadro poco incoraggiante sui progressi verso l’efficientamento del complesso di imprese sotto controllo pubblico. Su 24305 partecipazioni societarie il 37% non si conforma ai requisiti fissati dalle norme. Tra i soggetti pubblici detentori di queste partecipazioni più dei tre quarti non si impegna a intervenire per “razionalizzarle”, ovvero sanare la situazione. Per il 14% delle imprese i titolari delle partecipazioni si sottrae addirittura all’obbligo di comunicare il loro stato.

Una singolarità si riscontra nel rapporto tra partecipazioni e partecipate: le prime superano le seconde di oltre 8 volte. Per ciascuna delle 4858 società si registrano in media 8,2 enti partecipanti, un dato che rispecchia la moltitudine di piccoli Comuni che ne sono titolari. In questa galassia il 13% è in liquidazione a seguito di procedure troppo lunghe, che si trascinano per il 59% da oltre 5 anni e per il 23% da più di 10 anni. Una buona parte delle società monitorate non opera in competizione con altre per l’acquisizione di servizi pubblici, ma gode di condizioni di favore da parte degli enti pubblici partecipanti. Il 43% ha ricevuto l’affidamento di servizi, in particolare di quelli idrico, rifiuti urbani, trasporti e attività professionali per lo svolgimento di compiti istituzionali, affidamenti concessi per il 94% fuori gara. La risultante contiguità tra proprietà e gestione dei servizi lascia adito a dubbi sul perseguimento dell’efficienza operativa, nonché sulla minimizzazione degli oneri per gli utenti e per la proprietà, su cui ricadono in definitiva il peso di ripianare le perdite e la responsabilità di definire la politica dei prezzi.

Altrettanto importante è il dato che mostra quanto ampiamente frustrato sia l’intento del legislatore di ridurre il numero delle partecipazioni che non sono in linea con i criteri fissati, in quanto le autorità detentrici del 76% di questi titoli non è disposta né a dismetterli, né a realizzare le condizioni perché si adeguino alle norme. In particolare, nel 31% delle società che non rispettano il parametro minimo di fatturato, pari a un milione di euro in media del triennio precedente, le autorità titolari di partecipazioni non progettano alcun aggiustamento. Benché il 42% delle società partecipate registri perdite e il 17% (191 società) sia vincolato ad adottare misure correttive perché in rosso da almeno un quadriennio, in 125 non si prendono provvedimenti. Per la giustificazione dell’inerzia si adduce la eccezione che viene prevista nel caso di gestione di servizi di interesse generale. Inerzia anche tra le società prive di dipendenti o con amministratori in numero superiore ai dipendenti, società che ammontano al 22%. Altre violazioni delle norme con mancanza di correzioni si riscontrano in diverse partecipazioni societarie non conformi ai parametri di convenienza economica, sostenibilità finanziaria ed efficienza di gestione.

Malgrado le irregolarità, il panorama complessivo delle società controllate non è così negativo come si deduce da questi atteggiamenti. La media di quelle che hanno chiuso in positivo i bilanci del 2022 arriva all’82% con una significativa dispersione di risultati. Nelle utilities la quota scende rispetto al 2021, mentre nel terziario rimane stabile. Il grado di patrimonializzazione, rappresentato dal rapporto tra patrimonio netto e attivo di bilancio, risulta abbastanza consistente con piccole variazioni negli ultimi anni analizzati. Si presenta più solido nel comparto energetico, nelle attività immobiliari, nelle assicurazioni sociali e nei servizi d’informazione e comunicazione; appare meno forte nelle utilities e nel comparto dell’istruzione. Il tasso di rendimento del capitale investito nondimeno risulta esiguo, collocandosi al di sotto del 3% in termini di mediana, per non tener conto delle punte isolate. Usando la media si otterrebbero risultati differenti: nel comparto energetico salirebbe al 27%, allorquando nel manifatturiero sarebbe profondamente negativo.

Cessioni ed acquisizioni di partecipazioni in società operanti sui mercati sono, peraltro, impiegate dal Governo per promuovere un sistema produttivo più consono con le esigenze di rinnovamento dell’economia, il suo avanzamento verso le nuove frontiere della tecnologia e il potenziamento dei settori strategici per lo sviluppo. Queste esigenze hanno condotto a cedere di recente quote azionarie di grandi società, quali il Monte dei Paschi di Siena, Poste e Ita. Al tempo stesso, si sono trasformati enti pubblici in società per azioni, e si è usata la leva della partecipazione azionaria per promuovere l’imprenditoria in settori innovativi o ritenuti strategici. Due esempi sono dati dalla costituzione del Fondo Strategico Nazionale e dal Fondo di venture capital gestito dalla CDP. Si forniscono con questi strumenti capitali “pazienti” per sostenere importanti investimenti nel medio-lungo periodo.

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Queste azioni vanno viste positivamente insieme a quelle di ripulitura della galassia delle partecipate pubbliche dai rami secchi o inefficienti. Negli interventi occorre, tuttavia, aver chiaro un disegno strategico complessivo che faccia da guida a ogni nuovo ingresso nel mondo delle imprese, si coniughi con il principio di equa concorrenza sul mercato e che ponga argine alla deriva verso modelli di impresa inefficienti ed onerosi. Le resistenze delle autorità a eliminare questi modelli sono, come nel passato, le barriere più ardue da superare.



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