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“Alcuni non accettavano il mio lavoro”


C’è chi percorre una strada e chi, come Gabriella Carlucci, le attraversa tutte. In quarant’anni di carriera e di vita pubblica è stata conduttrice, inviata, pioniera, parlamentare, promotrice culturale, sindaca, madre, moglie, figlia, sorella, produttrice (anche di profumi, il suo Vanille Mon Amour è già un successo, pensato per sprigionare l’energia dei sensi e allentare le tensioni). Non c’è etichetta che le basti, non c’è cornice che possa contenerla. Dietro il volto noto della tv italiana, da Portobello a Buona Domenica, da MelaVerde alle tribune politiche, c’è una donna che ha fatto della curiosità il suo motore e della determinazione il suo ritmo. Mai ferma, mai incasellabile, sempre con lo sguardo oltre il confine successivo. L’intervista a Marettimo, isola selvaggia e incantata delle Egadi, dove ha dato vita a un festival cinematografico che unisce arte, bellezza e impegno civile.

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Cosa la porta a Marettimo?

Conosco Marettimo da quando ero bambina. Sono tra le poche italiane che ha avuto la fortuna di venire qui 50 anni fa. Mi innamorai subito di questo posto: le grotte, i pesci, i coralli… da allora non l’ho più dimenticato. Sono tornata tante volte, anche con mio marito. Qui abbiamo persino organizzato un torneo di tennis. Poi sei anni fa, il senatore Gasparri, che ha una casa sull’isola e conosce il mio impegno nel cinema, mi chiese di aiutare un gruppo di amici a creare un festival. E così è nato il Marettimo Film Festival”.

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Gabriella Carlucci

Gabriella Carlucci col suo profumo e Marettimo sullo sfondo

Organizzare un evento del genere su un’isola così remota non dev’essere facile…

Esatto. Marettimo è la più lontana e selvaggia delle Egadi, non c’è nulla: ogni attrezzatura va portata dalla terraferma. Montare palco, schermi, ospitare eventi, tutto è complesso. Anche portare gli ospiti richiede uno sforzo enorme. Però ne vale la pena: ha qualcosa di magico. Non senti rumori, non ci sono macchine, è una dimensione umana vera. E la gente non gira col cellulare in mano: è incredibile!”.

Che tipo di eventi propone il Festival?

Portiamo cinema, convegni sull’ambiente, approfondimenti. L’altro giorno, ad esempio, abbiamo avuto un talk con Nancy Brilli sul cinema degli anni ’80, un omaggio a quell’Italia spensierata. La piazza del porto si riempie di gente, è bellissimo”.

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Cosa lega Gabriella Carlucci al cinema, considerando che il pubblico la associa più a tv e politica?

In politica mi sono occupata proprio di cultura e spettacolo. Sono la fondatrice del Dipartimento Cultura di Forza Italia dal 1996. Ho ascoltato per anni le esigenze del settore. Dopo studi in Inghilterra e USA, mi sono battuta per introdurre in Italia strumenti come il tax credit e tax shelter per finanziare il cinema, seguendo i modelli anglosassoni. La mia legge è passata nel 2007 con il Governo Prodi. Quindi conosco bene il mondo del cinema, dal di dentro”.

E non le è mai arrivata una proposta per lavorare nel cinema da attrice, come accaduto in passato a sua sorella Milly?

No, mai. Ero sempre in giro per la tv, tra Portobello, Buona Domenica, MelaVerde. Viaggiavo tanto, non stavo mai a Roma, che è il cuore del cinema. Solo ora lo frequento più stabilmente e lo adoro. Ho tanti amici attori, registi e produttori, e continuo a promuovere il nostro cinema all’estero. Organizzo eventi cinematografici anche in Spagna e in Serbia. In Serbia, ad esempio, ho ottenuto il massimo riconoscimento statale per meriti culturali e persino la cittadinanza”.

gabriella carlucciGabriella Carlucci

Due lauree, una in Lingue e Letterature Straniere e una in Storia dell’Arte. Da adolescente, sognava qualcosa di diverso per il suo futuro? Come è nata la sua carriera televisiva?

Portobello è stato il punto di svolta della mia vita. Avevo appena finito l’università, mi ero laureata a 21 anni e stavo per iscrivermi a un master per occuparmi di internazionalizzazione delle imprese, quando mia sorella Milly, che lavorava alla Rai di Milano, mi disse che Enzo Tortora cercava un’inviata per la nuova edizione del programma. Voleva una persona che parlasse le lingue, perché si trattava di fare servizi da tutto il mondo. Feci il provino, fui scelta… e da lì partì tutto. Fu un’esperienza travolgente. Ogni settimana ero in un paese diverso: Giappone, Australia, Machu Picchu, le Hawaii, Bangkok, i Caraibi, l’Africa… un viaggio continuo. Era un sogno: io volevo viaggiare, e improvvisamente lo facevo… pagata, e per la tv! Viaggiavo solo con un regista. La troupe tecnica si assemblava sul posto, quindi dovevamo essere una vera squadra. Ogni volta sceglievamo una location spettacolare e mettevamo in piedi il servizio più suggestivo possibile. Una volta, a Bangkok, girammo in un tempio con un Buddha d’oro alto dieci metri, con gli occhi di giada. Organizzammo anche un balletto tradizionale thailandese con costumi locali. Un’altra volta andammo in un allevamento di coccodrilli. Gli allevatori ci mostrarono come si immobilizzava un coccodrillo con una sola mossa: una cosa da brividi. Era tutto reale, non fiction”.

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Portobello significava anche diretta…

“Era la vera sfida. I collegamenti andavano in onda in diretta il venerdì sera, davanti a 18 milioni di spettatori, numeri che oggi sembrano fantascienza. Non potevi sbagliare. Bastava una parola fuori posto, una battuta mal calibrata, un guasto tecnico, e lo vedeva tutta Italia. Dovevi essere una macchina da guerra. E gli imprevisti c’erano sempre. Ricordo una volta in Australia, con un collegamento previsto da un mercato dove vendevano canguri: il canguro non si faceva prendere! Io ero lì in diretta, col pubblico che aspettava, e il canguro saltava da tutte le parti. Un’altra volta c’era un tifone in arrivo e rischiavamo di non avere il collegamento satellitare. Alla fine, andò tutto bene, ma erano situazioni limite. Ti formavano, ti tempravano. Tortora era molto esigente. Prima di partire, mi spiegava con precisione cosa voleva da ogni servizio. Io prendevo appunti, letteralmente: ho ancora il quaderno con tutte le indicazioni. Lui pretendeva rigore, chiarezza, capacità di racconto. E grazie a quell’esperienza ho capito di essere portata per la televisione. Era un’avventura ogni settimana, ma era anche una scuola severa: imparavi sul campo, sbagliando il meno possibile. E mi ha insegnato a lavorare sotto pressione, ad adattarmi, a cavarmela sempre. Tutto in diretta. Non potevi permetterti di cadere. Dovevi volare”.

Gabriella Carlucci, un moto perpetuo. La parola “avventura” la rappresenta?

Assolutamente. Sono una persona curiosa, ho bisogno di cambiare, sperimentare. Persino gli sport estremi che facevo nella vita privata sono finiti in tv, a Buona Domenica. Non sono capace di restare ferma. Ho fatto tv, politica, ora organizzo eventi. Mi piace fare sempre cose nuove”.

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Che posto ha avuto la famiglia nella sua vita?

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Un posto centrale. La mia famiglia è stata tutto. Intanto la famiglia di origine: io, Milly e Anna siamo cresciute in un contesto che oggi definirei privilegiato, non in senso economico, ma culturale e affettivo. I nostri genitori ci hanno dato moltissimo: rigore, stimoli, libertà, visione. Ci hanno insegnato a essere donne indipendenti, curiose, capaci di scegliere. Mia madre, che veniva da un’altra epoca, ci diceva cose che oggi suonano modernissime. Non era scontato, né allora né adesso. Lei ci ha trasmesso l’orgoglio dell’autonomia, la fierezza di farcela da sole. E ci ha fatto capire che essere donne libere non è un’opzione: è un dovere verso se stesse”.

Si sente una donna libera? O lo è sempre stata?

Mi ci sono sempre sentita, sì. Ma non perché la libertà mi sia piovuta addosso: me la sono costruita, difesa, guadagnata centimetro per centimetro. È una cosa che ho dentro da sempre, quasi istintiva, ma che ha trovato terreno fertile grazie alla famiglia da cui provengo. Soprattutto grazie a mia madre. Devi pensare che noi siamo figlie degli anni Sessanta, e in quel contesto sociale l’idea dominante era: Trova un buon marito e sistema la tua vita. La donna realizzata era quella che si sposava bene, faceva figli e restava a casa. Invece, mia madre, che veniva da una generazione ancora più antica, ci diceva l’opposto: Dovete studiare, essere brave, indipendenti. Dovete poter contare su voi stesse. Sempre. “Quel messaggio, così potente e così fuori dal coro per l’epoca, è stato il faro della mia vita. Mi ha reso consapevole, già da ragazza, che la libertà non è un regalo, è una responsabilità. E che per essere davvero libera, una donna deve sapere camminare con le proprie gambe, scegliere, sbagliare, rialzarsi, decidere chi essere e dove andare. Poi certo, nella vita ci sono stati ostacoli, pregiudizi, pressioni. Ci sono stati uomini che non accettavano il mio lavoro, che avrebbero voluto una donna più tranquilla, più al posto. E infatti con quelli non è mai durato. Finché non ho incontrato mio marito, che ha sempre rispettato e sostenuto le mie scelte, anche le più faticose o imprevedibili. Ma io ho sempre saputo che, se non avessi trovato la persona giusta, non mi sarei mai sposata. Perché la mia libertà non era negoziabile. Quindi sì, mi sento libera. Lo sono sempre stata. Perché quella libertà, che ho imparato da mia madre e che ho trasmesso a mio figlio, è il mio motore”.

E suo padre? Qual è stato il più grande insegnamento che le ha lasciato?

Mio padre era un militare, una figura forte, rigorosa, ma anche profondamente amorevole. Ci ha insegnato l’importanza delle regole, dell’impegno, della disciplina. La casa era organizzata come un piccolo mondo ordinato, dove ognuno aveva i suoi doveri. Ma non c’era imposizione fredda: c’era valore educativo. Papà ci spiegava che le regole non servono a limitarti, ma a proteggerti. E poi, aveva un’idea molto chiara del rispetto verso sé stessi e gli altri: bisognava sempre essere presentabili. Per lui non era una questione estetica, ma di dignità. Come ti mostri al mondo è il tuo biglietto da visita, diceva. Era inflessibile su questo: mai trascurate, mai sbrindellate. L’immagine conta, perché è il primo messaggio che mandi. Ma oltre all’aspetto esteriore, ci ha lasciato qualcosa di ancora più profondo: l’amore per la parola e per il racconto. Ogni viaggio, ogni uscita, ogni esperienza diventava un’occasione per imparare a esprimerci. Tornavamo a casa e lui e mia madre ci chiedevano: Adesso scrivete cosa avete visto. E poi raccontatecelo. Era il nostro esercizio. E in realtà era un allenamento alla narrazione, alla capacità di osservare, selezionare, dare un senso. Ecco, lì è nata anche la mia voglia di comunicare. Eppure, in questo universo tutto al femminile – mia madre, tre figlie femmine – credo che in fondo avrebbe voluto anche un figlio maschio. Non lo diceva mai apertamente, ma ogni tanto, con tenerezza, lo lasciava intuire. Era circondato da donne, ed era chiaro che in certi momenti si sentisse un po’ in minoranza. Ma non si è mai tirato indietro. Anzi, ha dato tutto se stesso a ognuna di noi. Condividendo il suo tempo, i viaggi, i pomeriggi di sport, le chiacchierate, la fatica e l’amore. Ricordo ancora quando da bambina, sciando, avevo sempre freddo. E lui, pur di non farmi congelare, mi trascinava su per la montagna coi bastoncini tra le gambe, fermandosi ogni tanto per scaldarmi con il fiato sulle mani e sulle gambe. Era il suo modo di dirti ti proteggo, ci sono. E c’era, sempre. Senza riserve”.

milly carlucci gabriellaIPA

Lei, Milly e Anna: un po’ le ‘Piccole donne’ di Louisa May Alcott?

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“Siamo state molto fortunate. Crescere in tre sorelle, con dei genitori così presenti e stimolanti, è stato un privilegio. Ma è stato anche impegnativo, perché avevamo un modello in casa altissimo: Milly, la più grande, era una specie di prodigio. Sempre 10 a scuola, brava negli sport, nel pattinaggio, nel disegno. Autodidatta, eppure dipingeva come un’artista formata. Avere un esempio così vicino, da piccole, può fare due cose: o ti senti schiacciata, o ti attivi. E sia io che Anna, le piccole di casa, abbiamo scelto di dare il massimo per non sfigurare. Non si trattava di competizione, ma di un confronto continuo con qualcosa che ci stimolava a migliorarci, a cercare la nostra strada, ad affermarci. Non volevamo imitarla, ma nemmeno restare indietro. E così siamo cresciute cercando di eccellere in ciò che ci apparteneva di più. Ricordo episodi che rendono bene l’idea. Ad esempio, Milly al liceo vinse un concorso europeo: il primo premio assoluto per un tema sull’Unione Europea. Andò a Bruxelles a ritirare la medaglia. E noi a casa, fiere ma anche un po’ con quella pressione silenziosa di dover essere all’altezza”.

E poi c’è la famiglia che si è costruita: suo marito e suo figlio…

“Mio marito è stato un alleato fondamentale. È un avvocato, una persona riflessiva, razionale, molto diversa da me che sono impulsiva, istintiva. Siamo complementari. Quando io mi butto, lui mi riporta a terra. Quando ho bisogno di un consiglio, è il primo a cui mi rivolgo. E questo equilibrio ci ha permesso di affrontare tutto: la televisione, la politica, gli eventi internazionali. Anche mio figlio è una parte importantissima della mia vita. È laureato in legge, potrebbe fare l’avvocato, ma ha scelto il mondo della produzione. Ha già realizzato documentari e contenuti per piattaforme come Amazon. È creativo, ma anche razionale, come suo padre. E ha lo stesso entusiasmo e curiosità che avevo io alla sua età. Vederlo costruirsi una sua strada, con passione e indipendenza, è la mia più grande soddisfazione. La famiglia per me è questo: il luogo dove si ritorna, dove ti consulti, dove ti rigeneri. Non è mai stata un ostacolo, anzi, è stata la mia base solida per poter volare lontano. Una specie di radice che mi ha tenuto ancorata mentre facevo mille cose in giro per il mondo. E anche oggi è così. Senza la mia famiglia, tutto quello che ho fatto avrebbe avuto molto meno senso”.

Ma famiglia è anche il pubblico. Quando ha lasciato la televisione per la politica, l’è mancato quell’affetto, quella presenza continua?

In realtà, no. Non mi è mai mancato in senso doloroso, perché il distacco è avvenuto in modo molto graduale, e perché, in un certo senso, il pubblico non l’ho mai perso. Quando nel 1994 facevo Buona Domenica, fui intervistata dal Corriere della Sera insieme ad altri volti della tv sull’ingresso di Berlusconi in politica. Io dissi sinceramente che quel progetto mi sembrava moderno, necessario per un Paese che stava ristagnando. Il giorno dopo eravamo solo in tre, su cinquanta intervistati, ad aver parlato bene di lui: io, Mike Bongiorno e Raimondo Vianello. Pochi giorni dopo, mi chiamò direttamente Berlusconi e mi chiese se volessi candidarmi. Io gli risposi di no, che non me la sentivo di passare da Buona Domenica a Montecitorio in un attimo. Ma gli dissi anche che credevo nel progetto, e mi offrii per dare una mano dietro le quinte. Così iniziai a lavorare per il partito. E da lì, il mio percorso politico è cominciato. Sono stata eletta per la prima volta nel 2001. Ma per anni, fino al 2008, ho continuato a fare MelaVerde, anche mentre sedevo in Parlamento. E poi sono stata eletta anche sindaco di Margherita di Savoia. A un certo punto, però, era impossibile reggere tutto: politica, televisione, famiglia. Ho dovuto fare una scelta, e la cosa più facile da lasciare, anche se con dispiacere, era la tv. Ma in politica ho ritrovato un altro tipo di pubblico. Diverso, certo, ma comunque presente. La gente ti cerca, ti parla, si affida a te. Ti chiede aiuto, ascolto, soluzioni. E se sei abituata, come me, ad avere un rapporto diretto con le persone, quello diventa un altro tipo di scena, un altro tipo di empatia. Non c’è la luce dei riflettori, ma c’è la responsabilità vera. E c’è affetto, anche. Perché la gente ti ricorda, ti riconosce, e ti dà fiducia. Anche oggi, nei Festival che organizzo, quell’energia collettiva del pubblico esiste ancora. Quando fai salire in un’isola remota come Marettimo attrici, registi, giornalisti e la piazza si riempie per ascoltare, per discutere, per emozionarsi davanti a un film, lì c’è tutto quello che ho sempre amato della comunicazione: la connessione. Non è la tv, ma è vivo. È reale. E ti riempie. In fondo, il rapporto con il pubblico non è mai andato via: si è solo trasformato”.

La televisione negli ultimi anni ha mai provato a richiamarla? Ci ha mai pensato?

Sì, qualche proposta c’è stata. Ma la verità è che non mi rivedo più nei programmi di intrattenimento leggero che facevo un tempo. Non sarei più credibile. Sono cambiata io, è cambiato il mio percorso. Dopo tutto quello che ho vissuto (la politica, i progetti internazionali, i festival, il lavoro con i governi), non riuscirei a tornare a fare giochi, varietà, momenti leggeri in diretta. Non è più la mia dimensione. Però, se devo essere sincera, la televisione mi manca come strumento. Perché resta il mezzo più potente per arrivare alle persone, soprattutto a quelle che non hanno accesso facile all’informazione giusta. Ecco perché, se dovessi tornare, lo farei solo con un programma di contenuto, un format di servizio reale, concreto, utile. C’è una cosa che mi sta molto a cuore: l’intermediazione tra chi cerca lavoro e chi lo offre. In Italia è un disastro. Ci sono milioni di persone in cerca di occupazione e, allo stesso tempo, aziende che non trovano figure qualificate. Eppure, la formazione gratuita esiste, i fondi pubblici ci sono. Solo che nessuno lo sa. Nessuno glielo dice. Questo è un tema enorme, che in tv non viene mai affrontato con la giusta serietà. Io immagino un programma che metta in contatto concreto le due parti, che racconti storie vere, che spieghi come accedere alla formazione finanziata dallo Stato, come orientarsi nel mondo del lavoro, come scrivere un curriculum, come prepararsi per un colloquio, quali sono le professioni richieste. È un servizio che può cambiare la vita a tante persone. Lo stesso vale per la previdenza: se oggi chiedi a dieci persone quando andranno in pensione e con quale trattamento, nove non sanno rispondere. È tutto complicato, un linguaggio tecnico, norme che cambiano di continuo. Nessuno aiuta a fare chiarezza. Un programma in prima serata che spieghi, con esperti seri e linguaggio semplice, diritti, opportunità, strumenti pratici: questo mi piacerebbe fare. Unire la mia esperienza politica e istituzionale con la mia capacità comunicativa, quella che ho costruito con anni di tv in diretta. In fondo, non ho nostalgia della tv passata, ma credo che potrei ancora dire qualcosa di utile oggi, con un progetto che serva davvero alle persone. Se un giorno arriverà la proposta giusta, con i contenuti giusti, allora sì: ci tornerei, ma con un senso. Con una missione”.

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intervista gabriella carlucciGabriella Carlucci

Se la sua vita fosse un film?

Più che un film, sarebbe una canzone: Una vita spericolata. È il riassunto perfetto della mia esistenza”.

Quando si è detta: “Brava Gabriella”?

“Uno dei momenti in cui l’ho pensato con convinzione è stato quando è stato firmato l’accordo bilaterale tra Italia e Serbia per la cooperazione cinematografica. È un risultato nato da un mio progetto personale, senza ruoli istituzionali, solo con competenza, passione e tenacia. Lavorando in Serbia per promuovere il cinema italiano, sono riuscita a costruire relazioni e fiducia a tal punto da scrivere da semplice cittadina e non da politica, insieme alla ministra serba della Cultura, un testo ufficiale poi firmato dal Ministro degli Esteri, Antonio Tajani. È stato un riconoscimento silenzioso ma enorme. Non c’erano riflettori, ma c’era concretezza. Quel giorno ho capito che si può incidere davvero anche da cittadina, se hai visione e credibilità. E lì, sì, ho pensato: Brava Gabriella!”.



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