Rettrice della LIUC – Università Cattaneo e Direttrice generale di AIFI – Associazione Italiana del Private Equity, Venture Capital e Private Debt, la Professoressa Anna Gervasoni unisce esperienza e visione in un settore che sempre più incide sulla competitività delle imprese. Con lei abbiamo parlato dello stato del venture capital in Italia e nel mondo, delle opportunità per le imprese e del nodo ancora irrisolto del gender gap nel finanziamento delle startup e all’interno dei fondi.
Per inquadrare il contesto, è utile distinguere i tre principali strumenti di investimento alternativi al credito bancario. Il venture capital è il capitale di rischio che finanzia startup e imprese giovani con progetti molto innovativi ad alto potenziale di crescita, che devono presentarsi per la prima volta sul mercato. Il private equity interviene, invece, in aziende già mature, spesso PMI consolidate, per sostenerne lo sviluppo, l’internazionalizzazione o i passaggi generazionali, acquisendo quote rilevanti o di controllo. Aprire il capitale al private equity significa avviare un confronto con altri azionisti per un obiettivo sfidante di crescita, ricevendo, oltre al capitale, un supporto significativo nella realizzazione di progetti. Il private debt, infine, è una forma di finanziamento che non prevede ingresso nel capitale: i fondi, in questo caso, ragionano con l’impresa in un modo più moderno rispetto alla classica finanza bancaria, guardando non tanto alla storia, ma al futuro e alle progettualità.
D: Professoressa Gervasoni, in Italia molti imprenditori crescono con autofinanziamento o credito bancario. In che modo il venture capital può rappresentare un’alternativa strategica?
R: La cultura imprenditoriale italiana è spesso legata alla crescita organica. Il private capital in generale può fornire una alternativa per favorire la crescita esterna, tramite acquisizioni. Il venture capital, rappresenta una leva diversa: serve a fornire capitale di rischio ad imprese con progetti molto innovativi che devono partire e presentarsi per la prima volta sul mercato. Se guardiamo il listino statunitense, tra le prime dieci aziende al mondo per capitalizzazione, sette hanno ricevuto venture capital fin dalla nascita. Si tratta quindi di uno strumento che finanzia iniziative che hanno bisogno di supporto nello sviluppare progetti e si configura come una vera e propria partnership, in cui l’imprenditore viene affiancato da chi ha esperienza di sviluppo di nuovi prodotti e mercati.
D: Quali sono i settori oggi più attrattivi per gli investitori?
R: In Italia ed Europa osserviamo tre grandi filoni. Il primo è quello delle scienze della vita: biotech, nuovi farmaci, dispositivi e diagnostica. Il secondo riguarda le tecnologie digitali, dall’information technology all’intelligenza artificiale. Il terzo è quello delle nuove energie e della sostenibilità. Sono settori dove l’innovazione è veloce e dove il capitale di rischio può davvero fare la differenza.
D: I dati, però, mostrano che meno del 3% del venture capital globale va a startup fondate da donne. Come spiega un divario così marcato?
R: Purtroppo, è un dato reale: poche startup hanno donne come founder. E dispiace ancora di più vedere un divario così marcato perché si tratta di settori innovativi. Le donne ci sono, soprattutto nelle scienze della vita, ci sono tantissime scienziate e data scientist, ma le troviamo dietro le quinte. E quando si tratta di fare impresa sono più prudenti, quindi spesso non fanno il salto.
Una ricerca che abbiamo condotto tempo fa mostra che le donne hanno più difficoltà a raccogliere finanziamenti: appaiono più timide e spesso restano maggiormente legate al mondo scientifico piuttosto che a quello imprenditoriale. Così, però, perdiamo tantissimi talenti, soprattutto nei settori tecnologici. Questo non significa che i fondi non siano pronti a dare risorse, anzi.
D: Quanto pesa la scarsa presenza di donne nei team di investimento?
R: Il gender gap è un tema non solo italiano, ma anche europeo e internazionale. Nei fondi, soprattutto nel venture capital, le donne sono effettivamente poche. Il numero è in crescita e oggi vi è sicuramente una maggiore sensibilità, ma servirà ancora un po’ di tempo.
Come AIFI stiamo facendo molto per incentivare una maggiore presenza femminile e dunque per far crescere le donne all’interno dei team di investimento. Non penso però a carriere accelerate o a canali privilegiati, perché si andrebbe contro il criterio del merito, che deve restare centrale.
D: C’è anche un tema culturale?
R: All’Università abbiamo studentesse bravissime in materie STEM, come Economia e Ingegneria, e che hanno tante idee imprenditoriali. Bisogna dar loro coraggio e opportunità. Alla LIUC, ad esempio, abbiamo creato un programma dedicato alle startup dove aiutiamo gli studenti a fare impresa, e, non a caso, a capo di questo programma c’è una giovane e meritevole ricercatrice. Credo che la chiave sia ribadire con forza che si può fare, sostenendo questo messaggio con esempi concreti e incoraggianti.
D: Quali strumenti concreti possono favorire l’accesso al capitale?
R: Credo che gli incentivi mirati siano uno strumento efficace: ad esempio, bandi che diano priorità o comunque attenzione ai team con almeno una donna tra i fondatori. Questo tipo di misure aiuta, poiché quando si stanziano strumenti mirati le donne partecipano di più ed emergono.
D: Cos’altro si può fare per colmare questo gap?
R: Servono percorsi di formazione, mentoring e accompagnamento. Le donne spesso avviano imprese piccole, quasi artigianali, che restano sottocapitalizzate. Non perché non abbiano valore, ma perché mancano strumenti per crescere. Bisogna incoraggiare e sostenere l’accesso a canali equilibrati di finanziamento, in cui merito e competenza restino centrali, ma senza barriere implicite.
D: Che consiglio darebbe a un giovane imprenditore, ma soprattutto a una giovane imprenditrice, magari interessati a strumenti di investimento alternativi?
R: Innanzitutto, suggerirei di pensare al ruolo centrale delle risorse umane. In un mondo guidato dalla tecnologia, le imprese hanno successo o meno quando hanno persone di qualità.
L’Università ha sicuramente il compito di formare al meglio le nuove generazioni; gli imprenditori devono poi selezionare i collaboratori giusti, affiancarli e farli crescere; le associazioni e le reti imprenditoriali possono sostenere e dare visibilità a realtà virtuose, contribuendo a diffondere esempi positivi.
Infine, alle giovani (e non solo) imprenditrici direi di non avere paura di fare un salto, credendo fortemente nelle proprie idee e costruendo team solidi.
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