Cosa sono i dazi?
I dazi sono imposte applicate sulle merci importate da un Paese straniero. Vengono introdotti con l’obiettivo politico di proteggere la produzione interna dalla concorrenza estera, rendendo relativamente più costosi i beni stranieri rispetto a quelli domestici. Sono generalmente espressi come una percentuale del valore del bene e vengono pagati dall’importatore al momento dell’ingresso nel Paese, solitamente presso la dogana.
Perché Trump vuole imporre i dazi?
Nella visione economica dell’attuale amministrazione statunitense, i dazi rappresentano uno strumento per ridurre il cronico disavanzo commerciale degli Stati Uniti, che si è accumulato a partire dagli anni ’90. Secondo questa logica, rendere meno convenienti le importazioni dovrebbe stimolare la produzione interna e riportare equilibrio nella bilancia commerciale.
Perché è una questione rilevante?
L’introduzione di dazi modifica i prezzi relativi tra beni esteri e nazionali. Quando un prodotto importato viene colpito da una tariffa, il suo prezzo aumenta: l’esportatore straniero, per mantenere i margini, dovrà alzare il prezzo o accettare minori profitti. In entrambi i casi, si verifica una riduzione degli scambi e una perdita di efficienza economica dovuta alla minore allocazione ottimale delle risorse.
Qual è l’impatto nel breve periodo?
L’effetto immediato dei dazi dipende dalla tipologia di bene colpito:
Se la tariffa riguarda beni finali, può incentivare il consumo di beni nazionali e rappresentare uno shock positivo alla domanda interna. Se invece colpisce beni intermedi o materie prime, provoca un aumento dei costi di produzione per le imprese locali, traducendosi in uno shock negativo dell’offerta.
In entrambi i casi, l’impatto è generalmente inflazionistico, poiché si traduce in un aumento dei prezzi al consumo. Come sottolineato da Monacelli (2025) e Powell (2025a), le tariffe di importazione, in quanto freno agli scambi e distorsione dei prezzi, sono destinate a spingere l’inflazione verso l’alto, almeno nel breve termine.
Contesto storico e politico
Gli Stati Uniti sono il protagonista indiscusso dello scenario economico internazionale di questi mesi. Le esternazioni, spesso impulsive e provocatorie, del presidente Trump hanno reso l’agenda commerciale americana altamente imprevedibile: non è mai chiaro se e quando le sue minacce diventeranno realtà.
Dopo numerosi rinvii, la decisione è ora ufficiale: dal 1° agosto entreranno in vigore i dazi del cosiddetto “Liberation Day 2.0”, colpendo l’Europa e non solo (ne abbiamo analizzato i dettagli tariffari nel nostro articolo: link).
Una tariffa del 30% sarà applicata ai prodotti europei, dopo una lunga serie di minacce e dichiarazioni aggressive da parte dell’amministrazione statunitense.
Non si tratta di un precedente assoluto: già durante il primo mandato di Trump, nel 2018, vennero imposti dazi del 10% sull’alluminio e del 25% sull’acciaio, giustificati ufficialmente con motivi di “sicurezza nazionale”. L’Unione Europea rispose con tariffe ritorsive su oltre 3 miliardi di dollari di esportazioni statunitensi, colpendo simbolicamente beni come jeans, bourbon e motociclette Harley-Davidson.
Nel 2021, l’amministrazione Biden raggiunse un accordo con Bruxelles che portò alla sospensione di queste misure: gli Stati Uniti accettarono l’ingresso di un contingente di acciaio e alluminio europeo senza dazi, e l’UE congelò le sue contromisure.
Le nuove misure sono state giustificate da Washington come tentativo di riequilibrare la bilancia commerciale, soprattutto nel comparto dei beni, dove il disavanzo USA con l’Unione Europea resta significativo: nel 2024 il deficit commerciale di merci ha raggiunto i 235,6 miliardi di dollari, mentre, tenendo conto anche dei servizi, il disavanzo scende a circa 161 miliardi (dati BEA).
Tuttavia, misurare il commercio dei servizi è molto più complesso rispetto a quello delle merci. Attività come consulenza aziendale o servizi bancari non transitano fisicamente per porti e dogane. Secondo gli Stati Uniti, nel 2024 sono stati esportati nell’UE servizi per circa 277 miliardi di dollari, a fronte di 201 miliardi di dollari di importazioni.
Proprio per questo motivo, l’UE ha più volte lasciato intendere che, in caso di escalation, potrebbe prendere di mira le Big Tech statunitensi, una delle principali fonti di surplus nei servizi, come forma di ritorsione strategica.
Analisi economica
Impatto macroeconomico generale
Le tariffe statunitensi sulle importazioni europee, se innalzate ai livelli annunciati, rischiano di aggravare ulteriormente la già fragile crescita della zona euro. Secondo le stime della BCE, un aumento dei dazi USA al 20%, accompagnato da contromisure europee, porterebbe la crescita del PIL dell’area euro allo 0,5% nel 2025 e 0,7% nel 2026 — valori inferiori rispetto allo 0,9% e 1,1% previsti nello scenario con tariffe più moderate (al 10%).
L’effetto netto di queste misure sarebbe una domanda interna più debole, che andrebbe a compensare parzialmente la pressione inflazionistica dovuta all’aumento dei prezzi delle importazioni. Di conseguenza, l’inflazione media dell’Eurozona è stimata all’1,5% nel 2026 e 1,8% nel 2027, rimanendo al di sotto dell’obiettivo del 2% fissato dalla BCE.
Una decisione non è attesa nella prossima riunione della Banca Centrale, anche perché i negoziati commerciali tra UE e Stati Uniti sono ancora in corso. Un quadro più chiaro dovrebbe emergere entro settembre: se i dazi statunitensi verranno effettivamente applicati nella forma più severa, un nono taglio dei tassi BCE diventerebbe uno scenario molto concreto.
Sul versante statunitense, non c’è ancora consenso tra gli economisti su chi sia il vero danneggiato dalla guerra commerciale: gli Stati Uniti o i Paesi colpiti dalle misure tariffarie. Tuttavia, un effetto è già visibile: il dollaro è stato finora il principale perdente nel contesto valutario globale segnando una performance negativa su base annuale.
Più significative sono state le reazioni nei mercati obbligazionari a lungo termine. In Germania, i rendimenti dei titoli di Stato hanno toccato i massimi dal 1° aprile, con i trentennali ai livelli più alti da ottobre 2023. Anche negli Stati Uniti i rendimenti dei Treasury a 30 anni si sono avvicinati alla soglia psicologica del 5%, registrando il valore più elevato da oltre un mese.
Questi movimenti sono difficili da attribuire unicamente alla disputa commerciale, ma riflettono in parte il timore crescente di una guerra tariffaria “tit-for-tat” che potrebbe avere effetti inflazionistici — o persino stagflazionistici — su scala globale.
I futures azionari di Wall Street hanno registrato ulteriori ribassi, dopo una settimana di chiusure negative per i principali indici. L’indice del dollaro (DXY), dopo mesi di flessione, ha mostrato segnali di stabilizzazione.
Infine, un dato macroeconomico non trascurabile: le entrate derivanti dalle tariffe stanno già rafforzando il bilancio federale USA, che ha chiuso giugno con un surplus inatteso, anche grazie alla nuova struttura dei dazi.
Ford e Horioka (2017, 2024) offrono una spiegazione al celebre puzzle di Feldstein-Horioka, secondo cui risparmio interno e investimenti nazionali risultano fortemente correlati, nonostante la crescente globalizzazione finanziaria.
La loro intuizione è semplice ma profonda: “I mercati finanziari da soli non sono sufficienti a garantire il trasferimento netto di capitale tra Paesi. Serve anche un’integrazione dei mercati delle merci.”
Ne consegue che le barriere commerciali — come i dazi — ostacolano i flussi di capitale reale, impedendo una piena convergenza nei rendimenti marginali del capitale (MPK) tra le economie. In altre parole, non esiste un tasso di interesse mondiale unico (r*) perché ogni Paese, in presenza di attriti commerciali, mantiene rendimenti diversi in base al proprio stock di capitale e alla produttività locale.
Immaginiamo un Paese A (simile agli Stati Uniti) con uno stock di capitale pari a 3 volte il PIL, e un Paese B (resto del mondo) con capitale pari a 5 volte il PIL. In questo scenario, l’MPK è più alto nel Paese A.
Se il capitale fisico (es. impianti, attrezzature) potesse trasferirsi istantaneamente e senza costi, il capitale del Paese B migrerebbe verso il Paese A per ottenere rendimenti maggiori. Il Paese A registrerebbe inizialmente un ampio deficit commerciale, ma aumenterebbe la propria produzione e, nel tempo, otterrebbe un vantaggio netto.
Anche se una parte della produzione venisse “rimpatriata” sotto forma di reddito per gli investitori esteri, la crescita dello stock di capitale e della produttività del lavoro migliorerebbe il benessere medio nel Paese A.
I sostenitori dei dazi negli Stati Uniti sostengono che l’afflusso di capitale estero impoverisca il Paese. Ma i modelli teorici mostrano il contrario:
- Se gli investitori stranieri detengono asset a basso rendimento (come titoli del Tesoro o depositi), gran parte del valore reale generato resta negli USA.
- L’effetto distributivo è più complesso: i lavoratori manifatturieri possono essere penalizzati dalla concorrenza estera, ma i salari complessivi aumentano grazie alla maggiore produttività.
- I proprietari del capitale negli USA potrebbero vedere calare i loro rendimenti, mentre quelli del Paese B ne beneficerebbero.
- L’introduzione di tariffe potrebbe, in teoria, rallentare questi flussi e limitare i profitti esteri. Ma ciò avverrebbe a scapito dei benefici aggregati derivanti da una riallocazione efficiente del capitale.
- Il deficit commerciale statunitense riflette soprattutto un livello insufficiente di risparmio interno, legato in gran parte ai persistenti deficit pubblici federali. Questo mantiene elevato l’MPK e attira capitale estero.
Tuttavia:
- L’afflusso di capitale serve solo a mantenere stabile il rapporto capitale/PIL;
- Se gli Stati Uniti risparmiassero di più, potrebbero finanziare internamente i propri investimenti e ridurre la dipendenza dal capitale straniero;
- In assenza di risparmio, il deficit commerciale è una conseguenza, non la causa del problema.
In conclusione, le barriere commerciali, come i dazi, non risolvono il deficit strutturale degli Stati Uniti, né migliorano la sua posizione nel lungo periodo. Al contrario, ostacolano l’allocazione efficiente del capitale e rallentano la crescita potenziale.
La vera leva di intervento è la politica fiscale: senza un risparmio interno più elevato, qualsiasi strategia protezionistica è destinata a produrre benefici limitati e costi diffusi.
Dati Commerciali
Nel 2024, gli Stati Uniti hanno importato circa 606 miliardi di dollari in merci dall’Unione Europea ed esportato verso il blocco poco più di 370 miliardi, generando un ampio disavanzo commerciale. Questo squilibrio rappresenta un punto critico per il presidente Trump, che intende sfruttare l’arma dei dazi per rilanciare la produzione interna e ridurre la dipendenza dall’estero.
Secondo i dati del Bureau of Economic Analysis, il commercio complessivo di beni e servizi tra USA e UE nel 2024 ha inciso per circa il 4,9% del PIL statunitense, una quota superiore rispetto a quella con la Cina, che si è attestata al 2,2%. L’Europa è dunque non solo un partner strategico, ma anche un nodo centrale per l’economia americana.
Tra le principali importazioni dagli Stati membri dell’UE, spiccano i prodotti farmaceutici — con un valore pari a 127 miliardi di dollari — grazie alla presenza di grandi aziende europee come Bayer, Sanofi e Novartis. Seguono le automobili (45,2 miliardi), una vasta gamma di macchinari industriali, oltre a beni di consumo come il vino (5,4 miliardi) e i profumi (4,4 miliardi).
Anche l’Europa, però, è un importante acquirente di prodotti statunitensi. Le esportazioni USA verso l’UE includono petrolio e gas, aerei e componenti aeronautici per un totale di 32,3 miliardi di dollari, veicoli per 12,4 miliardi (molti dei quali marchi europei, come BMW e Mercedes, assemblati in stabilimenti americani), e prodotti del sangue umano, come il plasma, per 5,2 miliardi di dollari.
Nel complesso, questi dati evidenziano l’elevato grado di interdipendenza economica transatlantica e suggeriscono che un’escalation tariffaria potrebbe colpire settori strategici ad alto valore aggiunto, con effetti potenzialmente negativi per entrambe le sponde dell’Atlantico.
Risposta europea
La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che l’Unione Europea resta determinata a proseguire il dialogo con gli Stati Uniti per raggiungere un accordo entro il 1° agosto, sottolineando che una soluzione negoziata rappresenta ancora la priorità assoluta per Bruxelles.
Tuttavia, in caso di fallimento dei negoziati, l’UE dispone già di contromisure pronte all’uso. Gli Stati membri hanno precedentemente approvato un pacchetto di tariffe di ritorsione del valore di 21 miliardi di euro (circa 25 miliardi di dollari) sulle importazioni statunitensi. Questo pacchetto è stato temporaneamente sospeso in segno di apertura diplomatica, ma può essere riattivato rapidamente. Parallelamente, è stato presentato un secondo pacchetto potenziale che potrebbe arrivare a colpire fino a 95 miliardi di euro di beni provenienti dagli Stati Uniti, anche se la sua definizione non è ancora completa.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha sollecitato l’UE ad accelerare la preparazione delle contromisure, invitando a “mobilitare tutti gli strumenti a disposizione” nel caso in cui non si raggiunga un’intesa entro la scadenza stabilita.
Tra questi strumenti, Macron ha citato il cosiddetto “strumento anti-coercizione” dell’UE: un meccanismo legale pensato per contrastare pressioni economiche da parte di Paesi terzi. Tale strumento potrebbe consentire all’Unione di imporre prelievi su servizi statunitensi, limitare i diritti di proprietà intellettuale delle imprese americane, o attivare altre misure commerciali selettive.
Effetti di lungo termine
L’imposizione sistematica di dazi da parte degli Stati Uniti come strumento di politica economica non rappresenta solo una scelta tattica nel breve periodo, ma può produrre conseguenze profonde e durature sull’intera architettura del commercio globale. Più che una risposta tecnica al deficit commerciale, i dazi riflettono una strategia politica deliberata, che mira a ridisegnare l’ordine economico internazionale in chiave bilaterale, minando il multilateralismo che ha caratterizzato i decenni successivi alla Seconda guerra mondiale.
La regionalizzazione delle catene del valore è un processo già in corso, ma i dazi rischiano di accelerarla bruscamente. Le imprese, nel tentativo di evitare costi tariffari e instabilità geopolitica, tendono a:
- rilocalizzare (reshoring) la produzione;
- spostare gli investimenti verso Paesi “alleati” (friend-shoring);
- ridurre la dipendenza da partner esterni.
Il risultato? Meno efficienza, più costi, e un impatto negativo sulla crescita potenziale globale, poiché si rinuncia alla logica del vantaggio comparato in favore di una politica industriale “di difesa”.
L’uso bilaterale e strategico delle tariffe mina la legittimità delle istituzioni multilaterali, prima fra tutte il WTO. Se anche altre grandi potenze adotteranno lo stesso approccio, si rischia una spirale protezionistica che:
- incoraggia pratiche unilaterali;
- rende sempre più difficile cooperare su sfide globali come clima, innovazione tecnologica, e standard digitali;
- indebolisce le regole condivise a favore di logiche di potere.
Questa tendenza, già visibile nella postura americana, rappresenta un ritorno implicito alla politica di potenza anche sul piano economico, dove il commercio diventa strumento di negoziato strategico più che leva di sviluppo.
Nel lungo periodo, i dazi potrebbero essere istituzionalizzati come fonte di entrate, ricalcando il modello ottocentesco degli Stati Uniti. In parallelo, si sta già delineando una nuova fase di politica industriale “patriottica”, con incentivi alla produzione interna, sussidi e preferenze nazionali.
Questo spostamento rischia però di sacrificare l’efficienza allocativa e il libero commercio in nome del nazionalismo economico spacciato per “sicurezza nazionale”, come affermato apertamente dall’amministrazione Trump.
I dazi, come tutte le politiche protezionistiche, non colpiscono tutti allo stesso modo. Se alcuni settori strategici (come acciaio e automotive) beneficiano delle barriere, i costi si scaricano su:
- i consumatori, che pagano prezzi più alti;
- gli esportatori, che subiscono ritorsioni;
- i lavoratori meno protetti, penalizzati dalla perdita di competitività.
Negli Stati Uniti, dove la disuguaglianza è già elevata, ciò rischia di aumentare le tensioni sociali e di alimentare ulteriori pressioni politiche per forme di protezione sociale o sostegno mirato.
Nel quadro tracciato dal modello di Feldstein-Horioka, i dazi possono ridurre il deficit commerciale solo se accompagnati da un aumento del risparmio interno. In caso contrario, limitare le importazioni non genera automaticamente un rafforzamento dell’economia, ma può anzi:
- frenare l’accumulazione di capitale estero, rallentando la crescita della produttività nel lungo periodo;
- indebolire strutturalmente il dollaro, nel caso in cui gli investitori stranieri riducano la loro esposizione al debito pubblico americano.
Il legame tra commercio e ricchezza futura è quindi tutt’altro che automatico: senza riforme strutturali, le barriere possono ridurre l’efficienza ma non garantire maggiore autonomia economica.
Conclusione
Nel dibattito attuale sui dazi imposti dagli Stati Uniti all’Unione Europea, è fondamentale chiarire una verità spesso trascurata: i dazi non elimineranno il deficit commerciale americano. L’idea che l’aumento delle tariffe possa riequilibrare la bilancia dei pagamenti è, in fin dei conti, una narrazione politica più che una soluzione economica.
Il deficit nei beni, che rimane ampio, viene sistematicamente enfatizzato, mentre si ignora che gli Stati Uniti registrano un surplus consistente nei servizi, in particolare nei settori tecnologico, finanziario e dei diritti di proprietà intellettuale. Ma il messaggio politico è chiaro: creare un nemico esterno da additare come causa delle difficoltà interne, rispondendo così al bisogno elettorale di semplificazione e identificazione.
In questo contesto, la politica commerciale di Trump appare come una strategia negoziale permanente, dove il dazio è uno strumento di pressione, minaccia o semplice bluff, finalizzato a spostare i rapporti di forza globali. Il “Mega Bill” recentemente approvato, che spalanca la porta a un deficit fiscale colossale, dimostra come l’obiettivo non sia affatto la disciplina finanziaria. Il vero intento è quello di ridisegnare unilateralmente l’ordine economico internazionale.
Nel frattempo, i mercati reagiscono. Le esternazioni del presidente americano alimentano volatilità finanziaria, facendo salire i rendimenti dei Treasury USA (10Y e 30Y), muovendo il dollaro e spingendo gli investitori verso asset alternativi come il Bitcoin. Il mercato azionario USA, trainato dalle big tech, mostra segnali di surriscaldamento, con un equity risk premium ormai prossimo allo zero: un campanello d’allarme per chi guarda ai fondamentali.
E l’Europa? Resta immobile. Di fronte a una nuova offensiva tariffaria, l’UE si mostra incerta, frammentata e priva di una strategia autonoma. La retorica del compromesso con tutti si traduce spesso in paralisi politica, come già visto nel caso del conflitto in Ucraina: forte nelle condanne, debole nell’azione concreta. Eppure, questo è un banco di prova cruciale per la tenuta e la credibilità dell’Unione.
Trump ha già lasciato intendere di preferire accordi bilaterali con singoli Paesi membri, tentando così di scardinare l’unità del mercato europeo. È una mossa cinica, ma non casuale: sfrutta le fragilità istituzionali dell’UE, che restano evidenti a ogni crisi.
Nel frattempo, la politica americana si nutre di slogan. Il Partito Democratico appare marginalizzato, incapace di proporre una visione alternativa. Trump continua a costruire nemici funzionali alla propria narrazione: dalla Cina all’UE, dalla Fed all’Iran, passando per il “wokismo”. L’importante è alimentare una logica di conflitto permanente, in cui il leader si erge a difensore solitario dell’interesse nazionale.
La domanda finale, dunque, è scomoda ma necessaria: ci voleva Trump per mettere a nudo i limiti strutturali dell’Unione Europea?
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