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Banca d’Italia – Simposio Economico “Ernesto Rossi”


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di Luigi Federico Signorini

Direttore Generale della Banca d’Italia e Presidente dell’IVASS

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Per acume, lucidità e coraggio, per il vigore polemico e l’efficacia con cui difese le proprie idee, Ernesto Rossi è una delle figure più significative del dibattito economico e civile italiano del dopoguerra. Animato da un riformismo radicale, da un risentimento acuto verso il privilegio e l’ingiustizia, Rossi, a differenza di chi vedeva nell’abbattimento dell’economia liberale di mercato l’unica via per combatterli, mantenne ferma la convinzione che il “regime individualistico” (così lo chiamò in Critica del capitalismo e Abolire la miseria), pur con tutti i suoi difetti, fosse elemento irrinunciabile per stimolare il progresso del benessere umano e per proteggere i valori della civiltà moderna; che andasse modificato e corretto, non abolito.

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L’Italia e l’Europa non sono certo più le stesse degli anni del dopoguerra, quelli in cui uscirono le sue opere più memorabili: Abolire la miseria, I padroni del vapore, Il malgoverno; per non parlare del Manifesto di Ventotene, di cui redasse le tesi economiche, e che risale all’epoca della guerra e del confino. Sicuramente, tra i tanti di cui scrisse, certi temi non sono più attuali; certe idee o proposte non hanno, francamente, retto alla prova del tempo. Così è forse per tutti. Tuttavia, alcuni aspetti chiave del sistema di pensiero che egli sempre vivissimamente difese – il dinamismo creativo proprio di mercati pienamente aperti e contendibili, l’importanza centrale, economica e civile, di un’azione pubblica impermeabile agli interessi particolari – restano, a mio avviso, di grande attualità. Sono anzi tuttora fondamentali per le sfide dell’Europa di oggi: un’Europa che, sul piano economico, arretra rispetto ad altre regioni del mondo; che dispone di uno straordinario capitale umano e di abbondante risparmio ma, ciononostante, fa fatica a finanziare l’innovazione e la crescita, ad accelerare lo sviluppo.

È in questa prospettiva che vorrei collocare il mio intervento sulla costruzione di un mercato europeo integrato dei capitali. È naturale cominciare con qualche parola su Ernesto Rossi: non tanto per ricordarne la figura (altri hanno il compito di farlo, con maggiore competenza della mia), quanto per sottolineare quegli aspetti delle sue idee che più ci interessano.

Ernesto Rossi fu persona di alta statura intellettuale e morale. Visse in un periodo duro. Poté perfezionare la propria formazione di economista solo in carcere, su testi reperiti con fatica. Il suo pensiero si era forgiato nel dialogo con Gaetano Salvemini, di cui fu (insieme a Carlo e Nello Rosselli, finché vissero) l’allievo più amato. Da Salvemini, da Antonio de Viti de Marco, da Luigi Einaudi aveva assorbito un rigoroso anti-protezionismo. Il suo ideale federalista trasse ispirazione dai lavori di Lionel Robbins, ma prima ancora dalle lettere che Einaudi iniziò a pubblicare come “Junius” sul Corriere della Sera quando la Grande guerra non era ancora finita. Fu molto influenzato dalla lettura, in carcere, dell’opera di Philip Wicksteed, uno spirito che doveva sentire affine. Li accomunava la convinzione dell’importanza di attenersi a una visione razionale e realistica dei meccanismi di funzionamento dell’economia, di valorizzare la capacità propulsiva dello sviluppo propria delle forze di mercato, senza compromettere in nulla la tensione politica e morale che li spronava a battersi per obiettivi di equità sociale.

Acquisì, da autodidatta, una solida competenza economica. Assimilò in pieno il metodo di una disciplina che cerca di indagare con rigore logico e analitico i meccanismi produttivi e distributivi, le forme di mercato, il benessere degli individui, il ruolo dello Stato. Nell’economia di mercato vedeva virtù e difetti. “Il libero gioco delle forze economiche, stimolate dal tornaconto privato – sostenne – […] presenta, nella società moderna, molti gravi inconvenienti […] Si devono abbassare, rialzare, spostare gli argini, costruire nuovi canali, elevare alcune dighe, demolirne altre, per regolare il flusso delle forze economiche, scaturenti dall’impulso del tornaconto individuale, e convogliarle nelle direzioni più rispondenti all’interesse collettivo.

Einaudi, liberale classico forse meno ansioso di lui di costruire dighe e scavare canali, ne ebbe tuttavia altissima stima e gli riservò un’amicizia che si potrebbe dire paterna. “Sa l’economia politica meglio dei nove decimi dei professori universitari italiani“, scrisse nel 1948 a Guglielmo Emanuel, direttore del Corriere della Sera. Gli fu di aiuto e conforto intellettuale negli anni della prigionia. Nell’immediato dopoguerra, sostenendo la sua conferma alla presidenza dell’Arar, lo descrisse a De Gasperi come uomo con “idee precise e giuste […] la forza di carattere necessaria per tutelare esclusivamente gli interessi pubblici.

Rossi ingaggia soprattutto una strenua battaglia intellettuale contro monopoli privati e posizioni di rendita, privilegi e degenerazioni clientelari. Depreca le incrostazioni corporative che hanno garantito l’esistenza “dei ceti monopolistici […] che sfruttano i consumatori, e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori. Dove non vi siano condizioni che naturalmente spingono verso il monopolio (nel qual caso è meglio averne uno pubblico, ritiene), si batte contro le norme che inibiscono il pieno manifestarsi di una fertile competizione economica.

Non agisce solo da pubblicista e studioso, ma anche da manager pubblico. Come presidente dell’Arar si preoccupa di non falsare la concorrenza, cerca anzi di favorirla. In questo ruolo dà un contributo non secondario alla ricostruzione postbellica; imprime – come è stato scritto – una “spinta decisiva alla diffusione della media e piccola imprenditoria, da quegli anni asse portante dell’economia nazionale. In assoluto, il suo capolavoro.

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Nel pensiero di Rossi l’unità europea rappresenta la premessa necessaria non solo per il dispiegarsi della crescita economica, ma anche della giustizia e della libertà in campo politico e sociale. Al di fuori di quel quadro – pensa Rossi – vi è solo frammentazione e impotenza, nonché il rischio costante del ritorno della guerra e di regimi totalitari. Ma delle potenzialità economiche insite nell’apertura dei mercati egli era perfettamente consapevole. “Una unificazione del mercato europeo che consentisse agli uomini, alle merci ed ai capitali di muoversi senza inciampi – scrisse in Abolire la miseria[…] costituirebbe una causa di progresso economico maggiore di quella che è stata, nel secolo scorso, la costruzione delle ferrovie.

Vide dunque lucidamente in un mercato unico europeo un poderoso stimolo allo sviluppo. L’edizione originale di Abolire la miseria è del 1946; i primi appunti, affidati alle lettere dal carcere, risalgono addirittura al 1934-35. Gli obiettivi che Rossi additava furono sanciti solennemente nel 1957, quasi con le sue stesse parole, dai trattati di Roma.

Realizzarli avrebbe richiesto molto tempo. Parecchi, importanti passi avanti si sono fatti nei quasi settant’anni trascorsi da allora; molto resta da fare.

L’Unione europea dei risparmi e degli investimenti è appunto la prossima tappa.

Vengo dunque al tema. Per inquadrarlo è forse utile ricordare alcuni semplici punti di partenza.

Garantire un futuro prospero a noi stessi e ai nostri figli richiede una crescita robusta e sostenibile. La crescita, a sua volta, richiede investimenti, allocati in modo efficiente. La materia prima per gli investimenti è il risparmio, nazionale o estero.

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In Europa non c’è carenza di risparmio, in particolare di risparmio privato. Dal 2010 il tasso medio di risparmio nell’area dell’euro è stato superiore al 13 per cento, a fronte di meno del 7 negli Stati Uniti. Durante la pandemia si è toccato un picco del 28 per cento, per tornare attorno al valore medio negli anni successivi. L’anno scorso i risparmi dalle famiglie europee hanno superato i 1.400 miliardi, il 15,3 per cento del reddito lordo disponibile.

Una parte non insignificante del risparmio europeo, grosso modo 300 miliardi l’anno netti, viene investita fuori dall’Europa. È l’altra faccia della medaglia del surplus di conto corrente: in Europa si investe meno di quanto si risparmia. Grazie essenzialmente all’accumularsi di avanzi di conto corrente, la posizione netta sull’estero dell’area dell’euro è oggi positiva per oltre 1.400 miliardi, il 9 per cento del PIL (quella dell’Italia, in termini relativi, è ancora più elevata). Ora, non c’è dubbio che una solida posizione sull’estero è un presidio di stabilità, prezioso in tempi difficili. Tuttavia, oltre certi limiti, uno sbilancio netto tra risparmi e investimenti ingente e protratto nel tempo può segnalare l’insufficiente attrattività di un’area e, guardando al futuro, può influire negativamente sulle sue prospettive di sviluppo.

Ho già detto che, come area in cui investire, l’Europa ha due grandi punti di forza: un robusto capitale umano – istruzione, ricerca – e un mercato assai ampio. L’interazione fra questi due fattori apre enormi potenzialità. Per realizzarle però c’è bisogno di un ambiente economico che agevoli l’innovazione (cioè, essenzialmente, l’osmosi delle idee tra l’ambito della ricerca e quello dell’applicazione), e di un’effettiva integrazione del mercato.

Aprire un discorso su come creare un ambiente favorevole all’innovazione ci porterebbe troppo fuori tema. La questione ha numerose, articolate implicazioni di policy. Mi limito a menzionarne una: la necessità di compiere in Europa scelte regolamentari, specie nei campi che si collocano alla frontiera della tecnologia, che contemperino i necessari presidi di sicurezza con la promozione della sperimentazione e del rischio, senza i quali il progresso tecnologico non può avvenire. Ve ne sono ovviamente molte altre; non affronto qui un argomento tanto ampio e complesso.

Consentitemi però di festeggiare il recentissimo conferimento del premio Nobel per l’economia a Philippe Aghion e Peter Howitt, che hanno dato contributi importanti alla comprensione dei meccanismi dell’innovazione radicale e al paradigma schumpeteriano della distruzione creatrice; insieme a Joel Mokyr, acuto storico delle rivoluzioni industriali e studioso dei fattori che favoriscono o frenano il progresso tecnologico. Il momento non poteva essere più adatto.

Torno dunque sull’altro punto: l’integrazione dei mercati.

Come ho premesso, dall’epoca dei Trattati di Roma i progressi compiuti nell’abbattimento delle barriere interne europee sono stati giganteschi; Ernesto Rossi e il suo mentore, Luigi Einaudi, non potrebbero che compiacersene. Ma nei mercati più importanti (merci, servizi, lavoro, capitale) restano altri passi da fare. Sull’ultimo tema, che è ciò che qui interessa, servono progressi in tutti i comparti del sistema: banche, assicurazioni, finanza di mercato. Vorrei menzionare, per ciascuno, le questioni che considero prioritarie.

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Innanzitutto, le banche. Banche solide e competitive hanno un ruolo cruciale nell’allocazione del risparmio e nel finanziamento degli investimenti: non solo in via diretta, come erogatrici di credito alle imprese, ma anche in via indiretta, perché favoriscono il funzionamento dei mercati dei capitali, fornendo liquidità e servizi di investimento agli operatori.

L’unione bancaria si trova in uno stadio decisamente più avanzato di quella di altri comparti finanziari. Dal 2014 la vigilanza sulle banche dell’area dell’euro si svolge in comune tra BCE e autorità nazionali. Norme e prassi armonizzate, il quotidiano lavoro fianco a fianco all’interno di gruppi di supervisione integrati, la piena condivisione delle informazioni, gli affinamenti metodologici frutto di riflessioni e interazioni costanti, danno vita nel loro insieme a un assetto fortemente unitario.

Chi ha vissuto in trincea, quindici e più anni fa, i giorni della crisi finanziaria globale, non può non rimarcare la differenza. Allora, in una situazione di acuta tensione, ogni supervisore nazionale doveva rispondere al solo mandato di preoccuparsi delle proprie banche; non esistevano prassi comuni consolidate; nonostante i canali di comunicazione che furono prontamente attivati, lo scambio di informazioni incontrava limiti giuridici e tecnici; mancavano strumenti istituzionali per gestire unitariamente il rischio sistemico a livello continentale.

Quei giorni sono lontani, in ogni senso; però il cammino non è ancora del tutto concluso. Mancano pezzi importanti. Manca un quadro comune per l’assicurazione dei depositi, a causa di antiche diffidenze e asimmetrie che non hanno più ragion d’essere. Nonostante alcuni recenti progressi, manca un framework efficiente, flessibile e credibile per gestire la crisi delle banche più piccole. Vanno abbattute le residue barriere all’attività bancaria transfrontaliera. Accolgo quindi con favore l’intenzione della Commissione di incoraggiare i co-legislatori europei a porsi, sull’Unione bancaria, obiettivi ambiziosi.

In campo assicurativo sono necessari progressi anche maggiori, come da presidente dell’Ivass ho più volte osservato. Anche le assicurazioni svolgono un ruolo centrale nell’allocazione del risparmio; in Italia, per esempio, il totale dei loro attivi è di quasi 1.100 miliardi, circa il 50 per cento del PIL; nell’Unione europea è poco meno del 60 per cento. Qui, nonostante che la normativa primaria sia comune, e nonostante l’impegno dell’autorità europea di settore per favorire una convergenza, normativa secondaria e prassi di vigilanza restano tuttora in parte disomogenee tra paesi. Per realizzare un mercato autenticamente unico delle assicurazioni ritengo che occorra un quadro di supervisione più unitario, specie con riferimento ai grandi assicuratori europei.

Aggiungo che in questo settore si sente in modo particolarmente acuto la mancanza di un sistema coeso di protezione dei consumatori. In assenza di una piena armonizzazione delle prassi, c’è qualche ineliminabile tensione fra il principio della libera prestazione di servizi tra diversi paesi membri, e l’altro principio per cui la responsabilità della vigilanza spetta esclusivamente al paese d’origine. Non occorre ricordare che in Italia abbiamo visto più di un caso recente in cui l’attività di assicuratori transfrontalieri ha creato rischi per i consumatori, senza che il supervisore nazionale avesse strumenti adeguati d’intervento. Sia chiaro: quand’anche fosse possibile, non auspicherei una rinazionalizzazione dei poteri; sarebbe un passo indietro. Auspico, al contrario, progressi significativi nell’integrazione dell’assetto europeo della vigilanza.

Quanto al mercato dei capitali, la Commissione europea ha emanato in marzo una comunicazione che annuncia una strategia per realizzare un’Unione dei risparmi e degli investimenti, della quale gli interventi sulla finanza di mercato costituiscono la parte più importante. Essa comprende un insieme di iniziative miranti a incentivare la partecipazione dei risparmiatori ai mercati, a stimolare l’aumento degli investimenti verso settori strategici, e a favorire un’integrazione delle infrastrutture di mercato e un maggiore sviluppo del settore del risparmio gestito.

La strategia contempla specificamente iniziative per integrare meglio l’assetto della supervisione sui mercati: semplificazione delle norme europee e nazionali, convergenza delle prassi di vigilanza, proposte per una supervisione più unificata. Sottolineo quest’ultimo punto. Semplificazioni e convergenza sono utili ma non sufficienti. Anche qui, pare arduo realizzare un mercato unico senza una supervisione di fatto integrata.

Un mercato dei capitali più fluido e coeso agevolerebbe anche lo sviluppo di operatori specializzati nel finanziare nascita e crescita di imprese innovative.

È noto che il risparmio europeo è fortemente orientato verso attività a basso rischio e basso rendimento, con un’elevata incidenza dei depositi bancari e dei titoli di stato. È particolarmente poco sviluppato il segmento dei fondi operanti nel medio termine. Il patrimonio gestito dai fondi di private equity in Europa è circa la metà rispetto a quello degli Stati Uniti. Il divario è ancora maggiore nel segmento del venture capital, idoneo a finanziare progetti innovativi, inerentemente rischiosi ma potenzialmente promettenti, e imprese nelle prime fasi di vita. Nel periodo 2020-24, gli investimenti medi annui nel venture capital nei principali paesi dell’UE sono stati, in rapporto al PIL, meno di un decimo di quelli degli Stati Uniti e poco meno della metà di quelli del Regno Unito.

Le cause di questi divari sono molteplici. Può anche darsi che essi riflettano in parte una diversa struttura di preferenze dei risparmiatori. Ma è compito delle autorità assicurare che non vi sia alcun ostacolo indebito che freni l’offerta di prodotti adatti a finanziare l’innovazione e lo sviluppo.

L’integrazione dei mercati è ancora una volta un elemento centrale. La modesta incidenza dei fondi specializzati risente sia della contenuta dimensione dei fondi europei, sia della scarsa presenza di intermediari esteri. Gli operatori stentano a raggiungere la scala che, in teoria, la dimensione complessiva del mercato europeo permetterebbe di conseguire. Investire in più paesi dell’Unione è oneroso per la frammentazione dei mercati finanziari nazionali, dovuta a sua volta, tra l’altro, alla diversità delle discipline societarie e fallimentari e dei regimi fiscali. Questa condizione limita le prospettive di crescita degli operatori e riduce le possibilità di disinvestimento.

* * *

Per affrontare le sfide attuali, per creare le condizioni più favorevoli per chi ha idee innovative e vuole svilupparle, per dare basi solide alle prospettive di crescita dell’economia europea, lo sfruttamento effettivo delle potenzialità del mercato unico è, insieme a una semplificazione delle relative regole, tra gli elementi più importanti. Abbiamo ripercorso alcune delle principali questioni da affrontare.

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Il nostro ideale non è una società fossilizzata dalle regolamentazioni burocratiche: è una società molto più dinamica della attuale“, diceva Ernesto Rossi. Facciamo nostre queste parole.


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