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Transizione 5.0, i soldi ci sono? Il rischio di perdere i miliardi per le imprese tra ritardi e burocrazia


di
Ferruccio de Bortoli

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Il pacchetto per la modernizzazione digitale ed energetica delle imprese italiane fatica a decollare. Con i fondi europei in scadenza, il governo valuta una «nazionalizzazione» della misura

È uno dei tanti misteri dell’economia italiana. Riguarda la reale capacità (e la volontà) delle aziende italiane e delle multinazionali che operano in Italia di investire nel nostro Paese. E, se volete, è conseguente all’enigma del credito bancario. Hanno ragione gli istituti di credito nel dire che «il cavallo — metafora classica dell’industria — non beve», anche perché forse è sufficientemente patrimonializzato, oppure le aziende, soprattutto quelle piccole, quando lamentano una difficoltà crescente nell’accedere al finanziamento bancario? E, spostandoci nel versante dell’ammodernamento degli impianti e degli investimenti nel digitale e nell’Intelligenza artificiale, il pacchetto Transizione 5.0 stenta a decollare per colpa della burocrazia ministeriale o della ritrosia imprenditoriale

Non possono coesistere, troppo a lungo, due spiegazioni diametralmente opposte in materie così delicate. Sia sul versante del credito, sia su quello dell’adeguamento tecnologico del nostro apparato industriale. Transizione 5.0 è un pacchetto ambizioso, con generosi crediti d’imposta (fino al 45% dell’investimento oltre ai benefici legati al risparmio energetico) che il governo Meloni ha approvato, nel febbraio dello scorso anno sulla scia del successo, indubitabile, di Industria 4.0 lanciato nel 2016, fiore all’occhiello dell’esecutivo Renzi.




















































Ritardi e complessità

Il decreto attuativo è però arrivato solo nell’estate scorsa. Altro tempo si è perso nella preparazione della piattaforma del Gse, il Gestore dei servizi energetici. La partecipazione delle imprese al programma che coniuga transizione digitale e ambientale — nonostante il più recente recupero — è ancora inferiore alle attese, per la difficoltà e le incertezze del metodo che ha richiesto progressivi affinamenti tecnici in costante contatto con la Commissione europea. Al punto che gli industriali — in qualche caso esasperati — hanno invocato l’immediato ritorno alla semplicità (compra il macchinario e avrai l’agevolazione fiscale) di Industria 4.0 che però — come è noto — concede incentivi con risorse solo nazionali, più facilmente spendibili. Meno vantaggiosa, sul versamento dei crediti d’imposta ottenibili, ma decisamente più flessibile. E soprattutto cumulabile con altri incentivi. Una breve storia di queste due misure parallele — una acclamata, l’altra avversata — può aiutare a comprendere quanto sia difficile, anche con le migliori intenzioni, avviare un programma di politica industriale.

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Le storture

Le imprese non amano la formula «a rubinetto» perché prima o poi si chiude. La prima fase di lancio di Industria 4.0 non aveva alcun tetto. E risultò, di conseguenza, insostenibile, nel medio termine, per le finanze pubbliche. Non rare furono le esagerazioni e le furbizie. Un grande gruppo pubblico, per esempio, voleva vedersi riconoscere l’agevolazione anche su un investimento già avviato in precedenza. Da qui la stretta nel biennio 2023-24 e il limite di capienza di 2,2 miliardi imposto per l’anno in corso. Transizione 5.0 utilizza le risorse europee (6,3 miliardi) e ciò richiede procedure ulteriori. In pratica tre passaggi: prenotazione dell’investimento da agevolare, conferma, completamento. A quale scopo? Spiegano — al Ministero dello sviluppo e del made in Italy — per verificare che i fondi non vadano a chi non ne ha bisogno e che le prenotazioni non siano eccedenti rispetto al reale fabbisogno come è accaduto nella prima fase di Industria 4.0. Certo la richiesta di anticipare un acconto del 20% dell’investimento non è stata accolta bene, non solo per l’importo ma soprattutto per le complicazioni burocratiche. 

Professionisti sotto pressione

Così come ha suscitato diverse riserve la procedura, ugualmente complessa, per la certificazione dei risparmi energetici (dal 3 al 5% da realizzare ogni anno per un quinquennio). Attualmente è sufficiente però dimostrare di aver comprato un macchinario nuovo che si presume, con buona approssimazione, più efficiente nel consumo energetico di quello vecchio. Un ostacolo tra i più ardui da superare è stata l’opposizione dei consulenti e del mondo professionale, ai quali a un certo momento è stato chiesto di assicurarsi contro le conseguenze di eventuali errori. 
Perché tutti questi sospetti? Per l’esperienza di questi anni dell’Agenzia delle Entrate nel verificare le pratiche di finanziamento agevolato alla ricerca e allo sviluppo. Molti sono stati i casi di crediti d’imposta chiesti senza averne il diritto. Uno dei più clamorosi fu quello di un parrucchiere finanziato con soldi pubblici grazie al fatto di aver sostenuto che un bigodino elicoidale fosse fortemente più innovativo di uno cilindrico. 

Meccanismo più fluido

Ora, finalmente, il meccanismo delle agevolazioni appare sufficientemente registrato e indiscutibilmente più fluido, specie dopo che il 10 aprile la Commissione europea ha approvato correzioni e chiarimenti. Le adesioni al programma Transizione 5.0 erano, nei primi tre mesi dell’anno, inferiori a una media di 75 milioni mensili. In giugno il cosiddetto tiraggio è arrivato a 315 milioni, 320 a luglio e, inaspettatamente, 250 ad agosto. Al momento sono già stati impegnati poco meno di 2 dei 6,3 miliardi. Ma il tempo stringe. Il programma termina a fine anno e una proroga, nonostante l’aggancio ai fondi europei e al Pnrr, non sembra facile al di là di qualche mese (massimo aprile 2026). Dunque, si perderanno questi fondi? Il governo non può ovviamente rinunciarvi. Ed è quindi probabile che la misura venga riproposta con la prossima legge di Bilancio con risorse nazionali, nella speranza di dirottare il residuo su altri capitoli di spesa e contratti di sviluppo. Una «nazionalizzazione» di Transizione 5.0 consentirebbe di ampliare la platea dei potenziali beneficiari. Oggi sono esclusi alcuni settori energivori, come la siderurgia, la chimica, la ceramica, la vetreria. I cosiddetti hard to abate, difficili da decarbonizzare. Bisognerà ovviamente contrattare con la Commissione europea senza correre il rischio di perdere, dopo aver rifatto scuole, strade e ferrovie, proprio le risorse più strategiche perché destinate all’industria. E senza agevolare, rispetto ai costruttori italiani ed europei, nonostante il divario di qualità, i fornitori cinesi e russi che hanno tempi di consegna migliori. Alla fine, sarebbe una beffa. Meglio non pensarci.



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