Il rettore della “università commerciale”, demografo, spiega come la popolazione c’entri con lo sviluppo sostenibile. Non fare figli, avverte, non servirà a proteggere l’ambiente, anzi ci priverà dei giovani che potrebbero mettere a punto l’innovazione necessaria ad adattarci. Ma anche la bellezza, dice, è questione di sostenibilità. Nessun dietro front sulle politiche di diversity, equity & inclusion avversate da Trump. Il ruolo del Salone della Csr e dell’Innovazione sociale, che l’ateneo promuove e ospita
Continua il nostro viaggio fra personaggi che, a vario titolo, si occupano di sostenibilità per capire che cosa vedono dai loro punti di osservazione. Davvero stiamo tornando indietro? Davvero siamo pronti a rivedere quelle che, fino a pochi mesi fa, ritenevmo acquisizioni a un’idea di sviluppo sostenibile? Dopo il presidente di Assobenefit, Marco Morganti, è la volta del rettore della Bocconi, Francesco Billari.
Parlare di sostenibilità con Francesco Billari (Milano, 1970), demografo con una brillantissima carriera internazionale (Max Planck, Oxford) che guida l’Università Bocconi, significa guardare al mondo, alle generazioni che verranno, al loro ruolo. Il suo studio è nella storica Via Sarfatti, divenuta oggi strada interna di un bellissimo campus urbano. Ci arriviamo in una mattinata torrida, fendendo gruppi di studenti americani in arrivo alla summer school.
Professore, una volta la demografia c’entrava con la sostenibilità, perché si temeva che l’eccesso di popolazione “consumasse” il mondo. In Cina correvano ai ripari con la politica del “figlio unico”. Oggi si fanno i conti coi singoli Paesi a rischio invecchiamento insostenibile.
Era addirittura Malthus, quindi siamo 1798, a vedere la corsa tra popolazione e risorse (la prima tende a crescere più velocemente delle seconde, ndr). Il fatto che la crescita demografica potesse essere insostenibile perché le risorse erano finite, era già presente nel pensiero malthusiano. Il concetto moderno, che tira in ballo le generazioni, nasce a cavallo del periodo di più forte crescita demografica dell’era moderna, il quinquennio ’65 – ’70. Là nasce la preoccupazione della “bomba della popolazione” del Club di Roma e la crisi petrolifera del 1973 fa il resto. Prende vita l’idea di sviluppo sostenibile, formalizzata nel Rapporto Brundtland, a metà degli anni ’80. Quindi effettivamente è vero che le due cose vanno di pari passo e, a livello internazionale, le conferenze sulla popolazione o su popolazione e sviluppo erano anche sulla sostenibilità. Poi, a un certo punto, la parte ambientale ha iniziato ad andare un po’ per conto proprio e, per esempio, non c’è più stata la Conferenza mondiale sulla popolazione.
Insomma, siamo partiti pensando che le due cose, sostenibilità e demografia, fossero correlate ma poi…
Non ci siamo adattati quando il mondo è iniziato a crescere più lentamente e non ci siamo chiesti che cosa questo volesse dire per le generazioni che arrivavano.
Facciamo un esempio?
Nella Dichiarazione dei diritti dei diritti dell’uomo c’è l’idea che si possa scegliere, in modo libero e responsabile, il numero dei figli e anche quando averli. La logica era quella della limitazione: pensavamo che ce ne fossero troppi e che ognuno avesse diritto a quella che poi è stata definita salute sessuale e riproduttiva, il tema della contraccezione insomma. Non ci siamo adattati all’idea che, se non facciamo più bambini, non creiamo più le generazioni successive. Dobbiamo allora capire se questa è una veramente una scelta libera e quindi se dobbiamo occuparci anche dell’idea della creazione delle generazioni successive. Insomma, non vedere le persone solo con un problema. Tra l’altro c’è una questione.
Quale, professore?
Visto che ha parlato della Cina, l’essere demografi dilettanti è un rischio. Se cioè ci preoccupiamo – come è stato in una parte del movimento ambientalista – solamente il numero di persone e lo vediamo come il problema principale – al di là, del fatto che possiamo non essere d’accordo – arriviamo a politiche come quella del “figlio unico” e arriviamo all’invecchiamento molto veloce della popolazione.
La politica del “figlio unico” fece danno…
La politica del “figlio unico” ha creato generazioni che sono molto più piccole di quelle precedenti e così sta succedendo in Italia, per altro senza politica esplicite. Il punto è che non sappiamo che cosa succede, l’umanità non avendo mai avuto questa esperienza. Non sappiamo come sarà il mondo futuro. Come dico là dentro – e indica sul tavolinetto il suo ultimo lavoro, Domani è oggi, uscito per Egea – il mondo di prima era un mondo per piramidi demografiche, con i bambini che erano il gruppo più numeroso. Per la storia di umanità è sempre stato così. Adesso non lo è più, quindi anche il concetto di sostenibilità va rivisto, almeno in due modi.
Quali?
Cosa vuol dire un mondo in cui i bambini e i giovani sono pochi e pesano sempre di meno? Per esempio, alcuni elementi di progresso sono stati affidati, storicamente, anche alle proteste dei giovani. Ma quelle proteste dei giovani avranno peso se i giovani sono tanti. Inoltre, dovremo e poi dobbiamo adattarci anche all’idea che magari decidere di avere un figlio, diventare genitori, che è una scelta irreversibile, potrebbe far parte dei diritti umani. Un fatto che riguarda anche la sostenibilità: un mondo sostenibile è anche un mondo in cui si possa decidere di avere delle generazioni future.
Lei, personalmente, che idea si è fatto?
Che ci siamo un po’ divisi ideologicamente. L’approccio dei diritti, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo è corretto: la decisione di mettere al mondo figli deve essere individuale di coppia. Se ci rendiamo conto che bisogna mettere le persone in grado di raggiungere i propri desideri individuali e contribuire sia allo sviluppo economico-sociale, sia a quello che chiamiamo carriera, tutto ciò riguarda come vogliamo disegnare una società sostenibile. Sostenibile anche economicamente e socialmente: chi pagherà le imposte che ci permetteranno di sostenere il welfare? Chi pagherà per poter sostenere chi non si può permettere di lavorare, chi il sistema sanitario, chi l’assistenza sociale? Sono problemi di sostenibilità. In un mondo dove il cambiamento climatico è una realtà, chi porterà quelle innovazioni che ci permetteranno di adattarci al meglio? Quindi abbiamo bisogno di giovani. Il numero di nati sta calando nel mondo ma ci sono molti sbilanciamenti, quindi le migrazioni saranno inevitabilmente al centro di questo tema.
Spieghiamolo.
Da noi abbiamo la questione della cittadinanza, che è fondamentale. Cosa vuol dire “meritarsi la cittadinanza”, per uno che è nato e cresciuto in Italia? Perché ho sentito anche dire questo! L’Italia per essere sostenibile avrà bisogno, ovviamente, che si creino delle generazioni nuove, quindi un aumento della natalità. Ma ci vorranno anni. Per creare imprese, per lavorare, c’è bisogno, da subito, anche di integrare immigrati. È già successo. La popolazione italiana oggi ha 9,2% di stranieri residenti, sono 5,4 milioni, e circa 2 milioni di naturalizzati tra i residenti. Quindi un po’ meno di 7,5. Se li togliamo dai 59, torniamo alla popolazione di metà degli anni ’60 ma più invecchiata, con molti paesi e borghi abbandonati. L’anno scorso è stato il record negativo di nascite dall’Unità d’Italia a oggi: 370mila. Di questi, 50mila sono stranieri alla nascita, quindi saremmo a 320mila. E alcuni dei 320 hanno un genitore straniero, quindi non sono stranieri solo perché è uno dei due genitori è italiano. Ecco, dovremmo porci la questione di che cosa fare con questi 50mila del 2024. E poi ci sarebbero tutti gli anni in cui ci sono stati tanti bambini e, ancora, i piccoli che sono arrivati a uno-due anni. La sostenibilità del Paese si gioca anche con l’integrazione e l’accesso alla cittadinanza. Questo è assolutamente lapalissiano.
VITA ha dedicato un numero all’Italia che non vuol fare figli. I giovani intervistati hanno addotto varie ragioni: l’ansia per il cambiamento climatico, la preoccupazione per l’ambiente o, semplicemente, la realizzazione di sé. Qualcuno dice che è una generazione di individualisti.
A parte che lo sport in tutte le epoche storiche è sempre stato dare la colpa ai giovani: non abbiamo nessuna evidenza che i giovani siano diventati più individualisti. Anzi, abbiamo evidenza che il modello di welfare svedese, chiamato “individualistico” dal sociologo Gosta Esping Andersen, è un modello che ha sostenuto le famiglie, il fare famiglia. Ovviamente non ha sostenuto il modello tradizionale, è un welfare orientato al bambino, alla mamma ma anche al papà. Quindi non siamo più individualisti di altri. Poi c’è anche chi dice di non voler figli per motivi ambientali. Forse era necessario che ci fosse attenzione all’ambiente, però la sostenibilità, di nuovo, non è solo ambientale. Se vogliamo preservare un ambiente perfetto e non facciamo figli per questo, è una scelta individuale, però scientificamente non è molto fondata come idea.
Perché?
Perché in fondo un bambino, una bambina, potrebbero trovare delle soluzioni tecnologiche che ci permettono di affrontare il cambiamento climatico, difendere l’ambiente. In demografia c’è sempre questo contrasto tra la visione malthusiana, che dice “moriremo tutti”, con altre come quella di Ester Boserup, demografa-economista danese, che ammoniva: “Attenzione: a volte le pressioni hanno portato all’innovazione” e che sottolineava come Malthus non avesse ragione sulla sua idea della corsa tra popolazione e risorse. Nel lungo periodo è aumentata la popolazione e noi abbiamo il reddito pro-capite più alto della storia dell’umanità.
Come è accaduto?
Perché abbiamo tirato fuori innovazione tecnologica e idee. E stiamo meglio. Ovviamente non ci siamo accorti che c’era un problema di cambiamento climatico indotto. E così, come i cinesi non si erano accorti che col “figlio unico”, diminuiva sì il numero di nascite ma poi si trovavano a fronteggiare l’invecchiamento massiccio, qua non ci siamo accorti cambiamento climatico. Però c’è anche il resto: l’innovazione, la scienza, l’istruzione. Tutto questo viene generato dalle generazioni che arrivano.
La Bocconi ha una storica paternità sulla riflessione pubblica a riguardo della sostenibilità: quando arrivai a VITA, alla fine degli anni ’90, conobbi Giorgio Fiorentini, docente della Sda Bocconi che, frequentava spesso la redazione, e ce ne parlava, insieme alla necessità di far incontrare profit e non profit. Come rettore, le basta o auspicherebbe che se potesse fare di più?
Chiaramente non basta. La Bocconi è un’istituzione non profit. Siamo, dal 1902, parte del privato sociale. E sin dall’inizio l’università voleva contribuire al progresso economico-sociale creando un corso di laurea, in “economia e commercio”, che prima non esisteva. L’idea di economia e commercio – che poi è diventata scienza sociale, dati, giurisprudenza, government, scienze politiche – pensava anche all’impatto sociale. C’era proprio scritto, negli atti fondativi, si parlava di impatto sociale, di generazione di borse di studio, di mobilità sociale degli studenti. È il nostro Dna. È plausibile che, per molti anni, forse non sia stato l’elemento centrale dell’università, però è sempre stato nel Dna Bocconi. E si è iniziato a parlare in questi temi, ovviamente, anche nella parte più orientata all’impresa. Quindi c’è questa tradizione ma non ci basta: dobbiamo fare meglio.
Per esempio?
Per esempio, chi studia per avvocato in Bocconi può fare volontariato con uno stage a San Vittore, o nel quartiere di San Siro, aiutando le persone che hanno bisogno, e facendo un’esperienza bellissima che ricorda un po’ una prassi delle grandi scuole di legge degli Stati Uniti, dove il sostegno ai migranti senza documenti è spesso assicurato da studenti volontari, perché non si possono pagare l’avvocato. O, ancora, le borse di studio per i rifugiati. La nostra sfida, anche in termini di impatto e di terza missione, è avere un impatto globale, non solo sociale.
Vale a dire?
Anche aiutare l’imprenditorialità con un impatto globale. Per esempio abbiamo costituito questa fondazione insieme al Politecnico per le startup, perché Milano ha bisogno di diventare un hub importante per l’imprenditorialità. Per esempio, iscriviamo nel curriculum le attività di volontariato, quindi è un’iniziativa nuova. Per esempio, c’è una nuova prorettrice, Marta Cartabia, che ha il ruolo di coordinare le iniziative sull’impatto sociale.
Siete da tempo parte del comitato che ha fatto nascere il Salone della Csr, lo ospitate (quest’anno 8,9 e 10 ottobre) in questa location bellissima, la Bocconi Art Gallery, che documenta un altro aspetto del vostro impegno civico. Quanto è importante per voi questa manifestazione?
Prima di dirle del Salone, mi piace sottolineare che dal bello e dal fatto di essere in luoghi ispirati parte la costruzione di un futuro sostenibile. Noi educhiamo le generazioni successive, cerchiamo di spingere i colleghi a fare ricerca e per questo dobbiamo essere in luoghi belli e che danno ispirazione. Il mio lavoro precedente era a Oxford…
Bellezza garantita…
Esatto, ci sono questi college meravigliosi. Ecco, se posso fare una piccola lamentela…
Prego.
È normale, è giusto, che gli spazi di una istituzione che deve educare le generazioni future siano belli. In Italia a volte, invece, non abbiamo queste aspirazioni, a volte le nostre università (e le scuole, purtroppo ancora peggio), sono in edifici cadenti. Non dobbiamo accettarlo. Dobbiamo affermare che, nella nostra idea di una società sostenibile, ci sia anche il bello, e che la bellezza dei luoghi ispiri le generazioni. Una piccola digressione, se vuole, ma penso c’entri con la nostra conversazione,
C’entra eccome.
Anche perché invece sembra, a volte, che il bello sia un po’ uno spreco: affermazione che davvero in Italia fa un po’ ridere. No, il bello è ispirazione. Torno a Salone.
Torniamoci.
Per dire noi ne siamo davvero orgogliosi e speriamo che questa ospitalità sia sostenibile, che possa continuare per sempre. Perché fa parte del nostro Dna incontrare, tanto il mondo del privato sociale e che ospitare le aziende che sentono il peso della sostenibilità, da un lato, ma per le quali è anche un obiettivo. Tutto questo chiaramente è sempre più importante. Come per noi è importante essere partner dell’Oscar di bilancio, che oramai sta sempre più virando verso l’idea di integrare i temi di sostenibilità e responsabilità sociale di tutte le aziende. Quindi vogliamo promuovere tutto questo tema. E poi, se posso dire, ovviamente Bocconi non torna indietro in tema di diversità e di inclusione.
Ecco, glielo avrei chiesto.
Non si torna indietro perché, intanto, tutta la parte scientifica ci dice che la diversità fa bene alle nostre società. Al di là di considerazioni etiche, sarebbe un errore ignorare che il benessere che abbiamo raggiunto oggi nasce anche dall’interazione tra persone diverse. Abbiamo di fronte, dal punto di vista demografico, un’opportunità: tante generazioni diverse per la prima volta nella storia. Abbiamo contributi di uomini e donne, di persone con origini diverse. La scienza, anche economica, ci dice che fa bene all’economia e fa bene alla società.
Voi, se non sbaglio, avete anche una prorettrice dedicata…
La professoressa Paola Profeta si occupa di diversità, inclusione, sostenibilità. No, non torniamo indietro, non torniamo indietro e diamo ancora più borse ai rifugiati, ma perché questo è quello, tra l’altro, che ci renderà un’istituzione sostenibile in futuro.
Più in generale al “cittadino Billari”, che impressione fa questo riposizionamento di alcune aziende in tema di sostenibilità, dopo il ritorno di Trump?
Sono un ottimista: dico che, forse, quello che sta succedendo ci serve per poter distinguere le scelte genuine dalle altre. Il problema è poter effettuare una scelta, perché se sei adesso un ricercatore negli Stati Uniti, non puoi neanche presentare un progetto di ricerca sui temi della diversità, non puoi raccogliere alcuni dati. Ecco, anche per le aziende, diventerei pessimista se togliessimo la possibilità di scegliere come per gli atenei americani.
Perché questo accanimento contro il mondo accademico?
Dire che siamo diventati woke, che abbiamo esagerato, è un po’ cercare un capro espiatorio. Sono proprio preoccupato dall’idea che si attacchi il sistema universitario.
Paradossale, no?
Sì che il sistema universitario sia visto come un problema: il sistema universitario è la soluzione. L’umanità oggi e progredita, abbiamo i vaccini – certo qualcuno non crede neanche a quelli – però abbiamo Internet, abbiamo il nostro benessere, viviamo a lungo e la speranza di vita non è mai stata così alta, perché c’è il sistema universitario e della ricerca.
C’era una parte pessimista, allora.
Sì, per il fatto che si legittima l’attacco all’università. I filantropi che hanno deciso di togliere i finanziamenti, hanno aiutato a vedere come fare dell’università un target, un bersaglio. Mi preoccupa perché qualcuno potrebbe imitare ciò che è già successo in Europa, con la Central European University, che è dovuta andare via da Budapest e spostarsi a Vienna. È successo prima da noi, se vogliamo.
L’università fondata da George Soros, ce ne siamo scordati. Vengo a cose più belle: i ranking vi danno come ateneo sempre più importante a livello internazionale. Soddisfatto?
Sì, assolutamente. Non ci dobbiamo fermare e dobbiamo, dobbiamo tenere la nostra anima global e quella glocal. I ranking però dipendono dalla qualità dei professori: più va in alto, più i tuoi professori sono prestigiosi, più gli altri cercano di portarteli via. Un po’ come nel calcio: avevamo il campionato più bello del mondo e l’abbiamo perso. Ci sono nuovi attori che ci portano via i giocatori.
Questa è materia per la professoressa Ariela Caglio della School of management di Sda Bocconi, che si occupa anche di responsabilità sociale nel calcio, un’autorità scientifica in materia. Lei è tifoso?
Io sono tifoso dell’Inter, diversamente da Ariela che è milanista. L’Internazionale fu tra l’altro fondata nel 1908 per consentire a giocatori di tutto il mondo di giocare a calcio, perché la squadra che esisteva a Milano (il Milan, nato nel 1899, ndr), pur avendo il nome inglese ed essendo stando stata fondata da britannici, non voleva più far giocare gli stranieri. Ecco la Bocconi è nata sei anni dopo (ride). Ed era la città che usciva da Bava Beccaris.
E dalle sue cannonate sui poveri che protestavano. Nasceva l’Internazionale, nasceva la Bocconi.
Tra l’altro erano svizzeri e tedeschi, quei primi calciatori respinti: persone che adesso definiremmo “vicini di casa”.
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Nella foto di apertura, di Marco Ottico per LaPresse, il rettore della Bocconi, Franesco Billari. Nelle altre foto, tutte dell’autore. vari ambienti dell’ateneo milanese.
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