Dilazioni debiti fiscali

Assistenza fiscale

 

Ristrutturazioni Aziendali


Opportunità uniche acquisto in asta

 ribassi fino al 70%

 

Sommario: 1. Interessi in gioco e
nozione di “bene comune”. – 2. “Fine aziendale” e
continuità d’impresa nell’ottica del bene comune: insolvenza,
colpa e responsabilità.
– 3. La necessità di una cesura
tra proprietà e gestione: tra novità e occasioni mancate – 4. Conclusioni.

1. Interessi in gioco e nozione di “bene comune”

Opportunità uniche acquisto in asta

 ribassi fino al 70%

 

Da qualche tempo a questa parte sembra aver
fatto definitivamente breccia nel comune sentire la necessità di considerare
l’imprenditore come un soggetto orientato non soltanto alla ricerca della
massimizzazione del profitto ma anche al perseguimento di obiettivi più legati
ad una dimensione collettiva. In questa chiave va certamente letta la spinta
normativa, accompagnata ad incentivi e stimoli pubblici, verso modelli
aziendali che combinano la componente lucrativa con la capacità di favorire un
impatto positivo sulla società nel suo complesso; ne sono esempi paradigmatici,
tra gli altri, la disciplina dettata in materia di “società benefit”[1]– realtà
che indirizzano la propria mission verso finalità di guadagno ma anche
di beneficio sociale
– e quella in
tema di bilancio di sostenibilità, attraverso cui l’impresa dà conto delle
proprie performance in ambito “ESG”[2].
In questa logica, la governance deve essere in grado di coniugare lo
scopo lucrativo, che rimane indispensabile nell’ottica dei soci che
conferiscono il capitale di rischio (e che mirano ad una adeguata remunerazione
del medesimo), con un obiettivo di più larga portata, che riguarda il
contributo dell’impresa alla crescita e al progresso della comunità in cui
opera[3]:
che riguarda, in altre parole, il suo contributo al bene comune. Si fa
quindi strada, nell’indirizzo del regolatore, la tendenza ad assecondare quei
comportamenti che nell’analisi sociologica possono essere definiti “intelligenti
(in contrapposizione ai comportamenti predatori), in quanto finalizzati a
perseguire contemporaneamente il proprio interesse individuale e l’aumento del
benessere collettivo[4].

Questo contributo, dopo aver brevemente
inquadrato (senza alcuna pretesa di organicità e tanto meno di completezza) il
contesto entro cui si colloca il dibattito sul c.d. fine aziendale, intende allora
indagare se e in che misura il riformato diritto concorsuale italiano abbia
recepito – o meno – il passaggio in atto verso modelli di impresa, anche nei
suoi momenti di crisi, più intelligenti e sostenibili[5].

 

2. “Fine aziendale” e
continuità d’impresa nell’ottica del bene comune:
insolvenza, colpa e responsabilità.

La necessità di guardare con nuove lenti agli effetti che l’attività
d’impresa produce sulla collettività muove da un assunto da tempo presente nel
dibattitto sul “fine aziendale”: quello per cui tale fine non dovrebbe ridursi alla
somma degli interessi dei soci e nemmeno di quelli degli stakeholders (se
con essi si identificano i soggetti portatori di specifici interessi in una
determinata impresa[6]). E ciò
in quanto, come la storia recente ci ha insegnato, l’impresa genera esternalità
positive e negative – sull’economia, sull’ambiente, sulla salute e su tutto ciò
che ha un valore tangibile per le persone – che possono investire una comunità molto
più estesa di soggetti[7]. Il
modo in cui l’impresa è gestita non è quindi un “affare” dei soli soci o di
coloro che hanno rapporti diretti con l’impresa, poiché il conto, spesso
salato, di una gestione dissennata (si pensi al danno all’ambiente, o a quello
alla salute pubblica) viene pagato dall’intera collettività. Una gestione
“intelligente”, nel senso sopra ricordato, deve quindi tendere a combinare gli
interessi (più che legittimi) dei soci con quelli più ampi della comunità in
cui opera. E per farlo, deve anzitutto provvedere affinché sia salvaguardata la
continuità aziendale nel rispetto degli impegni assunti, perché
l’incapacità di onorare tali impegni – e la conseguente crisi dell’impresa –
può generare un pregiudizio non solo ai portatori di capitale e ai titolari di un’aspettativa
diretta, ma ad una cerchia di soggetti molto più vasta.

Il perseguimento della continuità aziendale diventa così, se attuato su vasta
scala, un fattore di benessere collettivo. Si tratta di un obiettivo che implica
l’adozione di “scelte sociali”, indirizzate a conciliare l’utilità
individuale – imprescindibile in qualsiasi sistema di mercato – con l’utilità
generale[8]. La
cronaca dell’ultimo periodo è ricca di esempi, positivi e negativi, che
richiamano un tale tipo di scelte gestorie. E tra gli esempi negativi, non
possono non essere menzionati quelli di realtà, anche molto significative,
nelle quali la generazione di lauti dividendi a breve termine per gli azionisti
è andata completamente a scapito di investimenti e produzione (secondo una
logica di medio-lungo periodo più coerente con l’utilità collettiva),
determinando un crollo di volumi e quote di mercato, oltre che la perdita di
posti di lavoro[9].

Mi sembra pertanto difficile, nell’attuale
contesto, non condividere l’approccio di quella dottrina economica che da tempo
propone di considerare l’impresa come un istituto portatore di un fine distinto
da quello dei singoli soci, in quanto investita di una autonoma responsabilità
sociale (secondo il paradigma della Responsabilità Sociale d’Impresa)[10]. In
questo scenario, che si evolve molto rapidamente, la “teoria dell’agenzia” –
secondo la quale i soci sono i “principals” e gli organi di governogli
agents” a diretto servizio dei primi, nell’esclusivo interesse dei
quali si trovano ad operare – non costituisce più un modello in grado di dare
conto in modo convincente delle nuove complessità che interessano l’attività di
impresa.  L’organo gestorio dell’impresa,
in grado di incidere su differenti categorie di interessi diffusi, deve allora
potersi emancipare, almeno in parte, dal controllo di azionisti mossi dalla (sola)
finalità di rendimento residuale sul capitale investito, ricercando un punto di
mediazione tra le legittime aspettative di costoro ed il bene comune. In questa
chiave, il board non è (o meglio, non è soltanto) un agente disciplinato
di chi conferisce il capitale, ma diventa il soggetto che rende possibile
l’equilibrio tra profitto e responsabilità sociale dell’impresa, consistente
anzitutto nella necessità di assicurare la durabilità di quest’ultima. Questa è
la premessa giuseconomica che ha portato il legislatore ad incentivare la
previsione per via statutaria di requisiti di indipendenza dell’organo
amministrativo[11] nonché,
per le realtà – si pensi alle società quotate o alle banche – che più di altre
possono interferire con la tutela di beni comuni (quali il mercato del
risparmio e l’esercizio del credito), a stabilire per via normativa che tali
requisiti siano rigorosamente rispettati, sulla base di una disciplina di
dettaglio[12]. Come è
stato efficacemente osservato[13],
affermare che l’impresa debba essere gestita non solo nell’interesse dei suoi
soggetti economici (shareholders) ma, anche, in nome di interessi di
portata più ampia non significa affatto disconoscere i fondamenti del sistema
capitalistico, che vede nel profitto il motore della crescita e la ricompensa
per chi ha investito capitale di rischio. Significa invece orientare la mission
dell’impresa verso la “creazione di valore sostenibile” in funzione di
un modello meno predatorio e più “intelligente”, favorendo una gestione capace
di salvaguardare la durabilità e la continuità aziendale.

I riflessi di un tale nuovo modo di intendere il
rapporto tra l’impresa e l’ecosistema (economico e non solo) in cui questa si
colloca ha trovato nella legislazione più recente diversi sbocchi applicativi.
Si pensi, su tutti, alle molte norme di incentivo rispetto alle funzioni di compliance
aziendale, che mirano a sviluppare una nuova consapevolezza per la tutela di
altrettanti beni della collettività: la formazione etica, il rispetto
dell’ambiente, l’evoluzione verso la parità di genere e così via.

Aste immobiliari

 il tuo prossimo grande affare ti aspetta!

 

Se, allora, la continuità aziendale costituisce
un “bene comune su cui tutti dovrebbero convergere[14],
mi sembra chiaro come il rischio d’impresa, e segnatamente il rischio di vedere
pregiudicata la continuità dell’impresa stessa, non riguardi più tanto e solo l’aspettativa
dell’imprenditore di ottenere successo dalla propria attività economica; tale
rischio si lega piuttosto all’eventualità che una gestione imprudente, che
porti alla decozione dell’impresa, generi esternalità negative in danno della
collettività. Ed è precisamente questa la ragione che ha portato il legislatore
ad introdurre un dovere molto penetrante a carico dell’imprenditore, e cioè
quello di approntare un “assetto organizzativo, amministrativo e contabile
adeguato alla natura e alla dimensione dell’impresa
” (art. 2086, comma 2,
c.c.) per cercare di intercettare in anticipo i segni premonitori della crisi
ed evitare così l’insolvenza[15]. Il
principio che sta alla base di tale scelta di policy normativa non
potrebbe essere più chiaro: l’insolvenza, in sé considerata, non è una colpa
dell’imprenditore (che deve ritenersi, con tutti gli accorgimenti del caso,
“libero” di fare scelte sbagliate secondo un principio di tendenziale
discrezionalità[16]); lo
diventa però se non è impedita quando è ancora possibile farlo. L’obbligo di
dotare la propria impresa di assetti adeguati rappresenta così il termometro
della responsabilità dell’organo di gestione e di quello di controllo[17]. E la portata
di una tale responsabilità va misurata guardando alla concreta estensione del
rischio, che non si risolve in un “affare” tra debitore e creditori ma assume
inevitabilmente una latitudine diversa. Come è stato correttamente osservato[18], il
rischio d’impresa che gli assetti mirano a fronteggiare consiste nel rischio
che l’impresa determini esternalità negative – e tra queste, proprio
l’insolvenza – che non assorbe e che scarica sulla collettività, e cioè sulla
società civile.

Le considerazioni che precedono ci portano
inevitabilmente a riflettere sul grande tema della responsabilità
dell’imprenditore-amministratore il quale, invece di salvaguardare la
continuità aziendale adottando tutti i presìdi necessari a scongiurare
l’insolvenza, conduca colpevolmente l’impresa al dissesto generando un danno
diffuso alla collettività. Sul fronte delle conseguenze patrimoniali tale
comportamento è sanzionabile, per ciò che attiene ai “danni arrecati alla
società, ai soci, ai creditori ed ai terzi
”, adottando il metro stabilito
dal novellato art. 2486 c.c., che prevede un’entità del risarcimento secondo il
criterio dei netti patrimoniali o, in subordine, secondo la differenza
aritmetica tra attivo e passivo. Al di là delle difficoltà, illustrate da una
ricca elaborazione giurisprudenziale anche recente, che ancora accompagnano la
concreta determinazione del danno risarcibile[19],
la questione di fondo (almeno per ciò che concerne i limitati scopi di questa
analisi) si lega alla necessità di individuare
correttamente i soggetti legittimati attivi alla proposizione della relativa
domanda giudiziale.
Legittimati attivi all’azione sono infatti in forza degli artt.
2392 ss. c.c. la società per ciò che attiene alla perdita patrimoniale, i soci
per la diminuzione della quota di liquidazione loro spettante, i creditori
sociali nel caso in cui la violazione comporti l’insolvenza della società e il
socio o l’eventuale terzo comunque danneggiato, in quest’ultimo caso (solo)
allorché sia prefigurabile un’incidenza diretta del danno sul patrimonio di
tale soggetto[20].
Nell’ipotesi in cui la condotta dell’organo gestorio, che colpevolmente abbia
ignorato i segnali premonitori di una crisi poi sfociata in una vera e propria insolvenza,
abbia pregiudicato un diritto collettivo, si pone invece il problema di identificare
il soggetto concretamente leso, che possa invocare la tutela giurisdizionale. A
tale problema si somma altresì quello di individuare in termini rigorosi il
nesso causale tra la condotta dell’amministratore
negligente e il danno arrecato alla collettività, nonché il metro corretto di
valutazione di tale danno. Criticità, queste, che non trovano agevole soluzione
nella disciplina, ancorché riformata, delle azioni collettive
[21]. La class action mira infatti pur sempre ad
una più efficace tutela di
diritti individuali, che siano omogenei ad un
gruppo coeso di soggetti[22].

Se pertanto la condotta colpevole dell’organo gestorio che conduca
l’impresa al dissesto pone certamente il tema della lesione di un diritto
collettivo, resta di fondo un problema di effettività della tutela di tale
diritto. Nell’attuale “cassetta degli attrezzi” a disposizione del giurista non
sembra infatti presente un valido strumento a tutela della continuità
aziendale, allorché la stessa non sia intesa esclusivamente come presidio di
interessi individuali ma come vero e proprio bene comune. È inevitabile quindi,
in tale ottica, ragionare su mezzi diversi – più propriamente dissuasivi – che assolvano
ad una maggiore funzione deterrente e consentano di garantire una sanzione efficace
in presenza di comportamenti capaci di mettere a rischio non tanto e solo le
ragioni di uno o più soggetti determinati ma di un ecosistema più vasto.

 

3. La necessità di una
cesura tra proprietà e gestione: tra novità e occasioni mancate
.

Le considerazioni appena svolte vanno calate all’interno di un contesto,
come quello italiano, che si connota per la massiccia presenza di imprese in
cui il fattore “proprietà” si mescola con il fattore “gestione”. Sicché il
proprietario del capitale è anche, molto spesso, il soggetto da cui passano le
decisioni che interessano i destini dell’impresa. Tale soggetto è poi lo stesso
che nomina (e remunera) gli organi di controllo, che si trovano così non di
rado a sostenere un fragile compromesso tra un rigoroso esercizio dei doveri di
vigilanza ed interessi personali[23]. Questa
commistione, che vede molto spesso sovrapporsi il ruolo del socio che
conferisce il capitale con quello dell’amministratore che governa l’attività di
impresa, costituisce un connotato tipico del modello di società familiare di
gran lunga prevalente nel nostro sistema. Una tale interferenza, anche quando
non si traduca nell’identità soggettiva socio-gestore, è fonte di gravi
criticità allorché l’impresa sia colpita da una situazione di crisi che ne
metta a rischio la continuità. In questo caso, ancor più che in una situazione
ordinaria, gli amministratori dovrebbero infatti gestire l’impresa avendo come
stella polare non tanto l’interesse del proprio azionista, quanto quella dei
creditori e, più in generale, della collettività di soggetti interessati ai
destini dell’impresa stessa. È chiaro allora che in una fase di crisi il
soggetto-impresa deve poter uscire da un rapporto simbiotico con l’imprenditore
o con gli amministratori (nel caso di società), per realizzare l’interesse
collettivo alla propria conservazione – ove possibile – anche a dispetto delle
volontà di questi. In altre parole, l’accesso agli strumenti di regolazione
della crisi deve, o dovrebbe, segnare un momento di discontinuità rispetto alla
presenza attiva della proprietà e del management nella conduzione
dell’impresa.

Per quanto riguarda la proprietà, e quindi il ruolo dei soci, l’ordinamento
concorsuale riformato dal Codice della crisi e dell’insolvenza (di seguito
“Codice” o “c.c.i.”) ha cominciato (finalmente) a dare un primo assaggio di un principio
di fondo: la società è intangibile sul lato dei soci solo fino a che resta
solvibile[24], e
quindi solo finché garantisce la continuità aziendale e gli interessi
collettivi che con essa si intrecciano. Così, la scelta di azionare uno degli
strumenti di regolazione della crisi (così come la concreta determinazione dei
contenuti della proposta) è rimessa “in via esclusiva”, a norma
dell’art. 120 bis, comma 1°, c.c.i., alla volontà degli amministratori e
non dei soci, che sono estromessi da tale processo decisionale e conservano
solo (e ovviamente) il diritto di essere informati di tale scelta e
periodicamente aggiornati sull’evoluzione della situazione[25]. Nell’ottica del
legislatore, in questo modo, i poteri di intervento dei soci sono strettamente
correlati alle responsabilità che a tali soci fanno capo, essendo essi due
facce della stessa medaglia. In una prospettiva più ampia, del resto, la
responsabilità limitata dei soci tipica delle s.r.l. e delle s.p.a. può
giustificarsi solo allorché essa rimanga agganciata al rispetto delle regole
sul capitale. Così, se i soci hanno una responsabilità limitata al capitale
conferito e tale capitale è stato in tutto o in parte eroso dalla crisi (o non
è comunque sufficiente a garantire il soddisfacimento dei diritti dei
creditori, e ancor meno la realizzazione dell’interesse collettivo alla
continuità dell’impresa), è logico che essi siano sostanzialmente “tagliati fuori”
dalle scelte sui destini della società, che li vede proprietari solo sul piano
formale[26]. Sul
punto, è ampiamente nota – e sarà qui solo accennata – l’autorevole opinione di
chi ritiene che il criterio agganciato al capitale sociale possa di sovente non
essere per sé solo adeguato nella individuazione di una potenziale condizione
di crisi, sollecitando sul tema un complessivo ripensamento critico[27]. E ciò
in quanto tale condizione, il più delle volte, viene in rilievo (almeno
inizialmente) nella sua dimensione finanziaria prima che patrimoniale, come
testimoniano le previsioni dettate dal Codice in funzione dell’emersione
anticipata della crisi[28]. Allo
stesso modo, non sfugge il fatto che la funzione di
garanzia del capitale sociale – grazie al principio del “netto” che impone lo
scioglimento o la ricapitalizzazione (fatte salve le norme in deroga per le
imprese in crisi[29])
allorché tale capitale scenda sotto una soglia minima – non sia certo decisiva
nell’ottica dei creditori sociali, proprio perché l’insolvenza prospettica è di
regola correlata a deficit di natura economico-finanziaria, prima che a
carenze patrimoniali. In questa sede, nondimeno, il tema che viene in rilievo
non è tanto quello di individuare, ordinandoli per “gerarchia”, i diversi
indici di emersione del momento di inizio della crisi. Dato per assunto che
tali indici non si esauriscono evidentemente nella erosione del capitale sociale
al di sotto del limite legale, la questione in gioco è se – fermi gli
ulteriori e aggiuntivi strumenti impiegati per intercettare la condizione di
crisi
– la tenuta del capitale sociale possa costituire un fattore minimo
di legittimazione dei soci per l’esercizio delle prerogative “proprietarie”
sulla società. Altrimenti detto: si tratta di capire se l’eventuale
sottocapitalizzazione della società, lungi dal costituire l’unica prova
dell’incapacità della società stessa di sostenere con regolarità le proprie
obbligazioni programmate (nel senso che tale condizione potrebbe insorgere
anche a fronte di una situazione patrimoniale solida, ma in presenza di uno
stato strutturale di tensione finanziaria), sia comunque di per sé sufficiente
per rivelare una condizione di crisi – magari ancora solo latente – con ogni
conseguente effetto. A questo riguardo, mi sembra convincente quanto sostenuto
a proposito del fatto che la perdita del capitale opera in concreto “quale
sintomo del venir meno della continuità aziendale e della sostenibilità (in
chiave dinamica) dell’indebitamento assunto dalla società e, in ultima analisi,
dall’avvenuto raggiungimento (per non dire superamento) della soglia della
crisi medesima
[30].
Se così è, si pone in concreto una questione che riguarda il mantenimento da
parte dei soci dei poteri connaturati alla sottoscrizione del capitale,
allorché tale capitale sia stato – magari completamente – eroso nel corso della
vita della società. A mio avviso, l
a capacità di incidere sulle scelte
di fondo della società non può che trarre legittimazione concreta dalla reale
esistenza
del capitale di rischio: se invece i soci non sopportano più alcun
rischio di perdere il capitale investito, scaricando di fatto il rischio
d’impresa sui creditori[31], ogni
loro potere di governare la ristrutturazione della società può essere giustamente
sacrificato[32].

Vuoi acquistare in asta

Consulenza gratuita

 

Nella medesima ottica di una parziale compressione delle prerogative
“proprietarie”, Il Codice stabilisce che il piano per la soluzione della crisi possa
prevedere “aumenti e riduzioni di capitale anche con limitazione o
esclusione del diritto di opzione e altre modificazioni che incidono
direttamente sui diritti di partecipazione dei soci, nonché fusioni, scissioni
e trasformazioni
” (art. 120 bis, comma 2, c.c.i.)[33].

I soci subiscono quindi in concreto le conseguenze di decisioni a cui
non hanno preso parte, suggellate dall’intervento del Tribunale (mediante il
provvedimento di omologazione[34]) in
sostituzione dell’assemblea straordinaria. Intervento che si estende anche alla
fase attuativa del progetto di ristrutturazione, nella quale il Tribunale
demanda ogni necessario atto esecutivo agli amministratori, autorizzando se del
caso questi ultimi a provvedere alle ulteriori modificazioni statutarie
programmate nel piano (art. 120 quinquies, comma 1°, c.c.i.[35]). In
questo modo, si crea un valido argine contro comportamenti opportunistici dei
soci, che – spesso non avendo più nulla da perdere – possono essere indotti ad
ostacolare le iniziative (anche quelle dirette alla ricerca di nuovi
investitori) degli amministratori, adottate in autonomia rispetto al volere
degli stessi soci. Gli amministratori potranno (e dovranno) allora ricercare
sul mercato nuovo capitale di rischio in funzione del buon esito del
risanamento, senza preoccuparsi di avere il consenso degli shareholder.

Se la scelta di politica normativa di rafforzare il grado di
indipendenza del management dai soci è certamente apprezzabile, essa
tuttavia non risolve il vero problema di fondo: la previsione di tale
indipendenza è infatti fondamentalmente inutile laddove, come spesso accade,
gli amministratori siano gli stessi soci (o soggetti ad essi contigui). E ciò a
meno di non ritenere, con un vero e proprio atto di fede, che questi ultimi –
dovendo intervenire con il “cappello” di amministratori per fronteggiare
efficacemente la crisi – operino mettendo da parte ogni interesse egoistico. È
necessario, allora, ragionare su una necessaria discontinuità che riguardi non
soltanto, nelle ipotesi considerate, la proprietà dell’impresa ma che
interessi, in via generale, la gestione dell’impresa stessa. È
necessario cioè immaginare, in uno scenario di crisi, che l’impresa possa sviluppare
efficaci anticorpi nei confronti di un management che non ha funzionato,
prevedendo la possibilità (se non la necessità) di sostituire l’organo gestorio,
in funzione dell’interesse comune al proprio risanamento.

Il diritto concorsuale riformato dal Codice non contempla tuttavia una disposizione
generale idonea a tale scopo. La disciplina in tema di “Esecuzione
degli strumenti di regolazione della crisi (e segnatamente del concordato
preventivo) infatti – oltre a prevedere la possibilità che il tribunale assegni
al commissario poteri ad hoc in relazione all’attuazione della proposta (allorché
l’impresa debitrice non dia corso alla medesima[36]) – stabilisce nell’ipotesi
di inerzia degli amministratori due casi eccezionali di
revoca di questi e contestuale nomina di un amministratore giudiziario munito
dei necessari poteri: una che consegue alla denuncia del terzo che ha
presentato la proposta concorrente poi omologata[37];
l’altra che muove dalla richiesta di qualsiasi interessato e che riguarda
l’ipotesi in cui
il provvedimento di omologazione disponga modificazioni statutarie incidenti sui diritti di
partecipazione dei soci, ivi incluse riduzioni o aumenti di capitale (anche con
limitazione o esclusione del diritto di opzione)[38].

Al di là di tali specifiche eventualità – che
rappresentano di certo un passo significativo in avanti ma non possono di per
sé costituire un cambio generale di paradigma – manca un corpo di norme che inibisca
la possibilità di scelte discrezionali (e magari non disinteressate) del management
esistente, favorendo invece una maggiore capacità di incidere dei portatori di
interesse; che favorisca, quindi, la sola valorizzazione del going concern,
consentendo la massima realizzazione del bene della comunità in cui l’impresa si
trova ad operare.

Il rischio di condotte opportunistiche, allorché
sopraggiunga la crisi, è allora molto elevato. Come è stato efficacemente
osservato[39],
l’erosione del patrimonio netto pone un problema di azzardo morale, perché
favorisce operazioni ad alto rischio (a volte, vere e proprie scommesse) da
parte di chi ha ormai poco o nulla da perdere, finendo spesso per incrementare la
perdita a carico dei creditori sociali e, più in generale, per aggravare le
ripercussioni sulla collettività in cui l’impresa opera. Quand’anche poi gli
amministratori, avvedutisi del rischio default, decidano di promuovere
una proposta di concordato preventivo da sottoporre ai creditori, resterà
elevato il rischio di soluzioni velleitarie pensate nell’ottica di mantenere
saldamente in sella chi si sia dimostrato incompetente o, peggio, si sia reso
responsabile di condotte illecite.

Vuoi bloccare la procedura esecutiva?

richiedi il saldo e stralcio

 

Con riguardo a tali aspetti le esperienze
normative di fonte anglosassone – l’Administration di diritto inglese e
il Chapter 11 di diritto statunitense – si dimostrano, a tutti gli
effetti, modelli molto più orientati a favorire in presenza di uno stato di
crisi gli interessi della collettività rispetto a quelli degli shareholder
(o degli amministratori che di essi sono espressione)[40].
Allorché l’impresa sia colpita dalla crisi i sistemi di common law
tendono infatti, in linea generale, a concentrare l’attenzione su ciò che è
meglio per la comunità economica e sociale in cui l’impresa opera. E ciò, si
noti, anche quando l’interesse generale vada in senso opposto rispetto alle
velleità di continuità aziendale dell’imprenditore (che non può rappresentare,
quindi, un valore fine a sé stesso), richiedendo di contro di eliminare
velocemente dal mercato imprese rivelatesi inadeguate. Per realizzare tale
obiettivo, come è evidente, le leve decisionali devono necessariamente passare,
in tutto o in parte, dalle mani dell’imprenditore a quelle di chi sia
incaricato di rappresentare gli interessi collettivi in gioco.

Da questo punto di vista, l’esperienza dell’Administration
di diritto inglese – regolata dall’Insolvency Act del 1986, come
successivamente emendato (segnatamente dall’Enterprise Act del 2002) – è
probabilmente quella che più di altre appare ispirata a ragioni di sistema (a
ragioni, cioè, che hanno a che fare con il primario interesse generale) sin dal
proprio incipit. L’Administration prende infatti avvio in forza dell’iniziativa
che può essere assunta, oltre che dagli amministratori e dai titolari di un qualifyng
floating charge
[41] (nel qual
caso la procedura segue una “out-of-court route”), da qualunque
creditore che invochi l’incapacità dell’impresa di far fronte ai propri debiti[42]. Ciò
conduce, in tale ultima ipotesi, alla nomina dell’administrator in forza
di un provvedimento giudiziale (il court order), prodromico ad un
percorso di risanamento che favorisca la continuità aziendale ovvero che
assicuri comunque la migliore tutela degli interessi dei creditori[43].

Dal raffronto con il modello recentemente
riformato di diritto italiano emerge subito un dato di fondo. Nell’ordinamento
domestico gli strumenti di regolazione della crisi alternativi alla
liquidazione giudiziale[44] – siano
essi strumenti di diritto concorsuale (tra cui spicca il concordato preventivo)
o di natura stragiudiziale (come nel caso della composizione negoziata) – sono
infatti sempre rimessi all’iniziativa del solo imprenditore[45],
laddove al contrario l’administration di diritto inglese è
caratterizzata da un ruolo proattivo dei creditori sin dalla fase di avvio
della relativa procedura. Come è stato osservato, ciò connota l’administration
come strumento di regolazione di interessi collettivi in misura
sensibilmente maggiore rispetto al modello di diritto italiano[46]. Se la salvezza
dell’azienda e del suo indotto non costituisce – o non costituisce solo – la
somma di interessi individuali, non c’è dubbio infatti che la soluzione di diritto
inglese sia quella maggiormente orientata alla tutela della continuità
aziendale, intesa come bene comune che coinvolge una varietà indistinta
di soggetti e di gruppi sociali. Il dato empirico dimostra infatti che la
continuità aziendale può essere salvaguardata in modo efficace solo in presenza
di presidi efficaci che consentano l’emersione anticipata della crisi. Se così
è, anche gli strumenti giuridici di diritto italiano concepiti proprio in
funzione dell’emersione anticipata della crisi, come la composizione negoziata,
risultano in qualche modo azzoppati per il fatto di essere pur sempre rimessi all’iniziativa
dell’imprenditore (e, per le società, all’iniziativa dell’organo gestorio), scontando
l’inevitabile “prova di forza” con l’interesse personale di quest’ultimo. Allorché,
come accade nell’ordinamento inglese, qualsiasi creditore che dimostri
l’incapacità dell’imprenditore di adempiere alle proprie obbligazioni sia
legittimato a provocare l’apertura del procedimento, è chiaro che
l’imprenditore stesso sarà più facilmente indotto ad adottare misure preventive
per scongiurare la crisi. In altre parole, l’ampia legittimazione a propiziare
l’administration costituisce un reale strumento di allerta[47], costituendo
essa – diversamente da quanto può ravvisarsi nell’ambito degli strumenti di
regolazione della crisi di diritto italiano (nei quali l’emersione anticipata
della crisi è un principio molto declamato ma non sempre attuato) – uno stimolo
più che efficace a muoversi con solerzia[48].
In questo modo, nel diritto inglese si assiste ad una (più che condivisibile) dissociazione,
ove necessario, tra imprenditore e azienda (che rappresenta il vero obiettivo
della tutela), attraverso la valorizzazione di un percorso nel quale, come è
stato autorevolmente sottolineato, “assume rilevanza centrale l’attività imprenditoriale
a prescindere dal soggetto che di volta in volta la esercita
[49].   

Questa diversa impostazione di fondo trova conferma
anche nella fase attuativa dell’administration. Mentre il concordato
preventivo, fedele alla sua impostazione debtor-oriented, vede l’organo
gestorio dell’impresa rimanere saldamente in sella e governare il processo di regolazione
della crisi (quella stessa crisi che, in molti casi, ha concorso a
determinare), l’administration si caratterizza per la centralità della
figura dell’administrator, soggetto cui vengono conferiti ampi poteri di
gestione e di rappresentanza[50]. All’atto
della nomina di costui non si assiste alla cessazione automatica dell’organo
gestorio della società, ma la posizione di quest’ultimo viene ad essere
ampiamente marginalizzata. L’administrator assume così il ruolo di “agent
prima spettante all’organo gestorio ma – e qui si assiste al vero cambio di
prospettiva – non certo a servizio dei soci quanto piuttosto della comunità di
coloro che sono portatori di interessi specifici e diffusi nei confronti
società. Il potenziale conflitto che può generarsi tra administrator e
organo gestorio, allorché venga meno lo specifico dovere di cooperare in vista
del buon esito della procedura, è sempre risolto a scapito di quest’ultimo,
anche attraverso la minaccia della disqualification (di cui si parlerà
poco più avanti).

Nel corso dell’administration è prevista
una moratoria generalizzata rispetto ad eventuali “insolvency proceedings
ovvero ad ogni “other legal process” (con l’eccezione, in quest’ultimo
caso, delle azioni intraprese con l’assenso dell’administrator o il
permesso della Corte)[51];
moratoria che negli strumenti di regolazione della crisi di diritto italiano
passa necessariamente per la concessione, in forza di una valutazione del
tribunale, delle misure protettive sul patrimonio sociale. Anche qui, la
compressione dei diritti dei creditori rappresenta il logico contraltare,
nell’ordinamento inglese, rispetto alla profonda discontinuità della gestione:
spezzandosi il rapporto di agency tra proprietà e gestione, ed essendo l’administrator
il rappresentante (e garante) di tutti i portatori di interessi, è normale che l’ordinamento
assicuri un periodo di “decantazione” in funzione di uno degli obiettivi cui è
preordinata la procedura. Qui non si ravvisa il rischio, che induce invece il
giudice italiano ad un rigoroso bilanciamento di interessi nella concessione di
misure protettive, che la limitazione dei diritti dei creditori possa
costituire un espediente dell’imprenditore (alias, degli amministratori
in carica) per realizzare il proprio tornaconto senza reali prospettive di
risanamento, posto che l’administrator svolge una sostanziale funzione
di garanzia in favore di tutti i soggetti a vario titolo coinvolti nella crisi.
E proprio nel quadro di tale posizione di garanzia si delineano gli obiettivi
assegnati all’administrator, che deve porsi lo scopo del mantenimento della continuità aziendale (“
rescuing the company as a going concern[52])
solo laddove tale soluzione sia ragionevolmente perseguibile; solo laddove,
quindi, la continuità appaia la strada più opportuna da percorrere nell’interesse
generale
, senza che possano prevalere logiche di comodo legate
all’interesse contingente dell’imprenditore insolvente. Come è stato
efficacemente osservato a proposito del concordato preventivo, il nostro
ordinamento ammette invece di sovente la presentazione di vere e proprie “proposte
indecenti
[53],
che dietro il disegno effimero di favorire la continuità aziendale rivelano come
unico obiettivo quello di assicurare la sopravvivenza sul mercato di imprese
decotte. In questo modo aggravando esponenzialmente il danno per la comunità
dei portatori di interessi, invece di contenerlo. Non deve quindi stupire se
nell’ordinamento inglese, certamente più votato alla realizzazione
dell’interesse generale alla conservazione dell’impresa (più che a garantire
l’interesse particolare dell’imprenditore a perpetuare la propria esistenza),
si assista ad un sostanziale “passaggio di consegne” delle funzioni gestorie. È
proprio per effetto di tale passaggio di consegne che è specifico compito dell’administrator
(e non della vecchia gestione) formulare la proposta ai creditori, la quale può
avere ad oggetto alternativamente un “
voluntary
arrangement
” ovvero un “compromise or
arrangement
”, in quest’ultimo caso nel rispetto delle prescrizioni del Companies Act[54].
La centralità del ruolo dell’imprenditore
(ovvero,
per le società, dell’amministratore in carica)
, nel
sistema italiano, rimane invece sostanzialmente intatta, con alcune eccezioni
(più sopra ricordate) stabilite
in tema di attuazione delle proposte
di concordato concorrenti e in tema di esecuzione di operazioni societarie di
carattere straordinario.

La maggiore attitudine del modello inglese rispetto alla
realizzazione di interessi collettivi si coglie però anche, e soprattutto,
nella disciplina delle forme di deterrenza rispetto a nuovi fenomeni di mala
gestio
da parte di amministratori che si siano rivelati inadeguati. Come è
stato correttamente osservato[55],
i rimedi strettamente risarcitori non si dimostrano di regola idonei a
scoraggiare comportamenti opportunistici degli amministratori in prossimità
della crisi. Il diritto inglese conosce invece, sul piano delle misure di
carattere amministrativo, la disciplina della c.d. disqualification, a
cui consegue una sanzione interdittiva variamente modulata e di durata sino a 15
anni. È interessante notare come la disqualification rappresenti un
pilastro della corporate law inglese non necessariamente innestato in un
ambito concorsuale[56],
laddove le cause di ineleggibilità di diritto italiano sono per lo più
determinate dalla eventuale condanna penale (segnatamente per i reati di
bancarotta) in esito al default della società[57]. I
caratteri della disqualification, che in questa sede possono essere solo
accennati, ruotano intorno ad alcuni capisaldi generali, che rivelano la natura
segnatamente pubblica degli interessi tutelati[58]. Il primo
di tali caratteri riguarda le ragioni che possono condurre alla ineleggibilità
temporanea. Ragioni che si legano non solo ad una serie di ipotesi di illecito
(sono le ipotesi di “general misconduct”, variamente declinate in
violazioni di diritto penale e/o di diritto societario[59]) ma
anche, più in generale, ad una valutazione di inadeguatezza (“unfitness[60])
degli amministratori di società, su richiesta del Segretario di Stato ovvero,
in presenza di insolvency proceedings, del curatore. Nello specifico, la
Corte potrà valutare, dopo aver svolto ogni necessario accertamento in merito
all’esperienza gestoria del soggetto destinatario dell’ordine, l’incapacità di
costui a ricoprire la carica di amministratore in funzione della tutela del “public
interest
”. È inoltre prevista la possibilità per l’amministratore verso cui
sia stato promosso un procedimento rivolto al disqualification order di
ravvedersi mediante uno specifico impegno (il cd. disqualification
undertaking
) a non assumere nuove cariche per un determinato periodo;
conseguendo in tal modo una mitigazione della durata della sanzione a fronte di
una condotta collaborativa e responsabile.

La rilevanza della disqualification nell’ottica
della tutela dell’interesse pubblico – dell’interesse, cioè, orientato alla
salvaguardia di beni comuni come il mercato, la sicurezza e l’ambiente – si
coglie, oltre che nella funzione dissuasiva di tale istituto, nella stessa
connotazione della sanzione: più che colpire l’amministratore infedele o
inadeguato sotto il profilo economico (con i problemi di effettività a tutti
noti), la sanzione mira ad estromettere per un congruo periodo da posizioni
apicali di società coloro che con la propria condotta negligente abbiano
concorso a determinare la crisi e, in questo modo, abbiano generato un danno
alla collettività. La differenza di paradigma rispetto al modello italiano è
oltremodo evidente, perché la disqualification mira a prevenire
(attraverso la deterrenza) piuttosto che a curare (con condanne risarcitorie
spesso ineffettive), ma soprattutto perché essa crea validi anticorpi a favore
della collettività verso forme di mala gestio ripetute, evitando il
ripetersi di comportamenti in danno dell’interesse comune. In questo modo, il
diritto della crisi nell’ordinamento inglese assume una coloritura
pubblicistica, essendo orientato dal fondamentale principio a suo tempo
enunciato dalla Commissione Cork per il quale l’insolvenza non può essere
trattata “
as an exclusively private matter between the debtor
and his creditors; the community itself has always been recognised as having an
important interest in them
”. 

Aste immobiliari

l’occasione giusta per il tuo investimento.

 

 

4. Conclusioni

La stretta relazione tra continuità aziendale ed interessi collettivi e
le collegate questioni circa la “natura di problema sociale dell’insolvenza[61]
costituiscono oggi temi di preminente importanza nella riflessione giuridica.

Al netto di alcuni (importanti, ma ancora) limitati tratti di disciplina
introdotti dal Codice della Crisi, manca nell’ordinamento domestico una
direzione di fondo che valorizzi la necessità di tutelare la continuità
aziendale non tanto e solo nel solco dei rapporti tra l’impresa debitrice e i
propri creditori ma come presidio di un vero e proprio bene comune.

Anche guardando all’esperienza di altri modelli normativi, le soluzioni
in questo senso passano dalla necessaria discontinuità che riguardi tanto la
“proprietà” quanto la “gestione” dell’impresa. Con riguardo alla prima,
andrebbe condotta una seria riflessione sulla legittimità dell’“affidamento
fiduciario
[62] delle
risorse (scarse) di un’impresa al titolare del capitale, allorché la riduzione
(e a volte l’azzeramento) di tale capitale accresca il rischio di esternalità
negative a danno degli stakeholders. Con riguardo alla seconda, sarebbe
utile allo stesso modo immaginare meccanismi che consentano di estromettere dalla
conduzione dell’impresa chi, per dolo o per semplice incapacità, si sia
rivelato inadeguato al ruolo.

Ciò non significa legittimare una indiscriminata criminalizzazione degli
organi gestori di società, la cui sindacabilità delle scelte non può certo
essere messa in discussione; significa però responsabilizzare tali organi nell’ottica
di tutela del mercato e degli interessi della collettività, creando le basi per
un assetto più maturo delle relazioni tra l’impresa e l’ecosistema in cui essa
opera. 

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 


[1] Le società benefit hanno trovato riconoscimento nel
nostro ordinamento con la l. 28 dicembre 2015, n. 208 (“legge di stabilità”
2016). Con tale dettato normativo, il legislatore ha esplicitato “lo scopo di
promuovere la costituzione e favorire la diffusione di società, di seguito
denominate «società benefit», che nell’esercizio di una attività economica,
oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di
beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei
confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività
culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse
” (art. 1, comma
376). Tale connotazione implica l’adeguamento ad una serie di prescrizioni, e
comporta in particolare l’obbligo di redigere annualmente “una relazione
concernente il perseguimento del beneficio comune, da allegare al bilancio
societario e che include:
a) la descrizione degli obiettivi specifici, delle
modalità e delle azioni attuati dagli amministratori per il perseguimento delle
finalità di beneficio comune e delle eventuali circostanze che lo hanno
impedito o rallentato;
b) la valutazione dell’impatto generato utilizzando lo
standard di valutazione esterno con caratteristiche descritte nell’allegato 4
annesso alla presente legge e che comprende le aree di valutazione identificate
nell’allegato 5 annesso alla presente legge;
c) una sezione dedicata alla
descrizione dei nuovi obiettivi che la società intende perseguire
nell’esercizio successivo
” (art. 1, comma 382).

[2] “ESG” sta per Environmental, Social e Governance,
e compendia una somma di fattori che riguardano l’impatto dell’attività
sull’ambiente, l’impattosociale e i criteri di governo societario,
quest’ultimi legati segnatamente al tema della trasparenza delle decisioni
aziendali, anche con riguardo alla retribuzione degli organi apicali
dell’impresa (sul tema v., tra i molti, Montalenti,
Impresa, sostenibilità e fattori ESG: profili generali, in Giur. it.,
2024, 1190 ss., nonché Fimmanò, Articolo 41 della Costituzione e valori ESG: esiste davvero
una responsabilità sociale delle imprese?
,
in
Giur. comm., 2023, I, 777 ss.).
Le basi normative di tale paradigma hanno origine
nella legislazione unionale, a partire dal
Regolamento (UE) 2019/2088 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27
novembre 2019 relativo all’informativa sulla sostenibilità nel settore dei
servizi finanziari, sino alla Direttiva (UE) 2022/2464 del Parlamento europeo e
del Consiglio del 14 dicembre 2022 in tema di rendicontazione societaria
di sostenibilità (cd. CSRD). Quest’ultima
direttiva prescrive ad un crescente numero di società di adottare uno strumento
di rendicontazione specifico per le questioni ambientali, sociali e di governance,
al fine di migliorare la trasparenza e l’informativa sulla sostenibilità,
sottolineando così la rilevanza delle informazioni ESG nella considerazione
dell’affidabilità e dei rischi di una determinata azienda.
Come
è stato osservato (Pacchi, Sostenibilità, fattori ESG e crisi d’impresa, in Il Caso: Ristrutturazioni
aziendali
,
2023, 19-20
), la valorizzazione dei criteri ESG comporta pertanto
che le imprese vengano valutate non solo attraverso indicatori patrimoniali,
economici e finanziari, dovendo tali indicatori essere integrati dalla
misurazione delle performance relativamente all’impatto ambientale e
sociale e alla governance che ispira la loro attività. Sulla relazione con i
temi della crisi d’impresa v. anche
Tarolli-Riondato, Legami tra fattori ESG e crisi
d’impresa
, in IUS
– Crisi d’impresa
, 2025. Con riguardo alle questioni appena descritte va
segnalato inoltre, da ultimo, lo studio
pubblicato dalla Banca
d’Italiasu
Profili di sostenibilità e sopravvivenza delle imprese: evidenze delle
probabilità di fallimento su diversi orizzonti temporali
” del novembre
2024, che analizza la connessione tra le performance ESG dell’impresa e
la relativa possibilità di insolvenza (Ferriani-Pericoli,
ESG risks and corporate viability: insights from default probability term
structure analysis
, in Questioni di Economia e Finanza di Banca
d’Italia n. 892 di novembre 2024).Per un approfondimento sui fattori ESG nel
rapporto tra banca e impresa v. infine Schneider,
Prevenzione della crisi d’impresa e rischi ESG: il ruolo della finanza
sostenibile
, in Riv. dir. banc., 2023, 327 ss.  

[3] Si tratta di un contributo coerente con un assetto
più maturo del capitalismo, secondo il modello di “corporate
purpose
declinato da Larry Fink nelle
lettere annuali ai CEO delle società target degli investimenti di
BlackRock, segnatamente del 2018 e del 2021. Lo scopo dell’impresa, in
quest’ottica, deve contemplare un impegno tangibile a tutela dell’interesse
collettivo, non riducendosi pertanto alla ricerca del profitto, ma comprendendo
le diverse utilità a favore, oltre che degli azionisti, anche dei dipendenti,
dei clienti e più in generale dell’ecosistema in cui tale impresa opera.
Sul crescente ruolo sociale dell’impresa, nel contesto
storico attuale, v. le considerazioni di Tombari,
Corporate purpose e diritto societario: dalla
“supremazia degli interessi dei soci” alla “libertà di scelta dello scopo
sociale”?
, in Riv. Soc., 2021, 3.

[4] Il tema è stato trattato, sul piano delle tendenze
comportamentali, in un celebre e arguto volumetto di Cipolla, Allegro ma non troppo, Bologna, Il Mulino, 1988.

Sconto crediti fiscali

Finanziamenti e contributi

 

[5] Per un approfondimento sul rapporto tra principio di
libertà di iniziativa economica e gestione sostenibile dell’impresa v. Ambrosini
, L’impresa nella Costituzione, Bologna, Zanichelli, 2024 e, nel solco di quest’opera, Del Porto, Costituzione
e imprese (in bonis e in crisi) a partire dal volume di Stefano Ambrosini.
Brevi note a margine dell’art. 41 della Costituzione
, in Il Caso: Ristrutturazioni
aziendali
,
2025.
Sul concetto di sostenibilità nella vita dell’impresa, e
segnatamente nella sua fase di crisi, v. Maurutto,
Una, nessuna … centomila sostenibilità? Dal
window dressing alla sostenibilità relazionale e solidale nella gestione della
crisi d’impresa
, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2024. Sul tema del
rapporto tra sostenibilità e corporate governance v. anche
Rimini, Sostenibilità
e nuova governance delle imprese azionarie nel diritto interno e comunitario
tra realtà, criticità e prospettive
, in Giur. comm., 2024, I, 285 ss.

[6] È impossibile in questa sede (ed esorbiterebbe
comunque dai confini di questa indagine) dare conto delle tante teorie sul
finalismo aziendale che hanno contrassegnato il dibattito tra gli studiosi,
principalmente angloamericani. È doveroso però richiamare quanto meno le teorie
che hanno visto come “capostipiti” Friedman (
The Social
Responsibility of Business is to Increase Its Profits
, in The New York Times Magazine, 13 settembre 1970) e
Freeman (Strategic Management: A Stakeholder Approach, Cambridge
University Press, Cambridge, 1984). Secondo la teoria di Friedman (shareholder
theory), ogni azione dei directors dovrebbe essere orientata a
generare utili per i soci, dai quali tali directors ricevono la loro
investitura. Freeman sottolinea invece la
necessità
di bilanciare la creazione di valore per gli azionisti con la tutela degli
interessi di tutti gli stakeholder aziendali.

[7] È questa la premessa su cui si fondano i cardini
della legislazione concorsuale di diritto inglese (su cui si tornerà
diffusamente in questo contributo). Il Report of the Review Committee on
Insolvency Law
(meglio noto come “Cork Report”) al riguardo sottolinea che
The chain reaction consequent upon any given failure can potentially be so
disastrous to creditors, employees and the community that it must not be
overlooked
”.

[8] Tale tema evoca principi che qui possono essere solo
accennati, tratti dalla teoria delle scelte sociali e dall’economia del
benessere, che si rifanno al pensiero di Kenneth Arrow (Social Choice and
Individual Values
, John Wiley & Sons, 1951). Nell’elaborazione di
Arrow, ideatore del teorema dell’impossibilità, il benessere generale diviene
perseguibile a fronte di una parziale rinuncia all’utilità individuale, nell’ambito
di un processo di decisione collettiva. Per una ricostruzione generale v. Suzumura, Introduction to social
choice and welfare
, Temi di discussione, n. 442 – marzo 2002, Banca
d’Italia.

[9] Il pensiero va, tra i casi più recenti, alla vicenda
Stellantis, con una gestione che si è rivelata vantaggiosa principalmente nell’ottica
della remunerazione a breve termine degli shareholder (Auto, dalla
cura Tavares utili boom ma vendite a picco
, in IlSole 24 Ore,
venerdì 6 dicembre 2024). 

[10] Ne dà ampiamente conto Di Carlo, Interesse primario dell’azienda come
principio-guida e bene comune
, 133 ss. Sul tema della Responsabilità Sociale
d’Impresa si veda ancora Pacchi, op. cit., 6

[12] V., con riguardo alle società quotate, quanto
previsto all’art. 147 ter del T.U. della Finanza nonché, relativamente
alle banche, la disciplina dettata per gli “esponenti aziendali
all’art. 26 del T.U. Bancario.

[13] Di Carlo,
op. cit., 147.

[14] V. ancora Di
Carlo
, op. cit., 171.

[15] Sul tema degli assetti organizzativi finalizzati ad
una corretta gestione dell’impresa, anche in funzione dell’emersione tempestiva
della crisi, si vedano almeno Ambrosini,
L’adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili e il
rapporto con le misure di allerta nel quadro normativo riformato
, in IlCaso.it,
2019; Bastia, La continuità
aziendale e la dimensione strategica degli assetti, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali
,
2024; Calandra Buonaura, Corretta
amministrazione e adeguatezza degli assetti organizzativi nella società per
azioni
, in Giur. comm., 2020, I, 439 ss.; Cian, Crisi dell’impresa e doveri degli amministratori: i
principi riformati e il loro possibile impatto
, in Nuove leggi civ.,
2019, 1160 ss.; Montalenti, Il
Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza: assetti organizzativi adeguati,
rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma
,
in Giur. comm., 2020, I, 829 ss.; Onza,
Gli “adeguati assetti” organizzativi: tra impresa, azienda e società
(appunti per uno studio)
, in Riv. dir. comm., 2022, II, 1 ss.; Peta, Gli adeguati assetti societari
nel binomio “crisi – risanamento” d’impresa, responsabilità per gravi
irregolarità in situazione di “non crisi”. Spunti operativi per PMI
, in Diritto
della crisi
, 2024; Salvioli, L’adeguatezza
degli assetti contabili in relazione alle prescrizioni dell’art. 3, comma 3,
c.c.i.i.
, in IUS – Crisi d’impresa, 2025; Spolidoro, Note critiche sulla “gestione dell’impresa”
nel nuovo art. 2086 c.c. (con una postilla sul ruolo dei soci)
, in Riv.
soc.
, 2019, 253 ss.

[16] Sul controverso rapporto tra doveri
organizzativi e business judgement rule v. di recente Benazzo, Assetti organizzativi,
diritto dell’impresa e diritto delle società: dal passato a un (possibile)
futuro
, in Diritto della crisi, 2024, ove ulteriori riferimenti.

[17] V. al riguardo, segnatamente sulle ripercussioni
della mancata adozione degli assetti e di un’adeguata pianificazione
nell’aggravamento della crisi, Ambrosini, La continuità aziendale (diretta e indiretta) fra
diritto contabile e disciplina della crisi d’impresa. Profili ricostruttivi e
sottotipi concordatari
, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali,
2024, 10 ss.

[18] Palma, Gli
adeguati assetti, il rischio d’impresa e l’articolo 41 della Costituzione
,
in Norme e Tributi Plus, il Sole 24Ore, 13 luglio 2023.

[19] In tema, inter alia,
v. di recente Cass. 5 gennaio 2022, n. 198, in Soc., 2022, 541, con nota di Moioli
; per la giurisprudenza di merito v. Trib.
Torino 29 marzo 2024, in Il Caso:
Ristrutturazioni aziendali
, 2024. Sui profili specifici che interessano il
risarcimento del danno nel contesto liquidatorio v. anche in dottrina Jeantet-Midolo-Pollio-Vallino, Valore
di realizzo dei diritti risarcitori nell’alternativo scenario della
liquidazione giudiziale: il non semplice confronto tra stima e migliore
soddisfazione dei creditori e le evidenze non proprio empiriche
, in Diritto
della crisi
, 2024.

[20] Sugli assetti adeguati dell’impresa e le connesse
responsabilità risarcitorie in caso di crisi dell’impresa medesima v. tra gli altri, prima della riforma, Sacchi, La
responsabilità gestionale nella crisi dell’impresa societaria
, in Giur. comm.,
2014, I, 304. Più di recente v. Ambrosini,
Adeguatezza degli assetti aziendali, doveri degli amministratori e azioni di
responsabilità alla luce del codice della crisi
, in Callegari-Cerrato-Desana (a cura di), Governance e
mercati. Studi in onore di Paolo Montalenti
, Torino, 2022, 1703 ss.;
Jorio, Note
minime su assetti organizzativi, responsabilità e quantificazione del danno
risarcibile
, in Giur. comm., 2021, I, 812 ss.

[21] Al riguardo, la l. 12 aprile 2019 n. 31,
recante disposizioni in materia di azione di classe, ha introdotto il titolo
VIII bis (“Dei
procedimenti collettivi
”) nel libro IV del
codice di procedura civile.

[22] Art. 840 bis, comma 1°, c.p.c.

[23] Sul tema Negro,
Conversazione estemporanea sulla riforma dell’art. 2407 c.c., in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali, 2025.

[24] V. Stanghellini,
Continuità aziendale, garanzie rafforzate, in Norme e Tributi, il
Sole 24Ore
, 10 gennaio 2024.

[25] Discorre a tale proposito di “dissociazione tra la
figura del debitore e di detentore di strumenti finanziari
”, in presenza di
una condizione di crisi o di insolvenza, il contributo di Cadei, Debitore, soci e creditori nel
concordato preventivo in continuità
, in Il
Caso: Ristrutturazioni aziendali
, 2024,
8.

[26] In questi termini, da angolatura diversa (con riguardo al
tema della circolazione dell’impresa), Limitone,
L’assoluta inderogabilità della competizione nel concordato preventivo quale
regola di ordine pubblico economico
, in IlCaso.it, 2020, secondo
il quale “
Se il patrimonio è perduto,
le quote sociali non valgono più nulla, sicché i soci poco hanno da governare
ancora, e quindi perdono la possibilità di prendere decisioni vincolanti per i
creditori
”.

[27] In tema v. tra
gli altri D’Alessandro, “L’inutil
precauzione?” (ovvero: dell’insolvenza come esternalità e della funzione
profilattica del capitale
, in Di
Cataldo-Meli-Pennisi
(a cura di), Impresa e mercato. Studi dedicati a
Mario Libertini
, III, Milano, Giuffrè, 2015, 1334-1335, ove ulteriori riferimenti;
nonché Miola, La tutela dei
creditori ed il capitale sociale: realtà e prospettive
, in Riv. soc.,
2012, 237 ss. Si veda inoltre
Portale, La parabola del capitale sociale nella s.r.l.
(dall’“importancia cuasi-sacramental” al ruolo di “ferro vecchio”?)
, in Riv.
soc.
, 2015, 815. 
Più di recente v.
Bottai, La nozione civilistica
di insolvenza differisce da quella concorsuale? La rilevanza attuale del
capitale sociale
, nota a Cass. 16 giugno 2023, n. 17362, in Fall.,
1, 2024, 85-86.

[28] Art. 3, comma 3,
c.c.i.

[30] Benazzo,
Crisi d’impresa, soluzioni concordate e capitale sociale, in Riv.
soc.
, 2016, 261.

[31] Cfr. Strampelli,
Capitale sociale e struttura finanziaria nella società in crisi, in Riv.
soc.
, 2012, 660.

[32] Ciò dovrebbe valere pure per la s.r.l.
semplificata e a capitale ridotto ancorché per tali sottotipi si obietti da più
fronti che
il capitale sociale non avrebbe alcuna funzione garantista nei
confronti dei terzi creditori, bensì solo una funzione di tipo
organizzativo-contabile; cosicché, segnatamente, per esse non troverebbero
applicazione le
norme in
materia di riduzione del capitale per perdite proprie della s.r.l. ordinaria,
ai sensi degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c.

In contrario, si è osservato (condivisibilmente, ad avviso di chi scrive), che
in assenza di un’esplicita
norma di esonero delle s.r.l.s. e delle s.r.l.c.r. dall’applicazione della
disciplina della riduzione per perdite, non sembra si possa ritenere che la
funzione del capitale in queste s.r.l. a capitalizzazione ridotta possa essere
degradata a quella di mera quantificazione dei conferimenti iniziali, in quanto
tale conclusione è incompatibile con la responsabilità limitata dei soci
”. Pertanto, “[…] non pare ammissibile
il permanere di detta responsabilità limitata in una situazione di deficit del
capitale sociale causata dalle perdite subite, e ciò anche se la linea di
galleggiamento sia posizionata, nel caso delle s.r.l.s. e delle s.r.l.c.r., ad
un livello inferiore rispetto a quella delle s.r.l.o. Cosicché, se, nella
s.r.l.o., il concetto di perdita rilevante (a seconda dei casi, oltre il terzo
o sotto il minimo) matura partendo dal presupposto che la s.r.l. in questione
abbia il proprio capitale sociale stabilito in un dato valore nominale e che il
minimo di legge sia fissato in 10mila euro, nel caso della s.r.l.s. e della
s.r.l.c.r. si dovrà semplicemente partire dal presupposto che si tratta di
società con capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro e che il minimo di legge è,
appunto, stabilito in un solo euro
” (così
Busani-Busi, La s.r.l. semplificata (s.r.l.s.) e a
capitale ridotto (s.r.l.c.r.)
, in Soc., 2012, 1318 ss.)
.

[33] Allo stesso modo, onde evitare azioni ritorsive nei
confronti di amministratori poco graditi ai soci, è previsto che la revoca dei primi è inefficace se non
ricorre una giusta causa, che non può essere rappresentata dalla presentazione
di una domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi ove ne
ricorrano le condizioni (
art. 120 bis, comma 4, c.c.i.).

[34] In generale, sul tema relativo al ruolo del Tribunale
nell’ambito delle diverse fasi degli strumenti di regolazione della crisi (con
riferimento particolare al concordato preventivo) v. Ambrosini, Il controllo giudiziale nella fase di apertura
del concordato preventivo riformato con un cenno “al prima e al dopo”
, in Procedure
concorsuali e crisi d’impresa
, 2025, 153 ss.; Censoni, Note minime sul controllo giudiziale nel
concordato preventivo
, in Il Caso:
Ristrutturazioni aziendali
, 2024.

[35] V. in proposito Trib. Milano 30 maggio 2024 e Trib.
Monza 23 dicembre 2024, entrambe edite su IlCaso.it.

[36] Art. 118, comma 4,
c.c.i.

[37] Art. 118, comma 5,
c.c.i.

[38] Art. 120 quinquies, comma 1°, c.c.i.

[39] Amatucci,
Concordato preventivo e (dis)continuità del management tra Chapter 11,
administration e disqualification
, in Giur. comm., 2019, I, 839-840.

[40] Con riguardo all’ordinamento inglese, secondo la
Commissione Cork, cui si deve il disegno complessivo dell’Insolvency Act
del 1986, scopo fondamentale doveva essere quello di promuovere thehighest
standards of business probity and competence
”, nell’ottica del
perseguimento dell’interesse collettivo.
Ad avviso di Goode, Principles of Corporate
Insolvency Law
, London, Sweet & Maswell, 2011, 68
, “corporate insolvency has a negative impact on customers and suppliers;
by causing job losses, it tears the heart out of the employees and the local
community; in cases involving large-scale companies, even the national economy
may be threatened
”.

[41]I titolari di qualifyng floating charges sono costituiti
segnatamente da banche ed hanno, oltre ad un autonomo potere di impulso dell’administration,
la possibilità di influenzare la procedura promossa da uno o più creditori
sociali ovvero dalla società stessa.

[42] Sch. B1,
paras 11-12, Insolvency Act 1986.

[43] L’administration si propone, in quest’ordine di
priorità, uno dei seguenti obiettivi: “
(a) rescuing the company as a going concern, or (b) achieving a better result for the company’s creditors
as a whole than would be likely if the company were wound up (without first
being in administration), or (c) realising property in order to make a
distribution to one or more secured or preferential creditors
(Sch. B1, para 3,
Insolvency Act 1986).

[44] Per un quadro organico cfr. Jorio, Il diritto della crisi e
dell’insolvenza
, Torino, 2025, 118. Sulla composizione negoziata si vedano
almeno, tra i molti contributi, Costi-Castagnola-Sacchi-Jorio-Scognamiglio,
La composizione negoziata della crisi, in Giur. comm., 2023, I, 349
ss.; Ambrosini, Ancora sulle
“condizioni” dell’impresa – dalla precrisi all’insolvenza sanabile – e sulla
sua gestione nella composizione negoziata (con una chiosa in merito al recente
lapsus del legislatore)
, in Il Caso: Ristrutturazioni aziendali,
2025; Limitone, Degiurisdizionalizzazione
della crisi d’impresa e composizione negoziata: una figlia naturale non
(ancora) riconosciuta. Con notazioni a margine
, in Il Caso:
Ristrutturazioni aziendali
, 2022; da ultimo, Fabiani, Composizione negoziata della crisi: una “storia”
di successo?
, in Diritto della crisi, 2025. 

[45] Per la verità, l’art. 6, comma 1°, lett.
b) della legge delega per la riforma delle discipline della crisi di
impresa e dell’insolvenza
aveva previsto la possibilità di attribuire la
legittimazione anche a terzi per proporre il concordato “nei confronti del
debitore che versi in stato di insolvenza
”. Come noto, tuttavia, tale
previsione non ha trovato attuazione nel successivo Codice. In argomento Ambrosini, L’emersione tempestiva
della crisi e il concordato preventivo del terzo: dall’idea del “Progetto
Rordorf” alle previsioni del legislatore europeo
, in Il Caso:
Ristrutturazioni aziendali
, 2021, 14 ss.

[46] V. sul tema Ferri
Jr.
, Soluzioni concordate della crisi di impresa e autonomia privata,
in Ricerche giuridiche, 2015, 307. Cfr. anche Altieri, Concordato preventivo e administration tra
eteronomia e contrattualismo “asimmetrico” nella gestione dell’impresa in crisi
,
in Dir. fall., 2021, 127.

[47] In questi termini anche Amatucci, op. cit., 835.

[48] Sulla condotta “spesso riluttante” degli
amministratori nel riconoscere con solerzia lo stato di difficoltà economica
della società v. Pellegrinelli, Procedimento
e controllo giurisdizionale nella soluzione negoziale della crisi d’impresa
,
Milano, Giuffrè, 2011,87.

[49] Ambrosini,
il controllo giudiziale su domanda e piano concordatari e i compiti
dell’attestatore
, in Giur. comm., 2017, I, 394.

[50] Sch. B1, paras 59-75,
Insolvency Act 1986.

[51] Sch. B1, paras
42-43, Insolvency Act 1986.

[52] Sch. B1, para 3,
Insolvency Act 1986.

[53] Rossi, Le proposte “indecenti” nel concordato
preventivo
, in Giur. Comm., 2015, I, 331. 

[54] Sch. B1, para 49, Insolvency Act 1986.

[55] Brizzi,
Procedure di allerta e doveri degli organi di gestione e controllo: tra
nuovo diritto della crisi e diritto societario
, in ODC, 2019, 381.

[56] Baister,
An introduction to the insolvency law of England & Wales, in Cagnasso e Panzani (diretto da), Crisi
di impresa e procedure concorsuali
, Torino, 2025, Tomo 1, 176.

[57] Diversa è l’ipotesi delle cause di ineleggibilità che
colpiscono il “fallito”, inibendogli la nomina ad amministratore (art.
2382 c.c.).

[58] Sul tema si rinvia, tra gli altri, a Benocci, Controllo giudiziario sulla
gestione e forme collettive di esercizio dell’impresa
, Milano, Giuffrè,
2019, 81 ss.

[60] Sch. 6, Company Directors Disqualification Act 1986.

[61] Pacchi, op.cit., 19-20.

[62] Ginevra,
Il senso del mantenimento delle regole sul capitale sociale (con cenni alla
s.r.l. senza capitale)
, in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, 173.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Contributi e agevolazioni

per le imprese