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Come rendere eque le politiche di decarbonizzazione: il caso Ets2


Secondo il Servizio per il cambiamento climatico di Copernicus e dell’Organizzazione meteorologica mondiale, l’Europa è il continente che si riscalda più rapidamente, addirittura a velocità doppia rispetto alla media mondiale. Nessuno dunque come l’Europa dovrebbe continuare a correre sul fronte della riduzione delle emissioni e verso la decarbonizzazione. Dopo diversi mesi di incertezza, la Commissione europea ha finalmente presentato agli Stati membri il suo obiettivo climatico per il 2040: l’obiettivo per l’intera Unione è un taglio delle emissioni del 90% rispetto ai livelli del 1990. 

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Al di là dell’obiettivo numerico, quello che preoccupa è l’introduzione di forme di ‘flessibilità’ riguardo alle modalità di raggiungimento degli obiettivi nazionali che ogni Stato membro dovrà conseguire per contribuire al 90% complessivo. A partire dalla possibilità da parte degli Stati membri di utilizzare i “carbon credit” internazionali per colmare una eventuale differenza tra i risultati ottenuti e il traguardo nazionale di riduzione delle emissioni. Cioè compro all’estero quello che non riesco a ridurre in casa (a riguardo rimandiamo anche all’articolo di Demetrio Guzzardi contenuto nel secondo numero della  newsletter “Quale Europa”). 

Altrettanto controversa è la prospettiva di poter utilizzare nel sistema di compravendita dei permessi di emissioni dell’Ue (Ets) non solo le riduzioni, ma anche la “rimozione” della CO2, e in particolare il suo assorbimento permanente mediante la cattura e lo stoccaggio del carbonio. Previsto infine il rafforzamento del meccanismo delle compensazioni intersettoriali per cui si potranno far valere i risultati ottenuti in un settore per appunto compensare il mancato raggiungimento degli obiettivi in un altro settore. Insomma, la flessibilità che ci saremmo augurati sul fronte dei vincoli di bilancio, messi in discussione solo nel periodo Covid, viene usata a piene mani sul fronte della battaglia contro la crisi climatica, rischiando di inficiare alla base il percorso verso la decarbonizzazione. 

Le motivazioni per cui si cerca di tirare il freno sulle politiche sul clima riguardano sostanzialmente la competitività delle imprese e la sostenibilità sociale delle politiche climatiche. Per questo appare così importante la creazione del Fondo Sociale per il clima europeo, nato con l’obiettivo di attenuare gli impatti sulle fasce più vulnerabili della popolazione e sulle piccole imprese, che potrebbero derivare da alcune misure per la decarbonizzazione. 

In particolare, il Fondo è stato istituito insieme al sistema ETS II (Emission Trading System II), il nuovo mercato europeo della Co2, che stabilisce un tetto massimo alle emissioni e porterà alla vendita di quote – una sorta di permessi a emettere Co2 che le aziende dovranno acquistare – per i settori dei trasporti e del riscaldamento degli edifici. Il fatto che l’ETS II, che entrerà in vigore dal 2027, vada a colpire due settori che riguardano la vita di tutti i giorni per milioni di persone (a differenza dell’ETS I, già in vigore, che coinvolge i grandi impianti industriali ed energetici e il settore dell’aviazione) ha portato a pensare a uno strumento in grado di rispondere ai rischi sociali che potrebbero derivarne. Il Fondo sociale per il clima sarà alimentato proprio dai proventi delle aste di quote ETS II e in parte dall’attuale ETS I, con l’aggiunta di un cofinanziamento obbligatorio del 25% da parte degli Stati membri. In totale, il fondo dovrebbe mobilitare almeno 86,7 miliardi di euro di risorse pubbliche dal 2026 al 2032. Per accedere ai finanziamenti, gli Stati membri devono elaborare dei Piani sociali per il clima nei quali descrivono le misure e gli interventi a sostegno delle famiglie vulnerabili, degli utenti del trasporto e delle microimprese. 

Quello della sostenibilità sociale delle politiche per la decarbonizzazione è un terreno cruciale per la riuscita della transizione ecologica in Europa. E non è un caso che negli ultimi mesi, a più riprese, da diversi stati europei si sia alzata la richiesta di un rinvio dell’applicazione del sistema ETS II. Per questo il modo in cui i soldi del Fondo sociale per il clima verranno utilizzati dagli Stati membri europei potrebbe essere la risposta concreta alle preoccupazioni che vedono contrapposte le ragioni ambientali e le ragioni economiche e sociali. 

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In un’epoca di crisi climatica e di povertà sempre più diffusa infatti è forte la narrazione per cui solo i ricchi possono permettersi di partecipare alla riduzione delle emissioni – dall’efficienza energetica alla mobilità elettrica – a discapito peraltro dei più poveri. Il nodo è tutto qui, fare in modo che i soldi impiegati sui due filoni previsti – efficienza delle abitazioni e mobilità sostenibile – arrivino davvero a sostenere i soggetti più vulnerabili, dalle famiglie alle microimprese. 

Anche il governo italiano ha elaborato il proprio piano, presentato come previsto alla Commissione europea alla fine di giugno 2025. L’Italia sarà il terzo beneficiario dopo la Germania e la Francia con 7 miliardi circa (7.023.970.924), a cui si aggiungerà il 25% di cofinanziamento nazionale. 

Un’analisi utile a capire la posta in gioco viene da un documento presentato in occasione dell’avvio della terza fase della consultazione pubblica sul Piano Sociale per il Clima da undici organizzazioni e reti (Forum Disuguaglianze e Diversità, Legambiente, WWF, Transport & Environment, Caritas Italiana, Clean Cities Campaign, CNCA, Greenpeace, Kyoto Club, MIRA Network e Nuove Ri-Generazioni), che hanno elaborato osservazioni puntuali e proposte di miglioramento alle misure contenute nel Piano italiano. Le organizzazioni hanno denunciato l’assenza di un’analisi di impatto sociale del sistema ETS2 sui soggetti vulnerabili, nonché la mancanza di una strategia complessiva e di coerenza tra le misure proposte. Queste lacune rischiano di compromettere l’efficacia del piano e di minare il raggiungimento degli obiettivi climatici e sociali dichiarati (qui per leggere il documento completo).

L’obiettivo è fare in modo che il nostro Paese non perda questa occasione e utilizzi i fondi non per il solito sistema di bonus e controbonus ma per avere appunto un piano strutturale, una strategia, per tenere insieme le politiche climatiche con quelle sociali. Il Piano deve essere lo strumento per mettere fine all’incertezza. Ma deve anche essere coraggioso e a questo proposito prevedere, come si fa, un obiettivo del solo 30% di efficientamento ci sembra molto lontano dalle possibilità tecnologiche a nostra disposizione che potrebbero farci arrivare all’80% dando una mano concreta a combattere il caro bollette (leggi qui l’editoriale su Domani).

Un terreno emblematico dell’intreccio tra politiche di decarbonizzazione e politiche sociali è quello delle abitazioni. Secondo l’ultimo sondaggio Eurobarometro condotto per conto della Commissione Ue, emerge che per oltre la metà (51%) di cittadini e cittadine europei che abita in città la “mancanza di alloggi a prezzi accessibili” è il problema più grave e urgente da affrontare, ancora prima della disoccupazione (33%), della carenza di servizi pubblici di qualità (32%) e della povertà (32%). Sempre secondo l’Eurobarometro, nonostante le preoccupazioni per i costi, quasi nove persone intervistate su dieci (88%) pensano che la loro città potrebbe trarre vantaggio dalla ristrutturazione degli alloggi esistenti per ridurre le bollette energetiche, costruendo nuovi alloggi a prezzi accessibili (83%) e controllando i prezzi degli affitti (82%). Fare in modo che questa richiesta di “casa” sia anche una richiesta di “casa efficiente” e quindi meno costosa deve essere l’obiettivo. È nota infatti l’ostilità sociale diffusa ed ampiamente orchestrata verso un’altra importante politica europea per la decarbonizzazione, la direttiva europea sulle Case verdi (EPBD) che impone di riqualificare entro il 2035 da 2,6 a 3,7 milioni di case italiane. 

Per questo è davvero una buona notizia che dalla Commissione Europea siano finalmente arrivate in questi giorni indicazioni più precise per dare piena attuazione alla direttiva EPBD sul rendimento energetico degli edifici. Una direttiva strategica perché contribuirà a rafforzare l’indipendenza energetica, a ridurre le bollette e le esigenze di investimento della rete. Aiuterà inoltre l’UE a raggiungere l’obiettivo di efficienza energetica riducendo il consumo di energia dell’11,7% entro il 2030, e favorendo l’introduzione delle energie rinnovabili negli edifici. La sua implementazione poi dovrebbe finalmente dare stabilità e rilanciare il settore delle costruzioni favorendo investimenti senza consumare nuovo suolo. 

Come ha ricordato il Commissario per l’Energia e l’edilizia abitativa Dan Jørgensen, “più della metà del consumo di gas in Europa avviene negli edifici, che sono responsabili di circa il 40% del consumo di energia e delle emissioni. Migliorare le prestazioni energetiche dei nostri edifici è un bene per il clima ed è un bene per i nostri cittadini. Una casa più efficiente significa bollette energetiche più basse e una migliore qualità della vita. Le misure che adottiamo aiuteranno gli Stati membri ad attuare il percorso che abbiamo scelto insieme per rendere il settore europeo degli edifici decarbonizzato e più competitivo”. 

a cura di Forum Disuguaglianze Diversità

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